Il valore del patrimonio culturale: una sfida da considerare

di Sergio Bertolami

Parliamo spesso di cultural heritage, l’eredità culturale che dal passato si trasmette alle generazioni future. Una eredità tangibile o intangibile. L’elenco sarebbe lungo: dalla lingua all’alimentazione, dai costumi alle tradizioni, dall’artigianato alle arti. Una eredità storica che permette di raccontare l’essenza dell’uomo. Scriveva Lucien Febvre, nel 1949: «La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo».

Parliamo spesso di eredità culturale, dunque, ma facciamo fatica ad afferrarne il significato intrinseco. Non accadeva nei tempi passati, quando si parlava meno e si agiva di più. Una quantità di chiese medievali del nostro territorio, dall’originario corpo unico sono state portate a tre e persino a cinque navate. Oggi sarebbe scandaloso. La maggior parte sono sorte in epoca romanica col contributo di generazioni di fedeli che, di secolo in secolo, con le proprie offerte le hanno completate nelle murature e arricchite nelle decorazioni. I prospetti e i sagrati sono edificazioni perlopiù ottocentesche. Non solo i luoghi di culto, ma tutte le architetture di quelli che oggi chiamiamo “centri storici” sono state modificate e a loro volta hanno modificato il tessuto urbano connettivo. Ieri, erano borghi palpitanti di vita. Oggi, per salvaguardarli, dovremmo considerarli alla stregua di musei permanenti a cielo aperto. Un’eredità culturale intoccabile, da conservare e da proteggere, perennemente sottoposta ai pericoli del degrado.

Il ragionamento vale dalla scala urbana a quella degli oggetti. Sono pezzi unici e impagabili, per ricchezza artistica o consistenza documentaria; nelle teche di vetro fanno mostra delle epoche passate. Solo gli esperti possono sfiorare questi oggetti, ma con grande precauzione. Lo stuolo dei visitatori li può solo ammirare; alcuni di essi, li venerano come icone santissime. Oggi, però, non si costruiscono più musei a immagine dei grandi templi nazionalistici della civiltà, come il Louvre, il British, il Metropolitan. Al contrario, troviamo un po’ d’ovunque piccoli musei di cultura materiale: in abbazie, castelli, case di campagna e fattorie, miniere di sale o di carbone, magazzini e prigioni. C’è persino chi, come lo scrittore turco Orhan Pamuk, con il suo “Museo dell’Innocenza” a Istanbul, afferma la necessità di nuovi musei, che attraverso oggetti modesti «onorino i quartieri e le strade e le case e i negozi nelle vicinanze, e li trasformino in elementi delle loro mostre». Questi oggetti tramutano la realtà del vivere quotidiano in museo dell’esistenza umana. Una tale visione sconcerta i benpensanti, ancorati al pregio artistico; ma mette in gioco, e forse riesce a chiarire, le idee confuse sull’eredità culturale di cui stiamo parlando. Così come è comunemente inteso, questo patrimonio ereditato dal passato rispecchia la memoria dei morti piuttosto che quella dei vivi. In realtà occorrerebbe congelare il tempo scisso nelle dimensioni antitetiche di passato e presente, per considerarlo, invece, una continuità mutevole. Il passato fluisce nel presente senza alcuna interruzione, rendendo l’eredità culturale sempre viva.

Per comprendere appieno la differenza fra il patrimonio dei morti e quello dei vivi, basterebbe un semplice esempio. Pamuk assicura che i musei sono nelle nostre case, quindi l’esempio è volutamente impostato proprio su degli oggetti comuni, apparentemente senza qualità. Il portafogli di un parente scomparso è custodito per richiamarne la memoria. Perché non si è conservato nella stessa maniera il contante che vi era contenuto? Perché non si sono disposte sotto vetro banconote e monete in corso, come faremmo con qualsiasi altro oggetto personale appartenuto a quel parente particolarmente caro: l’orologio da taschino del nonno, il cestino da cucito della nonna, lo scatto sbiadito che li ritrae nel giorno delle nozze o attorniati dai nipoti. L’argenteria ereditata viene esibita in vetrina, ma il conto bancario è riscosso. Le cianfrusaglie sono finite in cantina, i beni preziosi invece venduti o impiegati o investiti. In alcuni casi, il patrimonio non è disperso, come nell’antica legge sul maggiorascato; in altri, il patrimonio è inalienabile, come per i beni sottoposti a tutela.

L’esempio, di sicuro stravagante, è la raffigurazione tangibile di come la concezione del valore sia sovente enigmatica. Una eredità familiare dimostra il legame tra chi è scomparso e chi rimane; è da considerarsi viva, perché si trasmette di persona in persona, produce effetti e si trasforma in nuova vita. È il medesimo legame espresso dalle eredità collettive, come nell’esempio delle chiese romaniche, in epoca storica patrimonio di una comunità che utilizzava la ricchezza comune, la conservava, la proteggeva, e nel caso la modificava per rispondere alle rinnovate esigenze. Il valore del bene rispondeva a una utilità sociale condivisa da tutti. A dimostrazione che l’eredità culturale non era frutto della schizofrenia identitaria di oggi. In passato, seppure in presenza di forti disuguaglianze – una ristretta élite colta e una massa largamente analfabeta – il senso di appartenenza, di generazione in generazione, era elemento fondamentale nella trasmissione e nella salvaguardia del bene ereditato. (>>> Continua).

Padova – palazzo Zabarella: Van Gogh, Monet, Degas

Padova – palazzo Zabarella
Van Gogh, Monet, Degas
The Mellon collection of french art from the virginia museum of fine arts
Mostra organizzata dal Virginia Museum of Fine Arts a cura di Colleen Yarger
Dal 26 ottobre 2019 al 1° marzo 2020
WEBSITE UFFICIALE

La mostra celebra Paul Mellon e sua moglie Rachel ‘Bunny’ Lambert, due tra i più importanti e raffinati mecenati del XX secolo.
La Fondazione Bano prosegue il progetto espositivo finalizzato a presentare alcune delle collezioni private più prestigiose al mondo, divenute poi pubbliche. Dopo la rassegna dedicata ai Joan Miró dello Stato portoghese e quella ai Paul Gauguin e gli Impressionisti dello Stato danese, che hanno portato a Padova oltre 250.000 persone, dal 26 ottobre 2019 al 1° marzo 2020, Palazzo Zabarella ospita, in esclusiva per l’Italia, oltre settanta capolavori di Edgar Degas, Eugène Delacroix, Claude Monet, Pablo Picasso e Vincent van Gogh e altri, che celebrano Paul e Rachel ‘Bunny’ Lambert Mellon, due tra i più importanti e raffinati mecenati del Novecento.

La mostra, curata da Colleen Yarger, capo dipartimento ad interim e curatrice del catalogo della Mellon Collection, presenta una preziosa selezione di opere provenienti dalla Mellon Collection of French Art dal Virginia Museum of Arts, che copre un arco cronologico che dalla metà dell’Ottocento, giunge fino ai primi decenni del Novecento, compreso tra il Romanticismo e il Cubismo. Figlio dell’imprenditore Andrew Mellon, uomo tra i tre più ricchi d’America, banchiere e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, anch’egli importante collezionista d’arte, che fu determinante per la nascita della National Gallery of Art di Washington nel 1937, Paul Mellon ha donato alla National Gallery oltre mille opere provenienti sia dalla collezione del padre che dalla propria. I suoi studi a Yale e a Cambridge gli instillarono un grande interesse nei confronti dell’arte inglese, ma è solo dopo il matrimonio con Bunny Lambert, appassionata d’arte e convinta francofila, che i Mellon iniziarono ad acquistare capolavori d’arte francese.

Oltre alle donazioni alla National Gallery di Washington, i coniugi regalarono un importante nucleo di opere francesi al Virginia Museum of Fine Art di Richmond, oltre a lavori d’arte inglese e americana. E sono queste opere d’arte francese che saranno esposte a Palazzo Zabarella, che rispecchiano la personale sensibilità dei Mellon e il loro eccezionale gusto collezionistico. Il percorso espositivo a Palazzo Zabarella si apre con due opere, Mounted Jockey (Fantino a cavallo) di Théodore Géricault e Young Woman Watering a Shrub (Giovane donna che annaffia un arbusto) di Berthe Morisot, che definiscono la genesi del gusto collezionistico dei due coniugi. Da un lato, Paul Mellon era un amante dei cavalli e il fatto che Géricault fosse stato in Inghilterra per studiare le opere di George Stubbs, uno dei pittori di genere animale da lui preferiti, giocò un ruolo fondamentale nel suo interesse verso l’arte francese. Dall’altro, la passione della moglie Bunny si specchia nell’opera dell’artista francese che ritrae la sorella mentre si prende cura delle piante nella sua casa di famiglia, caratterizzata da un morbido tocco e dalle chiare tonalità cromatiche, che rafforza il piacere semplice della vita domestica.

Il percorso prende avvio con alcuni esempi di arte francese a soggetto equestre, tra cui i ritratti di cavalli di Eugène Delacroix e Théodore Géricault e scene di competizioni ippiche di Edgar Degas, del quale viene esposta anche una serie di quattro sculture. Quindi, prosegue analizzando i quadri di natura morta, ovvero di fiori, dipinti da maestri quali Alfred Sisley, Vincent van Gogh, Henri Fantin-Latour, Odilon Redon, che testimoniano la passione che Rachel Lambert Mellon coltivò per il giardinaggio e l’orticultura. Parigi, per tutto il XIX secolo fu la città che maggiormente ispirò gli artisti. I lavori di van Gogh, Pierre Bonnard, Maurice Utrillo rivelano sia vedute famose che poco conosciute, luoghi di festa e scorci delle strade e dei vicoli della capitale francese, a cui i coniugi Mellon rimasero intimamente legati per tutta la loro vita.

La mostra continua analizzando i quadri di figura umana e di ritratto. Qui s’incontrano dipinti di maestri quali Gustave Courbet, Edgar Degas, Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne e altri, in cui le persone non sono colte in pose formali, quanto ritratte in luoghi come le loro case, i loro giardini o in contesti sociali. Il tocco impressionista, immediato e vibrante, era particolarmente adatto per cogliere gli effetti dell’acqua. Nella sezione dedicata a questo elemento, spicca A Man Docking His Skiff (Uomo che ormeggia la propria barca)di Gustave Caillebotte, nel quale l’artista rivela la sua grande capacità nel cogliere le macchie di luce e di ombra, senza dimenticare i dipinti di Eugène Boudin, Édouard Manet, Berthe Morisot che ritraggono la vita sulle spiagge d’inizio secolo scorso.

Uno degli interessi che Bunny Mellon coltivava con maggior passione era quello per l’arredamento. Conosciuta come esempio di buon gusto, Bunny arredò le sue case con rigore e squisita raffinatezza, accogliendo ospiti come Elisabetta II d’Inghilterra, il Principe del Galles o l’amica Jacqueline Kennedy che la volle come sua consigliera per arredare le sue molte abitazioni. A Palazzo Zabarella, non possono quindi mancare opere di autori quali Felix Vallotton, Henri Matisse, Paul Gauguin, Raoul Dufy che propongono vedute d’interno. Tra queste, si segnala The Chinese Chest of Drawers (La cassettiera cinese), capolavoro di natura morta cubista di Pablo Picasso, che rappresenta la volontà delle avanguardie di abbattere concetti e confini stilistici in cerca di nuove espressioni.

Il percorso conduce quindi il visitatore nella campagna francese per ammirare opere come Field of Poppies, Giverny (Campo di papaveri, Giverny) di Claude Monet, caratterizzato da una larga banda di colore rosso che divide lo sfondo dal primo piano, o come dipinti di piccole dimensioni di Georges Seurat, Kees van Dongen e Vincent van Gogh che trasformano il paesaggio rurale in una orchestrazione di atmosfera, energia e pura luce. Chiude idealmente la mostra, una raffinata selezione di opere impressioniste, con due paesaggi di Monet, un ritratto di Renoir e una delle famose ballerine di Degas.