L’Armonia nella Fotografia

Attraverso la diffusa regola dei terzi -una griglia immaginaria che divide lo spazio rettangolare in nove quadrati uguali- la sezione e la spirale aurea è possibile creare immagini che sono tutt’altro che statiche determinando in tal modo un interesse per l’occhio. (lucecosmica)

IMMAGINE DI APERTURA – Illustrazione di freeillustrated su Pixabay

Firenze Palazzo Vecchio -Leonardo da Vinci e Firenze

Firenze Palazzo Vecchio, Sala dei Gigli
Leonardo da Vinci e Firenze – Fogli scelti dal Codice Atlantico
a cura di Cristina Acidini
29 marzo – 24 giugno 2019

Leonardo da Vinci, Foglio del Codice Atlantico

Cinquecento anni fa, nel castello di Clos-Lucé, in Francia, moriva Leonardo da Vinci. Aveva lasciato Firenze da oltre dieci anni, ma alla sua città era rimasto profondamente legato. Per tutta la vita si definì ‘pittore fiorentino’, chiese nelle volontà testamentarie di essere sepolto nella ‘giesia de sancto Fiorentino de Amboysia’ e dedicò uno dei suoi ultimi ricordi scritti, l’anno prima di morire, al serraglio dei leoni che si trovava dietro Palazzo Vecchio. Il foglio dedicato all’animale totemico di Firenze, testimonianza di un ricordo ancora vivissimo, porta la significativa data del 24 giugno 1518, giorno del patrono cittadino. E proprio nel nome di questo legame, la sua città lo celebra oggi con la mostra Leonardo da Vinci e Firenze. Fogli scelti dal Codice Atlantico, che presenta, in Palazzo Vecchio, allora come adesso il luogo più rappresentativo della città, dodici carte vergate da Leonardo, provenienti dalla veneranda Biblioteca Ambrosiana e proposte in un percorso a cura di Cristina Acidini, dal 29 marzo al 24 giugno 2019. La mostra, promossa dal Comune di Firenze, è organizzata da Mus.e grazie al preziosissimo contributo di ENGIE, player mondiale dell’energia e dei servizi, che ha quale obiettivo quello di guidare la transizione a zero emissioni di CO2.

Dice il Sindaco di Firenze Dario Nardella: “Una mostra su Leonardo nell’anno Leonardiano, a 500 anni dalla morte, quando tutta Italia e oltre festeggiano il Genio con eventi, iniziative ed esposizioni, è stata una sfida doverosa e avvincente, della quale ringrazio la curatrice Cristina Acidini, studiosa appassionata che ha trovato una diversa narrazione dell’artista caratterizzata dal rapporto sempre solido e mai dimenticato con la nostra e sua città”. “Sostenere questa iniziativa ci rende particolarmente fieri, soprattutto in questa città, Firenze, dove ENGIE è attiva e presente da molti  anni”, ha dichiarato Olivier Jacquier, Amministratore Delegato di ENGIE Italia. “Leonardo è stato un visionario illuminato, con uno sguardo innovativo al futuro e un occhio attento al mondo e alla natura. In ENGIE condividiamo, a livello mondiale, l’impegno di tutelare l’ambiente e lavoriamo ogni giorno per promuovere, con approccio inclusivo, comportamenti virtuosi per la sua salvaguardia. Riteniamo che l’innovazione sia driver fondamentale per un progresso più armonioso”.

Il Codice Atlantico, conservato nella storica biblioteca di Milano, è composto da 1119 fogli, contenenti per lo più scritti e disegni di Leonardo da Vinci. Questo straordinario patrimonio grafico non è certo sconosciuto. Oltre alle edizioni integrali, che hanno seguito la prima curata dall’Accademia dei Lincei nel 1884, non si contano le ricerche e le pubblicazioni sui vari fogli a cura di studiosi di tutto il mondo. Inoltre, dopo l’imponente lavoro di restauro del Codice, nel 2008, la Biblioteca Ambrosiana stessa ha organizzato ben ventiquattro mostre, presentando diversi raggruppamenti tematici corrispondenti ai molteplici interessi di Leonardo e contribuendo così a mettere a fuoco la portata e la natura del suo ingegno: ‘Ingegno eccelso, poliedrico e dispersivo’, come lo definisce Cristina Acidini nella bella introduzione al catalogo.

“Trovare un nuovo percorso tematico che fosse scientificamente fondato e sostenibile, non è dunque stato facile – racconta Cristina Acidini – non si è voluta fare una scelta cronologica, tentando di ricostruire le attività e le ricerche di Leonardo, ne’ una scelta di tipo estetico, privilegiando i fogli con disegni più grandi e godibili. Si è fatto invece un percorso diverso e mai tentato, partendo dalla città stessa della mostra, Firenze, e andando a cercare nei fogli del Codice i tanti richiami al luogo d’origine, mai veramente lasciato e comunque mai dimenticato. Leonardo e Firenze, dunque. Non solo Leonardo a Firenze, ma anche Firenze con Leonardo, sempre presente nella sua mente, ovunque egli si trovasse – a Milano, nell’Italia del Nord e del Centro, a Roma, infine in Francia – attraverso le reti di protezioni, conoscenze, amicizie, corrispondenze e nel bagaglio che sempre si portava appresso, di esperienze e ricordi, il lavorìo progettuale, la continuazione dei quadri iniziati in patria”.

I dodici fogli scelti, che non sono gli unici in cui si trovano richiami a Firenze, funzionano come fili d’Arianna al contrario, che indirizzano il visitatore nei profondi meandri del Labirinto, anziché indicarne l’uscita. E come Labirinto si devono considerare i tantissimi aspetti del rapporto sfaccettato e molto spesso contraddittorio tra Leonardo e la città nel cui dominio nacque e nella quale trascorse gli anni fondamentali della sua formazione.

Le carte in mostra sono state scritte tra gli anni Settanta del Quattrocento e la morte di Leonardo, nel 1519, e hanno tutte una straordinaria capacità evocativa. Grazie al contributo di esperti dei diversi argomenti trattati, di ogni foglio la mostra fornisce la motivazione per la quale è stato incluso, a partire dal primo che contiene la nota frase “Sandro, tu non di’ perché tali cose seconde paiono più basse che le terze”, interpretata come una critica alla prospettiva di Botticelli e che rimanda ai tempi in cui i due frequentavano entrambi la bottega di Andrea del Verrocchio, gettando le basi di una confidenza, che tuttavia non escluse mai la rivalità.

La bottega del Verrocchio, crogiuolo di personalità artistiche, accolse Leonardo giovanissimo, fornendogli le basi non solo per la pittura, ma anche per le tecniche più difficili della statuaria e della lavorazione dei metalli. Da un altro suo ricordo esposto in mostra, si capisce che aveva visto da vicino la palla di rame dorato, montata nel 1471 dal suo maestro sopra la lanterna della cupola del Brunelleschi. E in quella e in altre occasioni, non avrà mancato di studiare le macchine di cantiere ancora presenti presso l’opera del Duomo, cui ripensò sicuramente in seguito, consulente per la costruzione del tiburio della Cattedrale di Milano, nel 1487-88.

In questa città Leonardo – in contatto con mercanti, banchieri e viaggiatori fiorentini – faceva da tramite tra la corte di Ludovico il Moro e la città natale, per le occorrenze più diverse: e così da un altro foglio esposto si capisce che gli venne chiesto di procurare un testo sul governo della città di Firenze di cui era probabilmente autore fra’ Girolamo Savonarola, il predicatore domenicano che dopo la cacciata dei Medici instaurò a Firenze un’effimera teocrazia, salvo venire scomunicato e arso nel 1498. Leonardo certo lo conobbe, quando fu consultato per la costruzione della Sala del Maggior Consiglio, oggi dei Cinquecento, nel palazzo del governo.

Assente da Firenze per quasi venti anni, Leonardo vi torna nel 1500 e, stabilmente, nel 1503. Un suo punto di riferimento durante questo secondo soggiorno in città è il grande Spedale di Santa Maria Nuova, dove deposita i risparmi nel giorno della morte di suo padre, nel 1504 (lo ricorda in uno dei fogli in mostra), frequenta la Compagnia di San Luca che qui aveva sede e soprattutto ha l’opportunità di studiare l’anatomia umana, tramite la dissezione dei cadaveri.

Questo è anche il periodo delle grandi imprese, degli studi ambiziosi. Il foglio con il ricordo d’infanzia del “sogno del nibbio”, considerato nel catalogo anche come caposaldo nella storia della psicanalisi per il saggio che ispirò a Freud (1910), porta con sé la passione per lo studio del volo: il volo degli uccelli, e, attraverso quello, il sogno dell’ala meccanica e del volo umano. A questo periodo risale, se ci fu davvero, l’esperimento del Monte Ceceri. Contemporaneamente studia l’idrografia fiorentina e l’intera valle dell’Arno, progettando la deviazione del fiume tramite un “Canale” che ne razionalizzasse il corso tortuoso. Il foglio esposto allude a un’impresa degna di un faraone, talmente grandiosa che i mercanti fiorentini non poterono finanziarla.

A quella stessa epoca risale infine la grande occasione artistica offertagli dal gonfaloniere Pier Soderini: la realizzazione della Battaglia d’Anghiari da dipingersi in palazzo (per cui esistono le “istruzioni” nel foglio esposto del Codice) a concorrenza con la Battaglia di Cascina di Michelangelo. Ma l’opera, approntata con disegni, cartoni e preparazione del muro, è andata presto perduta, con un fallimento forse parziale, ma sicuramente molto doloroso per Leonardo.

Da lì a poco lo si ritrova a Milano al servizio dei Francesi, poi tra Firenze e Roma, dove rinsalda, alla corte di Leone X, il suo legame con la famiglia dei Medici e in particolare con Giuliano, figlio di Lorenzo il Magnifico. Due fogli esemplificano in mostra le relazioni con il casato fiorentino che, iniziate negli ultimi decenni del Quattrocento sotto la protezione di Lorenzo, proseguirono con i suoi discendenti: ma non senza ombre, e funestate dalla morte di Giuliano nel 1517. Da lì la partenza per la Francia, al servizio di Francesco I.

In questa vita complessa, costellata di incarichi prestigiosi dagli esiti non sempre positivi, ma vissuta sempre sotto il segno di una curiosità insaziabile, Firenze fu, nella presenza e nella lontananza, il suo stabile punto di riferimento. E i fogli in mostra, nel loro succedersi, portano il visitatore al riconoscimento di questa vera e propria stella polare per l’artista.

Chiude l’esposizione, contraltare delle opere su carta, un solo quadro. Proveniente dalla Pinacoteca Ambrosiana, cui è stato donato nel 2013, il dipinto è di Gian Giacomo Caprotti detto Salaino e raffigura il Busto del Redentore. Nell’allestimento, introduce un argomento nuovo, non trattandosi di un’opera riconosciuta come di Leonardo da Vinci, e non essendo riconducibile al rapporto del maestro con la sua città. Il dipinto tuttavia è connesso, per vie ancora misteriose ma inequivocabili, al Salaino, del quale reca la firma, o il soprannome, SALAI, uno degli assistenti più cari a Leonardo, che lo seguì sicuramente nel soggiorno a Firenze, nei primi anni del Cinquecento. Questa effige d’iconica fissità e di remota dolcezza, d’indubbio sentore leonardesco, fa ancora molto pensare e farà ancora molto discutere. Il che, in fondo, è quanto di meglio si possa chiedere ad una mostra.

IMMAGINE DI APERTURA – Uno scorcio della mostra a Palazzo Vecchio, Sala dei Gigli.

Barack Obama – I sogni di mio padre

Questa storia ha inizio a New York quando, appena ventenne, Barack Obama riceve la notizia della morte di suo padre in un incidente stradale. È una scomparsa improvvisa che scatena un inarrestabile flusso di ricordi: la partenza della famiglia materna da un piccolo villaggio del Kansas verso le Hawaii; l’amore, nutrito dall’innocenza della gioventù e dallo spirito libertario dei primi anni Sessanta, tra sua madre e un giovane e promettente studente keniota; la separazione dal padre quando il piccolo Barack ha solo due anni; i dubbi e le paure che ben presto maturano in lui per l’incapacità di dare un senso al suo tormentoso passato.

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Stefan Klein – Il tutto e il niente

Il tutto e il niente trasforma una cosa semplice, come un fiore o un giorno di tempesta, nella chiave per comprendere le idee e le teorie più complesse della fisica del XXI secolo, e Stefan Klein con limpidezza e un tocco di poesia scioglie le complessità del mondo con le sue domande gioiose. Più conosciamo la realtà, più ci appare misteriosa, ma è solo continuando a interrogarci su di essa che una rosa sarà ancora molto di più di una semplice rosa.

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Il valore del patrimonio culturale: una sfida da considerare

di Sergio Bertolami

Parliamo spesso di cultural heritage, l’eredità culturale che dal passato si trasmette alle generazioni future. Una eredità tangibile o intangibile. L’elenco sarebbe lungo: dalla lingua all’alimentazione, dai costumi alle tradizioni, dall’artigianato alle arti. Una eredità storica che permette di raccontare l’essenza dell’uomo. Scriveva Lucien Febvre, nel 1949: «La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo».

Parliamo spesso di eredità culturale, dunque, ma facciamo fatica ad afferrarne il significato intrinseco. Non accadeva nei tempi passati, quando si parlava meno e si agiva di più. Una quantità di chiese medievali del nostro territorio, dall’originario corpo unico sono state portate a tre e persino a cinque navate. Oggi sarebbe scandaloso. La maggior parte sono sorte in epoca romanica col contributo di generazioni di fedeli che, di secolo in secolo, con le proprie offerte le hanno completate nelle murature e arricchite nelle decorazioni. I prospetti e i sagrati sono edificazioni perlopiù ottocentesche. Non solo i luoghi di culto, ma tutte le architetture di quelli che oggi chiamiamo “centri storici” sono state modificate e a loro volta hanno modificato il tessuto urbano connettivo. Ieri, erano borghi palpitanti di vita. Oggi, per salvaguardarli, dovremmo considerarli alla stregua di musei permanenti a cielo aperto. Un’eredità culturale intoccabile, da conservare e da proteggere, perennemente sottoposta ai pericoli del degrado.

Il ragionamento vale dalla scala urbana a quella degli oggetti. Sono pezzi unici e impagabili, per ricchezza artistica o consistenza documentaria; nelle teche di vetro fanno mostra delle epoche passate. Solo gli esperti possono sfiorare questi oggetti, ma con grande precauzione. Lo stuolo dei visitatori li può solo ammirare; alcuni di essi, li venerano come icone santissime. Oggi, però, non si costruiscono più musei a immagine dei grandi templi nazionalistici della civiltà, come il Louvre, il British, il Metropolitan. Al contrario, troviamo un po’ d’ovunque piccoli musei di cultura materiale: in abbazie, castelli, case di campagna e fattorie, miniere di sale o di carbone, magazzini e prigioni. C’è persino chi, come lo scrittore turco Orhan Pamuk, con il suo “Museo dell’Innocenza” a Istanbul, afferma la necessità di nuovi musei, che attraverso oggetti modesti «onorino i quartieri e le strade e le case e i negozi nelle vicinanze, e li trasformino in elementi delle loro mostre». Questi oggetti tramutano la realtà del vivere quotidiano in museo dell’esistenza umana. Una tale visione sconcerta i benpensanti, ancorati al pregio artistico; ma mette in gioco, e forse riesce a chiarire, le idee confuse sull’eredità culturale di cui stiamo parlando. Così come è comunemente inteso, questo patrimonio ereditato dal passato rispecchia la memoria dei morti piuttosto che quella dei vivi. In realtà occorrerebbe congelare il tempo scisso nelle dimensioni antitetiche di passato e presente, per considerarlo, invece, una continuità mutevole. Il passato fluisce nel presente senza alcuna interruzione, rendendo l’eredità culturale sempre viva.

Per comprendere appieno la differenza fra il patrimonio dei morti e quello dei vivi, basterebbe un semplice esempio. Pamuk assicura che i musei sono nelle nostre case, quindi l’esempio è volutamente impostato proprio su degli oggetti comuni, apparentemente senza qualità. Il portafogli di un parente scomparso è custodito per richiamarne la memoria. Perché non si è conservato nella stessa maniera il contante che vi era contenuto? Perché non si sono disposte sotto vetro banconote e monete in corso, come faremmo con qualsiasi altro oggetto personale appartenuto a quel parente particolarmente caro: l’orologio da taschino del nonno, il cestino da cucito della nonna, lo scatto sbiadito che li ritrae nel giorno delle nozze o attorniati dai nipoti. L’argenteria ereditata viene esibita in vetrina, ma il conto bancario è riscosso. Le cianfrusaglie sono finite in cantina, i beni preziosi invece venduti o impiegati o investiti. In alcuni casi, il patrimonio non è disperso, come nell’antica legge sul maggiorascato; in altri, il patrimonio è inalienabile, come per i beni sottoposti a tutela.

L’esempio, di sicuro stravagante, è la raffigurazione tangibile di come la concezione del valore sia sovente enigmatica. Una eredità familiare dimostra il legame tra chi è scomparso e chi rimane; è da considerarsi viva, perché si trasmette di persona in persona, produce effetti e si trasforma in nuova vita. È il medesimo legame espresso dalle eredità collettive, come nell’esempio delle chiese romaniche, in epoca storica patrimonio di una comunità che utilizzava la ricchezza comune, la conservava, la proteggeva, e nel caso la modificava per rispondere alle rinnovate esigenze. Il valore del bene rispondeva a una utilità sociale condivisa da tutti. A dimostrazione che l’eredità culturale non era frutto della schizofrenia identitaria di oggi. In passato, seppure in presenza di forti disuguaglianze – una ristretta élite colta e una massa largamente analfabeta – il senso di appartenenza, di generazione in generazione, era elemento fondamentale nella trasmissione e nella salvaguardia del bene ereditato. (>>> Continua).

Padova – palazzo Zabarella: Van Gogh, Monet, Degas

Padova – palazzo Zabarella
Van Gogh, Monet, Degas
The Mellon collection of french art from the virginia museum of fine arts
Mostra organizzata dal Virginia Museum of Fine Arts a cura di Colleen Yarger
Dal 26 ottobre 2019 al 1° marzo 2020
WEBSITE UFFICIALE

La mostra celebra Paul Mellon e sua moglie Rachel ‘Bunny’ Lambert, due tra i più importanti e raffinati mecenati del XX secolo.
La Fondazione Bano prosegue il progetto espositivo finalizzato a presentare alcune delle collezioni private più prestigiose al mondo, divenute poi pubbliche. Dopo la rassegna dedicata ai Joan Miró dello Stato portoghese e quella ai Paul Gauguin e gli Impressionisti dello Stato danese, che hanno portato a Padova oltre 250.000 persone, dal 26 ottobre 2019 al 1° marzo 2020, Palazzo Zabarella ospita, in esclusiva per l’Italia, oltre settanta capolavori di Edgar Degas, Eugène Delacroix, Claude Monet, Pablo Picasso e Vincent van Gogh e altri, che celebrano Paul e Rachel ‘Bunny’ Lambert Mellon, due tra i più importanti e raffinati mecenati del Novecento.

La mostra, curata da Colleen Yarger, capo dipartimento ad interim e curatrice del catalogo della Mellon Collection, presenta una preziosa selezione di opere provenienti dalla Mellon Collection of French Art dal Virginia Museum of Arts, che copre un arco cronologico che dalla metà dell’Ottocento, giunge fino ai primi decenni del Novecento, compreso tra il Romanticismo e il Cubismo. Figlio dell’imprenditore Andrew Mellon, uomo tra i tre più ricchi d’America, banchiere e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, anch’egli importante collezionista d’arte, che fu determinante per la nascita della National Gallery of Art di Washington nel 1937, Paul Mellon ha donato alla National Gallery oltre mille opere provenienti sia dalla collezione del padre che dalla propria. I suoi studi a Yale e a Cambridge gli instillarono un grande interesse nei confronti dell’arte inglese, ma è solo dopo il matrimonio con Bunny Lambert, appassionata d’arte e convinta francofila, che i Mellon iniziarono ad acquistare capolavori d’arte francese.

Oltre alle donazioni alla National Gallery di Washington, i coniugi regalarono un importante nucleo di opere francesi al Virginia Museum of Fine Art di Richmond, oltre a lavori d’arte inglese e americana. E sono queste opere d’arte francese che saranno esposte a Palazzo Zabarella, che rispecchiano la personale sensibilità dei Mellon e il loro eccezionale gusto collezionistico. Il percorso espositivo a Palazzo Zabarella si apre con due opere, Mounted Jockey (Fantino a cavallo) di Théodore Géricault e Young Woman Watering a Shrub (Giovane donna che annaffia un arbusto) di Berthe Morisot, che definiscono la genesi del gusto collezionistico dei due coniugi. Da un lato, Paul Mellon era un amante dei cavalli e il fatto che Géricault fosse stato in Inghilterra per studiare le opere di George Stubbs, uno dei pittori di genere animale da lui preferiti, giocò un ruolo fondamentale nel suo interesse verso l’arte francese. Dall’altro, la passione della moglie Bunny si specchia nell’opera dell’artista francese che ritrae la sorella mentre si prende cura delle piante nella sua casa di famiglia, caratterizzata da un morbido tocco e dalle chiare tonalità cromatiche, che rafforza il piacere semplice della vita domestica.

Il percorso prende avvio con alcuni esempi di arte francese a soggetto equestre, tra cui i ritratti di cavalli di Eugène Delacroix e Théodore Géricault e scene di competizioni ippiche di Edgar Degas, del quale viene esposta anche una serie di quattro sculture. Quindi, prosegue analizzando i quadri di natura morta, ovvero di fiori, dipinti da maestri quali Alfred Sisley, Vincent van Gogh, Henri Fantin-Latour, Odilon Redon, che testimoniano la passione che Rachel Lambert Mellon coltivò per il giardinaggio e l’orticultura. Parigi, per tutto il XIX secolo fu la città che maggiormente ispirò gli artisti. I lavori di van Gogh, Pierre Bonnard, Maurice Utrillo rivelano sia vedute famose che poco conosciute, luoghi di festa e scorci delle strade e dei vicoli della capitale francese, a cui i coniugi Mellon rimasero intimamente legati per tutta la loro vita.

La mostra continua analizzando i quadri di figura umana e di ritratto. Qui s’incontrano dipinti di maestri quali Gustave Courbet, Edgar Degas, Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne e altri, in cui le persone non sono colte in pose formali, quanto ritratte in luoghi come le loro case, i loro giardini o in contesti sociali. Il tocco impressionista, immediato e vibrante, era particolarmente adatto per cogliere gli effetti dell’acqua. Nella sezione dedicata a questo elemento, spicca A Man Docking His Skiff (Uomo che ormeggia la propria barca)di Gustave Caillebotte, nel quale l’artista rivela la sua grande capacità nel cogliere le macchie di luce e di ombra, senza dimenticare i dipinti di Eugène Boudin, Édouard Manet, Berthe Morisot che ritraggono la vita sulle spiagge d’inizio secolo scorso.

Uno degli interessi che Bunny Mellon coltivava con maggior passione era quello per l’arredamento. Conosciuta come esempio di buon gusto, Bunny arredò le sue case con rigore e squisita raffinatezza, accogliendo ospiti come Elisabetta II d’Inghilterra, il Principe del Galles o l’amica Jacqueline Kennedy che la volle come sua consigliera per arredare le sue molte abitazioni. A Palazzo Zabarella, non possono quindi mancare opere di autori quali Felix Vallotton, Henri Matisse, Paul Gauguin, Raoul Dufy che propongono vedute d’interno. Tra queste, si segnala The Chinese Chest of Drawers (La cassettiera cinese), capolavoro di natura morta cubista di Pablo Picasso, che rappresenta la volontà delle avanguardie di abbattere concetti e confini stilistici in cerca di nuove espressioni.

Il percorso conduce quindi il visitatore nella campagna francese per ammirare opere come Field of Poppies, Giverny (Campo di papaveri, Giverny) di Claude Monet, caratterizzato da una larga banda di colore rosso che divide lo sfondo dal primo piano, o come dipinti di piccole dimensioni di Georges Seurat, Kees van Dongen e Vincent van Gogh che trasformano il paesaggio rurale in una orchestrazione di atmosfera, energia e pura luce. Chiude idealmente la mostra, una raffinata selezione di opere impressioniste, con due paesaggi di Monet, un ritratto di Renoir e una delle famose ballerine di Degas.

Gorgonzola: un formaggio tutto italiano dal sapore straordinario

Il Gorgonzola è un formaggio molto antico, ma la sua origine è velata di un alone leggendario: F. Massara, antico scrittore di cronache, pensava che il gorgonzola dovesse considerarsi un perfezionamento di quel cacio che Ansperto da Biassono, arcivescovo di Milano dall’868 all’881, menzionò nel suo testamento. Altri affermano che il gorgonzola sarebbe stato fatto per la prima volta nella località omonima nell’anno di grazia 879. Altri ancora dicono invece che la nascita avrebbe avuto luogo a Pasturo, nella Valsassina, grande centro caseario da secoli, grazie alla presenza di quelle ottime grotte naturali la cui temperatura media è costante tra i 6 ed i 12 °C, e ne consente la perfetta riuscita. Un’altra ipotesi vede una nascita del gorgonzola più folcloristica: in un autunno tra il VIII e il IX secolo, dei mandriani di ritorno dalle malghe alpine fecero una sosta a Gorgonzola. Uno di loro aveva dimenticato gli strumenti per lavorare il latte e farne crescenza o quartirolo, così lasciò la cagliata in un recipiente e la unì a quella del mattino, ma l’unione delle due paste aveva creato il Gorgonzola.

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GORGONZOLA

Milano, Museo Diocesano -Magnum’s first. La prima mostra di Magnum

Milano – Museo Diocesano Carlo Maria Martini
Magnum’s first
La prima mostra di Magnum

8 maggio – 6 ottobre 2019

La mostra presenta 83 stampe vintage in bianco e nero di otto maestri del Novecento: Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Werner Bischof, Inge Morath, Erich Lessing, Marc Riboud, Jean Marquis, Ernst Haas.
La rassegna ripercorre per intero la prima mostra del gruppo di autori, appartenenti all’Agenzia fotografica Magnum, tra il 1955 e il 1956. Il corpus di opere, abbandonato in una cantina di Innsbruck, è stato ritrovato cinquant’anni dopo, nel 2006, ancora chiuso nelle sue casse.Da sempre attento ai nuovi linguaggi dell’arte contemporanea, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano torna ad aprirsi alla fotografia.Dall’8 maggio al 6 ottobre 2019, è in programma la mostra che celebra Magnum Photos, una delle agenzie fotografiche più importanti del Novecento, attraverso 83 opere vintage in bianco e nero dei suoi maggiori esponenti, da Henri Cartier-Bresson a Marc Riboud, da Inge Morath a Jean Marquis, da Werner Bischof a Ernst Haas, da Robert Capa a Erich Lessing.

L’esposizione, curata da Andrea Holzherr, Global Exhibitions Manager di Magnum Photosin collaborazione con Magnum, col patrocinio del Comune di Milano e il sostegno di Rinascente, sponsor tecnico Erco, dal titolo Magnum’s first. La prima mostra di Magnum riveste un grande significato storico. La rassegna, infatti, ripercorre la prima mostra del gruppo Magnum– intitolata Gesicht der Zeit (Il volto del tempo) – tenuta tra il 1955 e il 1956 in cinque città austriache. Curiosamente, tutto il corpus di immagini venne dimenticato in una cantina di Innsbruck e ritrovato cinquant’anni dopo, nel 2006, ancora chiuso nelle sue casse. “Ciò che trovammo nelle casse – afferma la curatrice Andrea Holzherr – era, a dir poco, sorprendente: una serie di vecchi pannelli di legno su cui erano montate delle fotografie molto sporche. Perciò, il mio primo contatto con la vecchia mostra somigliava più alla scoperta di una mummia che a quella di un tesoro. I materiali erano in pessime condizioni: le foto erano ricoperte di polvere, sporco e muffa, e avevano perfino un odore di stantio!”. “La mostra – prosegue Andrea Holzherr – è un rompicapo, un mistero, e rimane la prima mostra in assoluto di foto Magnum di cui si abbia notizia! La sua esistenza è la prova che, sin dall’inizio, la Magnum era diversa dalle altre agenzie fotografiche. Dagli esordi, con il programma di mostre ed eventi, la Magnum difendeva sia il valore della foto come documento”. L’eccezionalità del ritrovamento, oltre a riportare d’attualità il patrimonio di immagini originali fortunatamente ritornate alla luce, offre anche la possibilità di rivedere la mostra esattamente così come era stata pensata. In due casse di legno si trovavano, infatti le ottantatré foto in bianco e nero montate su pannelli di legno colorati, insieme al testo di presentazione, ai cartellini con i nomi, alla locandina originale e alle istruzioni dattiloscritte sull’allestimento.

Il percorso espositivo, che presenta otto servizi fotogiornalistici, corredati da una sezione introduttiva, ruota attorno alle diciotto fotografie in bianco e nero di Henri Cartier-Bresson, sugli ultimi giorni e il funerale del Mahatma Gandhi, che facevano parte del servizio pubblicato dalla rivista Life nel febbraio 1948. Allontanandosi volutamente da quel genere di reportage di guerra che lo aveva reso famoso, ecco tre immagini di Robert Capa, che documentano un gruppo di popolani che danza a una festa basca, a Biarritz, nel sud della Francia nel 1951. Queste fotografie, pubblicate postume, avevano lo scopo di sottolineare il ritorno alla pace in una regione divenuta sinonimo di barbarie, al tempo della Guerra civile spagnola. La mostra prosegue con le foto di scena di Ernst Haas, scattate sul set del kolossal hollywoodiano La regina delle Piramidi del 1955, allestito nelle cave di pietra di Assuan, dove caldo, tempeste di sabbia e il Ramadan fecero dell’impresa una vera e propria tortura per le quattromila comparse, quasi tutte musulmane. A queste, fanno seguito le sette fotografie di Werner Bischof, raccolte durante il suo viaggio intorno al mondo nei primi anni cinquanta. Immagini come il bambino che suona il flauto in Perù, o il prete shintoista nel cortile del tempio in Giappone, sono piene di delicate sfumature, pregevoli sia per la composizione che per le tonalità di bianco e nero.

Unica donna del gruppo, Inge Morath propone una serie di dieci fotografie, realizzate a Londra, per un articolo pubblicato sulla rivista Holiday nel1953, tra cui il ritratto di Lady Nash, il suo scatto più famoso. Altro grande contributo di fotogiornalismo è quello di Jean Marquis, autore poco conosciuto fuori dai confini della Francia, probabilmente membro della Magnum fino al 1957. Le sue fotografie furono scattate durante un viaggio che fece con la moglie in Ungheria, nel maggio 1954, e che furono pubblicate nel novembre dello stesso anno sul New York Times Magazine.Erich Lessing ha documentato l’occupazione nazista di Vienna, la sua città, da cui trapelano serenità e anche, in certo modo, buonumore, in luoghi simbolo della capitale austriaca come il giardino del Belvedere, il Prater, il Rathauspark. Chiude idealmente l’esposizione, le opere giovanili di Marc Riboud, che risalgono al 1951, prima del suo ingresso nella Magnum, e documentano la vita nei villaggi dalmati, tra Vrlika, Spalato e Dubrovnik. Emblematica la foto finale di questa serie, ovvero un grande ritratto del presidente jugoslavo Tito mentre viene riportata al suo posto alla fine di un congresso.
Accompagna la mostra un catalogo Silvana editoriale.

IMMAGINE DI APERTURA – Robert Capa, Village festival, Basque Country, France, 1951; © Robert Capa/International Center of Photography/Magnum Photos

Mickael Cuillerat – L’avenir des villes-musées, l’exemple italien

La ville italienne semble fi gée dans un idéal passéiste, muséifiée pour sembler éternelle. Mais l’éternité n’est-elle pas un gage d’échec si l’on souhaite intégrer la ville dans les composantes de l’urbanité du XXIème siècle ? Venise semble être l’exemple parfait de cette mort progressive de la ville idéalement protegée. La protection du patrimoine, si complexe en Italie, n’est pourtant pas un gage de cristallisation de la ville ancienne. Cependant comment concilier modernité et patrimoine dans ces villes italiennes si atypiques ? D’autres villes italiennes comme Rome ou encore Gênes ont su adapter leur centre-ville historique aux ambitions de la ville contemporaine, tout en assurant une pérénnité au patrimoine ancien.Ce mémoire se veut être un portait de la ville ancienne au XXIème, à l’heure où le futur de celle-ci reste incertain mais pour laquelle il va falloir trouver des solutions viables pour reconstruire la ville sur elle-même.

IMMAGINE DI APERTURA – Genova: il bigo di Renzo Piano, foto tratta da pag. 4 del libro.

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Treviso, Casa dei Carraresi – Inge Morath. La vita, la fotografia

Treviso, Casa dei Carraresi
Inge Morath. La vita, la fotografia
Mostra a cura di Brigitte Blüml – Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
28 Febbraio 2019 – 09 Giugno 2019

Casa dei Carraresi di Treviso accoglie, dopo il successo della mostra su Elliott Erwitt ed i suoi cani, la prima grande retrospettiva italiana di Inge Morath, la prima donna ad essere inserita nel cenacolo, all’epoca tutto maschile, della celebra agenzia fotografica Magnum Photos. Impropriamente nota alle cronache più per aver sostituito la mitica Marilyn Monroe nel cuore dello scrittore Arthur Miller, divenendone moglie e compagna di vita, è stata in realtà soprattutto una straordinaria fotografa ed una fine intellettuale. Il suo rapporto con la fotografia è stato un crescendo graduale: dopo aver lavorato come traduttrice e scrittrice in Austria, inizia a scattare nel 1952, e dall’anno successivo, grazie ad Ernst Haas inizia a lavorare per Magnum Photos a Parigi. Limitarsi a considerarla una fotografa di questa celebre agenzia è riduttivo. Le celebri fotografie realizzate durante i suoi viaggi, o gli intensi ritratti in grado di catturare le intimità più profonde dei suoi soggetti, si accompagnano ad un’intensa attività intellettuale che si alimentava di amicizie con celebri scrittori, artisti, grafici e musicisti. Che si trattasse di raccontare paesaggi e Paesi, persone o situazioni, le sue foto erano sempre caratterizzate da una visione personale e da specifica sensibilità, in grado di arricchire la percezione del mondo che la circondava. Come Inge Morath era solita dire: “Ti fidi dei tuoi occhi e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima”.

Ogni reportage di viaggio ed ogni incontro veniva da lei preparato con cura maniacale. La sua conoscenza di diverse lingue straniere le permetteva di analizzare in profondità ogni situazione e di entrare in contatto diretto e profondo con la gente. Per questa ampia retrospettiva a Casa dei Carraresi – una selezione di oltre 150 fotografie e decine di documenti riferiti al lavoro di Inge Morath – i curatori hanno dato vita ad un percorso che analizzerà tutte le principali fasi del lavoro della Morath, ma al contempo cercherà di far emergere l’umanità che incarna tutta la sua produzione. Una sensibilità segnata dell’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, che con gli anni si rafforzerà e diventerà documentazione della resistenza dello spirito umano alle estreme difficoltà e consapevolezza del valore della vita. La mostra ripercorre tutti i principali reportage realizzati dalla fotografa austriaca: da quello dedicato alla città di Venezia a quello sul fiume Danubio; dalla Spagna alla Russia, dall’Iran alla Cina, alla Romania, agli Stati Uniti d’America passando per la nativa Austria.

Contemporaneamente il percorso espositivo darà spazio ai suoi celebri ritratti di scrittori, pittori, poeti, tra cui lo stesso Arthur Miller, oltre ad Alberto Giacometti, Pablo Picasso e Alexander Calder: quest’ultimo suo vicino di casa a Roxbury, nel Connecticut, dove Inge Morath visse con il marito Premio Pulitzer per tutta la vita. Ci sarà poi spazio anche per il mondo del cinema. Nel 1960 Inge Morath viene infatti inviata dall’agenzia Magnum nel set della pellicola hollywoodiana “The Misfits”, un’enorme produzione cinematografica con alla regia John Houston, alla sceneggiatura Arthur Miller, ed attori del calibro di Clark Gable e Marilyn Monroe. All’epoca Miller e la Monroe erano sposati, ma la loro relazione era già in difficoltà. Proprio sul set del film, la Morath ebbe modo di conoscere lo scrittore, che sarebbe diventato poi suo marito. Come dichiara Marco Minuz: “E’ un progetto espositivo che vuole descrivere, nel dettaglio e per la prima volta in Italia, la straordinaria vita di questa fotografa; una donna dalle scelte coraggiose, emancipata, che ha saputo nella fotografia inserirci la sua sensibilità verso l’essere umano”.

Questa prima retrospettiva italiana è prodotta da Suazes con Fotohof di Salisburgo, con la collaborazione di Fondazione Cassamarca, Inge Morath Foundation e Magnum Photos. La mostra gode del patrocinio del Comune di Treviso, Provincia di Treviso, Assindustria Venetocentro e della partnership di Banca Generali e Fujifilm. Media partner: la Tribuna. Partner tecnici: Assicurazioni Generali, art&grafica, Tipografia Sartor e Cinemazero, Camera Commercio Treviso, Marca Treviso Consorzio di Promozione turistica.

Catalogo: Silvana editoriale

IMMAGINE DI APERTURAInge Morath, Marylin Monroe sul set di “Misfits”, Nevada, 1960. ©Fotohof archiv/Inge Morath/ Magnum Photos”