Venezia, Palazzo Contarini Polignac – Förg in Venice

Venezia, Palazzo Contarini Polignac –
Förg in Venice
Evento Collaterale della Biennale Arte 2019
Mostra Elisa Schaar
Dall’11 maggio al 23 agosto 2019

Günther Förg: Untitled (Mask), 2000, Bronze, travertin plinth 42 x 12.5 x 10 cm / 16 1/2 x 4 7/8 x 3 7/8 in.© Estate Günther Förg, Suisse / VG Bild-Kunst, Bonn 2019. Courtesy Estate Günther Förg, Suisse and Hauser & Wirth

Förg in Venice offre un’approfondita ricognizione delle opere dell’artista all’interno dell’impareggiabile contesto veneziano di Palazzo Contarini Polignac, Venezia

Il Dallas Museum of Art (DMA) è lieto di presentare la mostra di Günther Förg (1952-2013), che sarà ospitata nello storico Palazzo Contarini Polignac a Venezia durante la Biennale Arte 2019. Evento Collaterale ufficiale della 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Förg in Venice farà seguito a Günther Förg: a Fragile Beauty, la prima mostra americana in oltre trent’anni dedicata all’artista, organizzata nel 2018 dal Dallas Museum of Art in collaborazione con lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Realizzata in stretta cooperazione con l’Estate di Günther Förg, Förg in Venice metterà in mostra oltre 30 opere del percorso multidisciplinare di Förg – dai dipinti alle meno note sculture – per riflettere sui metodi intuitivi e di ampio respiro di questo artista intellettuale e poliedrico. La mostra è curata dalla Dottoressa Elisa Schaar, storica dell’arte, e segue la ricerca resa disponibile dalla precedente mostra di Dallas, curata dalla Dottoressa Anna Katherine Brodbeck, Curatrice Capo del Dipartimento di Arte Contemporanea del DMA.

“Dopo l’importante mostra del Dallas Museum of Art dedicata all’artista nel 2018, siamo lieti di presentare il lavoro di Günther Förg al pubblico internazionale di Biennale Arte 2019, coinvolgendo nuove generazioni mondiali nello stesso modo in cui l’operato dell’artista ha influenzato la storia dell’arte per generazioni” ha dichiarato il Dottor Agustín Arteaga, Direttore del DMA. Nato nel 1952 a Füssen, Algovia, Germania, Förg è uno dei più significativi artisti tedeschi della generazione del dopoguerra, noto per il suo stile sperimentale e provocatorio legato alla storia dell’arte. Attraverso la sua innovativa produzione interdisciplinare che ha sfidato i limiti delle discipline artistiche, Förg ha esplorato un linguaggio di astrazione ed espressionismo, appropriandosi di metafore prese in prestito da architettura e arte moderna. L’Italia e l’architettura italiana hanno giocato un ruolo centrale nello sviluppo della carriera di Förg. Il suo primo viaggio in Italia, nel 1982, stimolò la sua nota serie di fotografie sugli edifici di importanza culturale e politica, dai monumenti italiani alle costruzioni in stile Bauhaus a Tel Aviv. Attraverso la fotografia, Förg riuscì a esplorare la relazione tra arte, architettura e interventi spaziali, un tema ricorrente in tutta la sua produzione che la mostra di Venezia metterà in risalto. Alcuni lavori di Förg furono esposti già alla 45. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia nel 1993 all’interno della mostra Il Viaggio verso Citera, ma Förg in Venice realizzerà il desiderio dell’artista di esporre durante la Biennale Arte con una personale, un sogno rimasto incompiuto quando era in vita.

Förg in Venice presenterà questo poliedrico artista sotto una nuova prospettiva, in un’ambientazione veneziana senza eguali dove gli arredi e le decorazioni giocheranno un ruolo chiave nel contestualizzare l’arte. La mostra offrirà una panoramica approfondita dei temi estetici e concettuali affrontati da Förg, non solo dal punto di vista della produzione artistica ma anche in relazione al contesto in cui le opere sono esposte. L’artista riteneva che lo spazio, l’ubicazione e il posizionamento di una sua opera fossero intrinseci all’opera stessa. Durante la sua carriera, Förg dipinse sulle pareti delle gallerie, usò porte e finestre come elementi integranti, e arrivò a usare la vernice di alcune sue opere per creare un gioco di riflessi che desse vita a considerazioni inaspettate. Per lo stesso motivo, l’artista installò più volte le sue opere all’interno di contesti storici, spesso attraverso interventi tanto delicati quanto minimalisti. Questa mostra porterà avanti tale tradizione, preservando l’atmosfera del Palazzo ma anche indagando lo spirito creativo e ludico di Förg. Nel contesto di Palazzo Contarini Polignac – una location classica, romantica e mozzafiato affacciata sul Canal Grande di Venezia – imbattersi nelle opere versatili e sapienti dell’artista inviterà il visitatore a interrogarsi sul rapporto di Förg con la storia dell’arte e dell’architettura, entrambe determinanti nella sua produzione polivalente.

Attraverso l’installazione delle opere d’arte di Förg – prevalentemente aderenti alle tradizioni moderniste- all’interno delle sale decorate e dell’architettura rinascimentale di Palazzo Contarini Polignac, l’esposizione indagherà l’eredità del modernismo estetico (uno degli ideali al centro dello studio di Förg) in uno spazio ricco di storia e maestria artigiana. La mostra non avrà uno sviluppo tradizionale bensì un allestimento di grande atmosfera dove le opere dell’artista abiteranno un contesto intimo e privato evocando una malinconia e un romanticismo raramente
associati all’opera di Förg. Grazie all’integrazione del ricco corpus di opere di Förg negli interni delle sale del Palazzo, la mostra illustrerà l’interesse dell’artista per il dialogo tra arte, architettura e fruizione. Lungo tutto il Palazzo, singoli quadri, arazzi ed elementi decorativi in determinate posizioni saranno sostituiti con le opere dell’artista. Al piano terra, un dipinto minimalista di grandi dimensioni raffigurante una finestra, “Untitled” (2004), affiancato da alcuni schizzi preparatori dell’opera, prenderà il posto di uno stemma dando l’impressione che ci sia una finestra dove in realtà non c’è. Nonostante la loro forte geometria, le finestre di Förg sono provocatorie poiché offrono una cornice dentro cui guardare ma senza fornire alcuna visuale: al contrario, dirigono e limitano lo sguardo, mettendo in discussione l’atto visivo e l’estetica in sé.

Nel Salone del Palazzo, quattro straordinari dipinti in stile Spot Painting realizzati tra il 2007 e il 2009 saranno presentati di fronte a quattro ampi arazzi. In queste opere astratte e gestuali, i segmenti orizzontali delle pennellate verticali richiamano i raffinati scarabocchi di Cy Twombly, ma con differenze sia a livello cromatico – con un diverso uso del bianco e del grigio chiaro che sembrano richiamare la base di una tavolozza – sia per quanto concerne l’impiego di pennelli puliti. Questi Spot Painting danno l’idea di essere stati prodotti velocemente, ma sono in realtà frutto tanto di una rapida intuizione quanto di un’attenta riflessione dell’artista. Insieme, i quattro dipinti daranno prova della ponderata e incessante sperimentazione di abbinamenti cromatici, applicazioni di pittura, composizioni e ritmi dell’artista, il tutto all’interno di una sola serie di quadri. Collocate di fronte agli arazzi figurativi del Palazzo, che si potranno ancora intravedere, queste opere di Spot Painting evocheranno – attraverso le pennellate fluttuanti sulle superfici piane – una sorta di potere autonomo dell’astrazione modernista, sottolineando il rapporto stesso dell’artista con questa forma artistica, tanto coinvolto quanto distaccato. Nella maestosa sala degli specchi del Palazzo, una serie di sculture di Förg, realizzate nel 1990, verranno installate vicino alle finestre. Queste sculture figurative, tra cui maschere di bronzo su piedistalli in compensato grezzo, esplorano le possibilità e i limiti della materia. Le superfici corpose, lavorate rapidamente, fanno pensare alla distruzione: deliberatamente imperfette, dimostrano che Förg preferiva esplorare un’idea anziché realizzare un ideale di piacere e perfezione estetica. Le superfici palpabili recano i segni delle impronte digitali di Förg, di agenti esterni casuali e danni fisici che spingono il bronzo e la sua lavorazione lontani dalle associazioni gerarchiche, classiche e monumentali di tale materiale. Lungo le sale laterali del Palazzo saranno infine in mostra diversi dipinti astratti di Förg datati dagli anni Ottanta agli anni Novanta, che sostituiranno le opere d’arte solitamente esposte. Nella sua interezza, l’offerta espositiva della mostra dà prova dell’ampia portata della carriera di Förg e della sua tendenza alla sperimentazione, raggruppando i vari filoni e le influenze concettuali che hanno interessato la sua produzione – dall’agile esecuzione, complessità tonale e composizione stratificata, alla libera gestione delle discipline formali e delle strutture geometriche.

IMMAGINE DI APERTURAGünther Förg at the opening of his exhibition at the Kunstverein Hannover 1995. © Estate Günther Förg, Suisse / VG Bild-Kunst, Bonn 2019. Courtesy Estate Günther Förg, Suisse and Hauser & Wirth

I bambini raccontano bulli, robot, cantanti… fra realtà e fantasia

Questo volume, pubblicato col contributo dell’Assessorato ai Giovani del Comune di Napoli, documenta, presenta il risultato di un progetto laboratoriale che, nel caso specifico attraverso il linguaggio del fumetto, ha inteso portare all’attenzione degli alunni coinvolti la delicata questione del bullismo. Le storie pubblicate, popolate da principi e da bulli, da robot e da cantanti neomelodici, sospese tra realtà e fantasia, svelano nei disegni dei bambini il loro modo di guardare al problema, talvolta ingenuo, talaltra spaventato o semplicemente incuriosito, ci raccontano il loro modo di trasfigurare il mondo attraverso il segno e il colore, ci rappresentano emozioni spesso taciute, ci rivelano potenzialità nascoste. Soprattutto, vedere i bambini esprimersi attraverso l’arte, misurarne i risultati in termini di entusiasmo, di crescita personale, incoraggia noi formatori a sperimentare le molteplici possibilità educative dell’arte.

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Pietrasanta (LU) Galleria Bonelli – Gonçalo Mabunda creatore del nascosto

Pietrasanta (LU) Galleria Giovanni Bonelli
La personale di Gonçalo Mabunda – Il creatore del nascosto
A cura di Alessandro Romanini
Dal 19 maggio al 30 giugno 2019
WEBSITE Galleria Giovanni Bonelli


Dal 19 maggio al 30 giugno 2019, la sede di Pietrasanta (LU) della Galleria Giovanni Bonelli ospita la personale di Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975).

L’esposizione, curata da Alessandro Romanini, propone 20 sculture dell’artista mozambicano, che rappresenta il proprio paese alla Biennale di Venezia 2019, create utilizzando materiali bellici smantellati come proiettili, parti di fucili e mitragliatrici, usati nella lunga e sanguinosa guerra civile che per 16 anni ha insanguinato il suo paese. Mabunda si appropria degli scarti bellici che vengono smontati e poi riassemblati per formare maschere e troni dalle reminiscenze tribali caratteristiche della cultura sub-sahariana. L’inizio di questa sua particolare produzione va ricercato nel programma governativo chiamato “Trasformare le pistole in speranze”, al quale Mabunda partecipò già dal 1995. Scopo del progetto era raccogliere le armi ancora estremamente diffuse sul territorio segnato dalla guerra civile appena conclusa, e distruggerne la gran parte mentre la quantità residuale, veniva consegnata agli artisti, chiedendo loro di “trasformarle” in modo creativo.

Le maschere di Mabunda hanno la forza evocativa e mantengono le valenze simboliche e rituali delle antiche maschere tribali africane facenti parte della cultura e della tradizione con le quali l’artista è nato cresciuto. Con le sue creazioni Mabunda condanna le atrocità della guerra e soprattutto ne mette in evidenza in chiave metaforica e simbolica, gli indissolubili legami con l’esercizio del potere politico. I troni, simbolo del dominio conquistato con le armi di cui sono composti, diventano allo stesso tempo denunce della vacuità di un governo ottenuto con la violenza e un cortocircuito tra la modernità tecnologica (di cui le armi sono espressione) e l’ancestralità dei riti del popolo mozambichiano e della sua memoria collettiva. “Mabunda – afferma Alessandro Romanini – si presenta quindi come creatore, nel senso letterale di costruttore, come colui che rende visibile, attraverso il lavoro di scomposizione e ricomposizione della forma, di un senso ulteriore delle cose. Un mediatore in grado di far ascendere la dimensione personale e quella del suo popolo a una dimensione di valore universale”.

“Il nascosto, evocato nel titolo – prosegue Alessandro Romanini – si riferisce alla nuova possibilità di esistenza di oggetti (le armi) all’interno di una struttura estetica che in nessun modo ne mitiga l’impatto aggressivo ma che lo incanala in una nuova possibilità di senso che diventa, per contrasto, denuncia ed epifania di una nuova forma di vita e di relazione sociale possibili”. Catalogo in galleria.

Note biografiche
Gonçalo Mabunda (1975, Maputo District, Mozambico. Vive e lavora a Maputo). Nonostante l’infanzia trascorsa in un paese devastato dalla guerra civile (1975-1991) Mabunda ha potuto frequentare le scuole della capitale del Mozambico (Maputo): ha iniziato a dipingere a 17 anni e dai 22 anni ha iniziato a lavorare come artista a tempo pieno. Ha al suo attivo la partecipazione ad esposizioni in prestigiose istituzioni di livello internazionale quali ad esempio: il Centre Georges Pompidou di Parigi (2005); il Mori Museum di Tokyo (2006); il Guggenheim di Bilbao (2016); Palazzo Reale di Milano (2016); il Palais de Tokyo di Parigi (2018). La sua prima presenza alla Biennale di Venezia risale al 2015 mentre quest’anno (2019) è stato selezionato per rappresentare il Mozambico nel padiglione nazionale. A livello internazionale collabora con la Jack Bell Gallery di Londra. Numerosi riconoscimenti internazionali gli sono stati conferiti per il suo impegno di attivista contro la guerra trasmesso attraverso i suoi lavori.

Rendezvous with the Ironic Sculptor Gonçalo Mabunda

Peter Wohlleben – La saggezza degli animali

Peter Wohlleben sfata pregiudizi – la storia del lupo cattivo, della capra stupida o del cerbiatto timido – e ci invita a riflettere sulle conseguenze del nostro comportamento quotidiano, rendendo pagina dopo pagina sempre più evidente perché un atteggiamento attento nei confronti degli animali è un bene per noi umani e per il futuro dell’intero pianeta.

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Parma, Fondazione Magnani-Rocca – De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna

Parma, Fondazione Magnani-Rocca
De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna
16 marzo – 30 giugno 2019
WEBSITE

Arnold Böcklin, Prometheus, 1882, olio su tela, 115,5 x 150,5 cm

Nella storia della cultura occidentale, Prometeo è rimasto simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni, così anche come metafora del pensiero, archetipo di un sapere sciolto dai vincoli della falsificazione e dell’ideologia. Prometeo, figura della mitologia greca, è un Titano-eroe, amico dell’umanità e del progresso. A lui sono legati miti antichissimi: ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e subisce la punizione di Zeus che lo incatena a una rupe ai confini del mondo; un’aquila ogni giorno si nutre del suo fegato che però di notte ricresce. A interrompere il crudele castigo interviene Eracle che, ucciso il rapace con una freccia, libera Prometeo dopo trentamila anni. Ha quindi spesso simboleggiato la lotta del progresso e della libertà contro il potere. In tutto lo sviluppo letterario del mito appare evidente la tendenza ad arricchirlo di motivi filosofici, facendo di Prometeo l’incarnazione dello spirito d’iniziativa dell’uomo e del suo ardimento nello sfidare le forze divine.

Se diversi notissimi artisti si sono confrontati col mito di Prometeo – da Rubens a Mattia Preti, fino alla versione déco in bronzo dorato di Paul Manship, simbolo del Rockefeller Center di New York – la più celebre è però quella del grande pittore simbolista Arnold Böcklin. Questo capolavoro, il grande Prometheus del 1882, opera somma della Collezione Barilla di Arte Moderna, viene eccezionalmente esposto al pubblico fino al 9 maggio alla Fondazione Magnani-Rocca, durante il primo periodo della mostra “De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna”. Qui trova per la prima volta dialogo con le due versioni del Prometeo di Giorgio de Chirico e del fratello Alberto Savinio, i Dioscuri dell’arte, di cui il Prometheus di Böcklin rappresenta l’imprescindibile modello.

Del dipinto (realizzato a Firenze, dove Böcklin visse a lungo, citata nella montagna raffigurata nel quadro che riprende il profilo del Monte Morello che sovrasta la conca della città) si coglie al primo sguardo solo un cupo paesaggio di tempesta: onde di un blu profondo si infrangono con violenza contro una ripida scogliera, coperta di una fitta vegetazione, mentre il cielo denso di nubi è squarciato da un fulmine. Solo dopo un’attenta osservazione si riconosce la pur gigantesca sagoma del corpo del Titano, incatenato alla montagna e soggetto alla furia del cielo. Il protagonista della scena non è più l’eroe ribelle, ma la drammatica lotta, impari e senza speranza, dell’uomo contro le forze misteriose e oscure sprigionate dalla natura, che appare demonicamente animata. La figura di Prometeo, la cui consistenza materica sembra assorbita dalla roccia e dalle nuvole, così inerte ed esposta, ci comunica un senso di eroica impotenza e di rassegnazione.

Böcklin è uno dei grandi uomini del nord che sognano le rive mediterranee dove è nata la classicità ellenistica, le pianure abitate dagli dei. La chiarità del sud, dove tra le ombre trasparenti la natura suscita e accoglie presenze mitiche, è un paradiso perduto; Böcklin tenta di ritrovarlo, e scende per questo a Roma. La cultura assimilata a Basilea, dove era nato, non dovette essere estranea a questa ricerca. Basilea era infatti la patria anche dello storico Jacob Burckhardt; e negli anni intorno al 1870 vi abitava Nietzsche, che in alcune conferenze anticipò i tratti fondamentali della Nascita della tragedia, edito nel 1872. Così cominciava quel libro: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”. È lo spirito nordico affascinato dalla Grecia.

Entro quella duplicità Böcklin, anche se sembra stare in bilico, partecipa del secondo termine; è dionisiaco, ebbro, e solo talora riesce forse a unire le due sponde. Ma troppa gioia, troppa solarità sono nel mito greco di Nietzsche, mentre la musa di Böcklin è la malinconia: la strada del mito porta in lui al dramma, al commercio con la morte. Non è classico, Böcklin: la nostalgia del classicismo greco, e quindi il desiderio del suo recupero, sono manifestazioni di spirito romantico. Proprio per la fedeltà alla sua natura nordica, per la profonda malinconia, per la modernizzazione del mito, Böcklin suscita, nella seconda metà del XIX secolo, un ritorno di romanticismo, fonda una grande arte neo-romantica. Di essa è esempio tra i più ricchi di fascino proprio il Prometheus, in un crescendo che vede l’artista realizzare in quello stesso periodo le cinque stesure dell’Isola dei morti, tra il 1880 e il 1886; opere di invenzione assolutamente nuova, che fanno di Böcklin uno tra i massimi pittori dell’Ottocento. È in esse un inno drammatico alla natura, e un rapporto profondo tra la natura e l’episodio che vi si svolge; mostrano così una derivazione dal romanticismo originario tedesco, cioè da Caspar David Friedrich, palese modello del giovane Böcklin per i suoi primi paesaggi. Il centro, fantastico e naturale, di queste opere sta nell’immagine di rocce sul mare: rocce coperte da una folta vegetazione e precipitanti a picco sull’acqua, che contro di esse si frange o che le lambisce quietamente. La terra possente, immobile, eterna, e l’acqua trasparente, immensa, agitata e anch’essa eterna – i due elementi della natura originaria contrapposti e uniti – esprimono la bellezza suprema del loro contrasto e della loro unione.

In Prometheus il mito si palesa, è calato entro la natura, la abita e ne è assimilato. Il gigante è disteso sulle rocce, nel punto supremo, dove la vegetazione si estingue e le nuvole incombono; lontano, quasi irreale, quasi sogno, il grande corpo sembra una proliferazione delle rocce o un addensamento delle nuvole, tanto vi appaiono simili il colore e i giochi delle ombre e delle luci; sembra entrare nella grande armonia naturale del cosmo. Questo paesaggio, spinto così in avanti, senza orizzonte, quasi a contatto con chi osserva, è di grande bellezza, drammaticità e coinvolgimento; non una veduta, ma una terra che ci attira e, nello stesso momento, impaurisce, richiama a sé, con un potere di attrazione prodotto da qualcosa al di là della bellezza. Il martirio di Prometeo sembra quasi nascosto, secondario, eppure crea il mistero del paesaggio, ne acuisce il dramma.

Giorgio de Chirico, grande ammiratore di Böcklin, trasse ispirazione da quest’opera nel suo Prometeo del 1909, prima opera dove il mito si cela tra gli elementi del paesaggio naturale, in cui il pittore inserisce nella roccia la gigantesca sagoma del Titano; come scrisse Maurizio Fagiolo dell’Arco “Il quadro Prometeo vede un’alta roccia coronata dalla tragica figura mitica (come in un quadro famoso di Böcklin) che si scorge a un’attenta analisi dell’immagine”. De Chirico stesso nel suo saggio su Böcklin del 1920 ricorda questa opera: “Nel suo Prometeo interpretò meravigliosamente quell’aspetto della divinità gigante scesa ad abitare la terra, aspetto di cui la prima idea gli venne forse vedendo il quadro di Poussin intitolato Paesaggio siciliano, che trovasi ora al museo di Pietroburgo, e ove si vede in fondo, dietro una valle abitata da ninfe, sopra una roccia alta, il dorso gigantesco di Polifemo che suona la zampogna”. E prosegue su Böcklin “La prima volta che vidi la riproduzione di un suo quadro, ero ancora un bambino”, mentre al soggiorno monacense ha sempre fatto risalire la conoscenza approfondita di Böcklin e di tutti gli altri suoi referenti pittorici e filosofici: Klinger, e poi Nietzsche, Schopenhauer, Weininger.

Anche per Alberto Savinio, Böcklin rappresenta un modello primario. La sua serie sulle città trasparenti, ammassi di rovine galleggianti su una sorta di isola flottante, evocano nell’impatto iconografico la citata serie dell’Isola dei morti dell’artista svizzero. Nel suo Prometeo del 1929, Savinio propone tuttavia una visione diversa da quelle di Böcklin e de Chirico, operando una trasformazione ironica dell’impacciato nudo fotografico ottocentesco che gli era servito come modello, in una figura di dimensione mitica, benché quasi acefala. Sono gli anni in cui primeggiano nella pittura di Savinio i corpi giganteschi di eroi dell’antichità pagana, anomale creature che animano una nuova e straordinaria iconografia di rivisitazione mitica, in ardite torsioni di stampo manierista che rendono improbabile ogni richiamo alla classicità pur nella loro nudità grecizzante. Il Prometeo di Savinio volge malinconicamente la minuta testa ovoidale al cielo dove spicca, come l’epifania di un sogno irrealizzato, la fiaccola prima donata e poi negata agli uomini coi colori e le forme dei giochi agognati nell’infanzia. Alter ego dell’artista solitario, sacerdote e mago: un veggente. Per la prima volta esposte insieme, le due versioni del Prometeo di de Chirico e Savinio si trovano al cospetto del capolavoro del loro maestro, fornendo una rara occasione di lettura e di confronto delle fonti artistiche, ma anche filosofiche, alla base dell’arte dei Dioscuri.

IMMAGINE DI APERTURAAlberto Savinio, I Re Magi, 1929, olio su tela.

Chianti Classico: olio extravergine di oliva sulle tavole del mondo

L’olio extravergine di oliva Chianti Classico DOP è il risultato di un’attenta attività di sperimentazione e verifica che richiede grande impegno e rigore tecnico per raggiungere la sua eccellenza. La sua tradizione secolare è iniziata nel Trecento dopo Cristo ed è a partire da quest’epoca che per motivi religiosi (legati ai rituali e alle cerimonie cattoliche), nutrizionali ma anche per l’incremento delle popolazioni nell’area compresa tra Firenze e Siena, la coltivazione degli olivi cominciò a diffondersi e molte zone furono trasformate da boschi in oliveti e vigneti. Questa trasformazione agricola ha determinato le caratteristiche del paesaggio toscano che racchiudono il loro fascino proprio nel modo in cui l’attività agricola si inserisce nell’ambiente naturale.

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CHIANTI CLASSICO

La battaglia navale di Lepanto blocca l’espansionismo Ottomano nel Mediterraneo

Di Paolo Pantani

La battaglia di Lepanto (Lèpanto; chiamata Efpaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e İnebahtı in turco), detta anche battaglia delle Echinadi o Curzolari, fu uno scontro navale avvenuto il 7 ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra le flotte musulmane dell’Impero Ottomano e quelle cristiane (federate sotto le insegne pontificie) della Lega Santa che riuniva le forze navali la cui metà era inviata dalla Repubblica di Venezia e l’altra metà dall’Impero spagnolo formato totalmente dal Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, dallo Stato Pontificio, dalla Repubblica di Genova, dai Cavalieri di Malta, dal Ducato di Savoia, dal Granducato di Toscana, dal Ducato di Urbino, della Repubblica di Lucca (che partecipò all’armamento delle galee genovesi), dal Ducato di Ferrara e dal Ducato di Mantova.La battaglia, quarta in ordine di tempo e la maggiore, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d’Austria, su quelle ottomane di Mùezzinzade Alì Pascià, che morì nello scontro.Alla battaglia partecipò il grandissimo scrittore spagnolo Miguel Cervantes Saavedra che fu ferito e perse un braccio nello scontro, si fece chiamare dopo” El monco de Lepanto” e scrisse la famosa frase elogiativa di Napoli che è affissa nella via Cervantes omonima, sul palazzo della Banca d’Italia. E’ inutile dire che questa battaglia che salvò per la seconda volta l’Occidente fu organizzata a Napoli, la flotta partì dal nostro porto, con legni, equipaggi e soldati nostri imbarcati sotto le insegne del vicereame spagnolo. Dopo la prima in assoluto, la Lega Campana, per la seconda volta nella storia si usa il termine Lega nelle nostre terre ed è vittoria piena e totale, non come successe alla lega lombarda che con la Pace di Costanza del 25 giugno del 1183 firmò lo scambio con Federico Barbarossa in seguito al quale i comuni medievali dell’Italia settentrionale si assoggettarono a restare fedeli all’Impero in cambio della mera giurisdizione locale sui loro territori. Nei fatti rimasero gregari e subalterni a Federico Barbarossa, Imperatore del sacro romano impero, cosa che potrebbe succedere ancora oggi se si approva la loro autonomia rafforzata, saranno la succursale della Baviera. Da noi invece, con le nostre coalizioni, fu vittoria piena e totale nel Mediterraneo, non siamo finiti come l’Ungheria, i Balcani e la Grecia, il nostro indomito stato cuscinetto d’Europa ha salvato l’intero Occidente ed il papato ben due volte, ma nessuna storiografia italiana ed europea ce lo ha mai riconosciuto, solo il papato ha celebrato le vittorie delle nostre coalizioni con il culto mariano, celebrato in tutti dipinti che raffigurano la Battaglia di Lepanto e con la festa del 7 Ottobre della Madonna della Vittoria o del Santo Rosario.Pochi sanno che i colori, i simboli, le stelle, la disposizione in tondo della bandiera europea, sono un omaggio a Maria di Nazareth, la madre di Gesù. Per dirla più esplicitamente: la bandiera europea è nata come un simbolo mariano. Quindi Il colore azzurro della bandiera europea deriva da manto di Maria che si dice avvolse e protesse le navi cristiane a Lepanto.Come pure l’acquisizione ufficiale (1572) della fascia azzurra per gli ufficiali in servizio delle forze armate italiane. la Sciarpa subì leggere modifiche sia nella foggia che nel modo di essere indossata, prima alla vita, quindi a tracolla dalla spalla sinistra al fianco destro sino a che, il 25 agosto 1848, ne vennero stabilite le caratteristiche definitive. Fu, però, solo nell’ottobre 1850 che assunse la forma di segno distintivo di servizio eguale per tutti i gradi degli ufficiali. 

Galleria d’Arte Moderna di Roma – Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione

Galleria d’Arte Moderna di Roma
Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione
24 gennaio – 13 ottobre 2019

Felice Casorati, Susanna, 1929, olio su tela

Nella mostra la rappresentazione femminile attraverso la storia
L’evoluzione dell’immagine femminile, protagonista della creatività dalla fine dell’Ottocento alla contemporaneità

Da oggetto da ammirare, in veste di angelo o di tentatrice, a soggetto misterioso che s’interroga sulla propria identità fino alla nuova immagine nata dalla contestazione degli anni Sessanta: la mostra DONNE. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione – alla Galleria d’Arte Moderna di Roma dal 24 gennaio al 13 ottobre 2019 – è una riflessione sulla figura femminile attraverso la visione di artisti che hanno rappresentato e celebrato le donne nelle diverse correnti artistiche e temperie culturali tra fine Ottocento, lungo tutto il Novecento e fino ai giorni nostri. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Cineteca di Bologna, Istituto Luce-Cinecittà, la mostra presenta circa 100 opere, tra dipinti, sculture, grafica, fotografia e video, di cui alcune mai esposte prima o non esposte da lungo tempo, provenienti dalle collezioni d’arte contemporanea capitoline, a documentazione di come l’universo femminile sia stato sempre oggetto prediletto dell’attenzione artistica. Per i possessori della MIC Card l’ingresso alla mostra è gratuito.

“Le donne devono essere nude per entrare nei musei?” – si domandava in maniera provocatoria lo slogan di uno dei più famosi collettivi di artiste femministe americane. L’interrogativo rifletteva su una verità incontrovertibile. Per secoli l’immagine femminile è stata, infatti, protagonista della creatività: il nudo femminile come forma da studiare, modello di bellezza, di erotismo o di ludibrio, mentre la modella diventava, alternativamente, la musa ispiratrice, la fonte di ogni peccato, l’esempio di doti domestiche e di virginale maternità. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo la rappresentazione della donna è incardinata in un ossimoro che ne mostra l’ambivalenza: da una parte immagine angelica, figura impalpabile ed eterea, puro spirito immateriale, dall’altra minaccia tentatrice, fonte di peccato e perdizione. Da Le Vergini savie e le vergini stolte di Giulio Aristide Sartorio, alle modelle discinte in pose provocanti dei pittori divisionisti (Camillo Innocenti, La Sultana) passando a L’angelo dei crisantemi di Angelo Carosi, la donna vive sospesa tra il suo essere allo stesso tempo ninfa gentile e crudele seduttrice, Musa e Sfinge, analogamente a quanto avveniva nella contemporanea letteratura simbolista e decadente di D’Annunzio e dei poeti d’oltralpe e nelle stupefacenti pellicole cinematografiche che facevano vivere sullo schermo le prime dive dell’epoca moderna.

I profondi cambiamenti sociali, politici che seguirono la fine della Grande Guerra con la messa in crisi dei valori tradizionali, determinarono anche la prima grande rottura di quell’immaginario consolidato. Di pari passo all’emancipazione sociale delle donne – dai primi movimenti delle suffragette in Europa alla prepotente entrata nel mondo del lavoro a causa delle contingenze storiche – anche la raffigurazione dell’immagine femminile nelle arti visive risentì delle contraddizioni di una società che stava cambiando. Alla trasformazione delle dinamiche sociali si aggiunse l’impatto che su tutta la cultura occidentale del Novecento ebbero le teorie freudiane (L’interpretazione dei sogni è del 1900) che scardinarono per sempre l’immagine armonica della famiglia tradizionale, ora descritta come coacervo di pulsioni e conflitti. Nella serie dei ritratti esposti al secondo piano della mostra spicca, tra gli altri, il volto di Elisa, la moglie di Giacomo Balla, ritratta mentre si volta per guardare qualcosa o qualcuno dietro di sé. Il valore iconico dell’immagine è racchiuso nello sguardo che muta lo stupore in seduzione e curiosità trasformando il ritratto della giovane donna da oggetto da ammirare a soggetto misterioso. Figure allo specchio si interrogano sulla propria identità, volti enigmatici restano ermetici allo sguardo, realistici nudi espressionisti si alternano a visioni di un’umanità felice in uno spazio senza tempo.

Il forte richiamo alla famiglia italica tradizionale propagandata dal Fascismo, insieme al decremento dell’occupazione femminile, al fine di sottolineare e riaffermare l’esclusivo ruolo della donna come madre, trovò riscontro in molte delle espressioni artistiche coeve. Eppure quel modello, fatto proprio da molta arte degli anni Trenta e Quaranta, viene spesso disatteso pur nella ripresa di un analogo soggetto in cui l’intimità delle mura domestiche diventa un luogo e un universo segnati da indecifrabili solitudini esistenziali (Antonietta Raphaël, Riflesso allo specchio; Luigi Trifoglio, Maternità; Mario Mafai, Donne che si spogliano; Baccio Maria Bacci , Vecchie carte). Il voto delle donne nel 1946, conquista ottenuta anche grazie alla partecipazione femminile alla guerra di liberazione, rappresentò una svolta radicale nella storia italiana. Fu solo a partire dalla fine degli anni Sessanta, però, che le lotte per il raggiungimento della parità di diritti produssero, nelle donne, un profondo cambiamento nella percezione di sé, delle proprie possibilità e potenzialità nei più vari ambiti compreso quello dell’arte. Contemporaneamente alla contestazione sociale dei modelli patriarcali, la consapevolezza di una nuova identità femminile fu al centro della ricerca di molte artiste (Tomaso Binga, Bacio indelebile; Giosetta Fioroni, L’altra ego) ed anche il ruolo predestinato di “madre”, passando dalla condizione di scelta obbligata, divenne il fulcro del dibattito sulle libertà della donna e sulla riappropriazione del proprio corpo (Sissi, Nidi).

Il percorso espositivo sarà accompagnato da videoinstallazioni, documenti fotografici e filmici tratti da opere cinematografiche e cinegiornali provenienti dalla Cineteca di Bologna e dall’Archivio dell’Istituto Luce-Cinecittà che ne hanno curato la realizzazione. In una sala della mostra sarà proiettato il film, prodotto dall’Istituto Luce, Bellissima (2004) di Giovanna Gagliardi che attraverso documenti storici dell’Archivio Luce, spezzoni di film, canzoni popolari e interviste racconta per immagini il cammino delle donne nel ventesimo secolo. L’ultima sezione della mostra, dedicata alle dinamiche e le relazioni tra gli sviluppi dell’arte contemporanea, l’emancipazione femminile e le lotte femministe, presenta materiale documentario proveniente da ARCHIVIA – Archivi Biblioteche Centri Documentazione delle Donne – e testimonianze di performance e film d’artista di alcune protagoniste di quella stagione fondamentale provenienti da collezioni private, importanti Musei e istituzioni pubbliche (Museo di Roma in Trastevere; Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale; Galleria Civica d’Arte Moderna Torino; MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna; MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto – Archivio Tullia Denza).

Per tutta la durata della mostra il percorso sarà arricchito da nuove opere presentate al pubblico con incontri inseriti nel ciclo L’opera del mese secondo un calendario in corso di programmazione che partirà da marzo prossimo. Saranno anche organizzate, fra aprile e ottobre 2019, una serie di iniziative culturali nel segno dell’interdisciplinarietà – incontri, letture, performances, presentazioni,proiezioni, serate musicali e a tema – sulle tematiche affrontate dalla mostra. La GAM Galleria d’Arte Moderna dalla primavera 2019 lancerà, attraverso il suo sito e i social network, anche il contest #donneGAM tramite il quale inviterà il pubblico a postare fotografie di donne protagoniste della propria storia familiare. Immagini di nonne, madri, sorelle, compagne, ritratte al lavoro, a scuola, in casa o in altri luoghi di vita, di attività e di impegno per documentare le tante storie di donne di ieri e di oggi. Tutte le fotografie saranno trasmesse in mostra, tramite un monitor, in un’area appositamente allestita. Fino alla fine di febbraio nelle sale della Galleria sarà presente anche un focus sull’opera di Fausto Pirandello grazie al prestito speciale del Museo del Novecento di Milano del dipinto Il remo e la pala (1933), esposto insieme ad altre opere della GAM Galleria d’Arte moderna dello stesso autore.

IMMAGINE DI APERTURAAmedeo Bocchi, Nel parco, 1919, olio su tela

Napoli e il suo ducato baluardo estremo dell’Occidente contro la conquista Araba

Di Paolo Pantani

A partire dall’anno 827 (data del loro primo sbarco a Mazara del Vallo) gli Arabi, dopo avere esteso il loro dominio a tutta l’Africa settentrionale e parte della Spagna, cominciano la progressiva conquista della Sicilia che utilizzano come base per compiere razzie in tutta l’area del Tirreno.
Nell’estate dell’849 una flotta costituita dalle navi dei ducati di Amalfi, Gaeta, Napoli e Sorrento riunite nella Lega Campana, sotto la guida del console Cesario di Napoli (figlio secondogenito del duca di Napoli Sergio), sbaragliò una flotta di navi saracene che si apprestava a sbarcare presso Ostia con l’intento di operare l’invasione e la devastazione di Roma.
Il console Cesario, giunto in soccorso, si presentò a Roma; si fece annunziare al pontefice Leone IV, che lo accolse in Laterano e che riaccompagnatolo ad Ostia benedisse i guerrieri della Lega Campana con una preghiera ch’è rimasta nella storia della liturgia cristiana cattolica.
Quando, la mattina seguente, s’appressarono le navi africane, Cesario le investì vigorosamente, affondandone parte. Lo scontro tra le due flotte fu violentissimo e durò un’intera giornata con esito incerto, fin quando un’improvvisa tempesta non sopravvenne creando lo scompiglio tra le navi saracene. I più esperti marinai campani ebbero allora il sopravvento infliggendo al nemico gravi perdite e catturando numerosi prigionieri.
Fu, secondo vari storici, la più insigne vittoria navale dei cristiani sui musulmani prima della battaglia di Lepanto, la quale rappresentò la fine dell’espansionismo islamico in Europa e salvò la capitale dell’Occidente cristiano da una sicura devastazione saracena. La Battaglia di Ostia è stata rappresentata da Raffello Sanzio in un affresco databile 1514 situato nella Stanza dell’Incendio di Borgo, una delle Stanze Vaticane.L’immagine dell’affresco è allegata al post.

La Battaglia di Ostia di Raffaello Sanzio


Anche una delle più belle, panoramiche e marittime strade di Napoli è dedicata a Cesario Console, peccato che il monumento è dedicato ad Augusto Imperatore, il quale non c’entra assolutamente nulla, è un abusivo, sono solo reminiscenze da arredo urbano di origine del ventennio.
La coalizione del console Cesario sicuramente tratta della prima coalizione di Stati italiani opposta vittoriosamente alla prepotente minaccia straniera, anticipando di circa tre secoli la più pubblicizzata, enfatizzata, esagerata e strumentalizzata, lega lombarda. E non sarà la prima e unica volta, siamo stati uno stato cuscinetto di tutto il continente europeo. Tale territorio è del tutto omogeneo e, pur avendo perso per un periodo abbastanza lungo la Sicilia, ha mantenuto la sua identità, la sua lingua, la sua cultura, la sua sovranità e l’idem sentire cristiano.Se ciò non fosse accaduto ci saremmo addormentati come la penisola balcanica e la Grecia.