A proposito di ponte sullo Stretto, di tunnel, o niente di niente

di Sergio Bertolami

Nel medioevo, mentre i preti elevavano lodi al Signore e la folla pregava, i costruttori innalzavano cattedrali. Il mio interesse è rivolto a questi ultimi. Loro non si fermavano alle parole, né tantomeno alla tradizione consolidata. Con giudizio prendevano dalla tradizione e la innovavano. Se si fossero fermati al millenario arco a tutto sesto non avrebbero mai immaginato l’arco a sesto acuto. Se avessero continuato a tracciare su di un foglio un semicerchio, puntando il compasso su di un solo centro, l’architettura romanica sarebbe giunta immutata ai nostri giorni. Invece quei costruttori si accorsero che, doppiando i semicerchi, l’intersezione dei due segmenti d’arco originava una forma nuova, appuntita, lanceolata, svettante. L’idea non rimase sulla carta e passarono alla pratica. Fu allora che la distanza fra le colonne portanti diminuì e i carichi murari furono più equamente distribuiti. Le cattedrali crebbero in altezza e le preghiere degli uomini si avvicinarono a Dio, un tantino di più. Il miracolo si avverò. Fu un miracolo della scienza costruttiva. Un miracolo umano, condiviso fra le comunità. Non fu la conquista di un’archistar, perché i nomi di molti fra quei costruttori non sono statti neppure incisi sulle pietre, né tantomeno riportati sui codici miniati. Si sono dissolti nel tempo. Occorreva, però, fare proprio quel miracolo. Chi conosce la storia dei tre tagliapietre mi può comprendere. Un pellegrino, passando vicino a un cantiere edile, s’imbatté in un operaio tutto sudato che, nel segare pietre, imprecava per la fatica. Gli domandò cosa stesse facendo e quello rispose scortese: «Non lo vedi? Mi rompo le ossa». Proseguendo il pellegrino rivolse la stessa domanda ad un secondo operaio, che sbozzava conci con mazza e scalpello. Fiducioso rispose: «Mi sto guadagnando da vivere, per me e per la mia famiglia». Fu un terzo scalpellino a sorprendere il viandante quando, alzandosi da terra, si asciugò il sudore e mostrandogli i lavori già avanzati rispose lietamente: «Sto lavorando alla costruzione di una cattedrale». Come si vede, i tre uomini facevano tutti lo stesso umile mestiere, faticoso, muscolare, bruciati dal sole in estate e inzaccherati dalla fanghiglia d’inverno. Ciò che cambiava era il loro modo di guardare il mondo. Il primo mosso da un senso di rifiuto. Il secondo sopportava un destino apparentemente immutabile. Solo l’ultimo esprimeva il senso della comunità, consapevole che ciascuno, grazie al proprio ruolo, partecipa a una costruzione collettiva.

Sono atteggiamenti che in questi giorni vedo fra amici e conoscenti a proposito della questione sull’attraversamento dello Stretto. C’è chi non vuole sentire parlare di ponte e chi, al contrario, si arrocca in difesa di un progetto vecchio di cinquant’anni e ripetutamente stracciato. Ho un terzo gruppo di amici, al quale per la verità mi sento di far parte. Questi miei amici hanno fatto notare che una terza via esiste. Per attraversare stabilmente lo Stretto propongono la soluzione tunnel. Ma guai a parlarne. Siamo ricoperti di improperi aberranti.
Ora che esponenti del governo e in prima persona il presidente del Consiglio hanno rilasciato dichiarazioni proprio a favore del tunnel, sia gli sfavorevoli al ponte e sia i favorevoli (anche quelli dell’ultimo minuto, perché dicono che solo i cretini non cambiano mai parere) si sentono due volte turlupinati. In primo luogo, perché temono di vedere sfumare, in modo definitivo, l’effetto delle proprie convinzioni. In secondo luogo, perché nessuno li ha mai interpellati: loro, che nei capitoli delle cattedrali sono ripetutamente entrati, usciti, rientrati.
Noi, invece, abbiamo sempre lavorato nei cantieri. Come Ingegneri o architetti, oppure come umili operai. A vario titolo abbiamo disegnato carte o cavato pietre e scalpellato conci, elevato ponteggi e trasportato materiali ogni giorno più in alto, dove sembra che il lavoro non debba mai concludersi. Noi, che lavorando, a fine giornata, non abbiamo fiato per “banniare” nella piazza del mercato dove si fanno gli affari o nelle sale del capitolo dove si decide a chi va il cucchiaio di minestra. Bene! Noi oggi siamo contenti se qualcuno fra i nostri amici ha potuto mostrare le “sudate carte” al Governo per discutere le idee elaborate. Ora forse serviranno a portare avanti i lavori del cantiere comune. Sono idee esposte ripetutamente in pubblico. Nobili e clero, a suo tempo, le hanno con sufficienza ascoltate. Oggi gridano alla catastrofe, mentre fingono di elevare lodi al Signore e la folla inconsapevole continua a pregare. Noi, costruttori o spaccapietre, proseguiamo invece a disegnare e sperimentare archi di forma diversa da applicare nelle opere di cantiere. Per il bene comune. Senza infingimenti. Con coraggio, perché «bisogna avere il coraggio di pensare che durante la propria vita si è costruita una cattedrale. Sì, tale pensiero richiede coraggio» (Pierre Jean Jouve, En mirroir).

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica del video presentato dal Corriere della Sera sul web riguardante 4 minuti stralciati dalla relazione dell’ing. Giovanni Saccà al convegno “Le macroregioni europee del Mediterraneo e l’area dello Stretto”. In questi giorni molti quotidiani italiani stanno prendendo innumerevoli documenti dal nostro sito Experiences.it, senza chiedere permessi e senza neppure citare la fonte. Non ci pare un buon costume.

Medardo Rosso – Ecce Puer

L’Ecce Puer. Riproduzione situata sulla tomba di Medardo Rosso, cimitero monumentale di Milano

IL DIPINTO

Ecce Puer (conosciuto anche come: Portrait de l’enfant Alfred Mond, Enfant anglais, Impression d’enfant) è un’opera di Medardo Rosso (1858-1928) che rappresenta la «vision de purité dans un monde banal» ossia la visione di purezza davanti ad un mondo banale, lo stupore di un bambino davanti ad un evento che ad un adulto appare banale. «Una sera c’era stato un ricevimento e la sala era piena di ospiti eleganti. Ad un tratto la tenda era aperta un po’ ed un bambino guardò dentro, le labbra aperte di sorpresa poi si è ritirato. Medardo corse alla sua stanza, ha lavorato tutta la notte fino al giorno dopo per completare la testa. L’hanno trovato sul divano con i vestiti serali indosso» (Scolari-Barr).

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Medardo Rosso al lavoro nel suo laboratorio

L’ARTISTA

Medardo Rosso (Torino, 21 giugno 1858 – Milano, 31 marzo 1928) è stato uno scultore italiano, importante esponente dell’impressionismo italiano. Medardo Rosso nacque a Torino nel 1858. Si trasferì con la famiglia a Milano nel 1870. Frequentò dal 1882 al 1883 l’Accademia di belle arti di Brera dove si dimostrò insofferente all’insegnamento accademico. Iniziò la sua carriera artistica nell’ambito della scapigliatura milanese. Nel 1885 sposò Giuditta Pozzi e nello stesso anno ebbero un figlio, che fu l’unico, Francesco Rosso. Il matrimonio naufragò già nel 1889. Proprio nel 1889 si recò a Parigi, dove venne a contatto con artisti impressionisti. Ritornò a Milano nel 1914, dove morì nel 1928 in seguito ad un’infezione dovuta a un problema al sangue. Realizzò soprattutto sculture in cera, ma anche in bronzo, terracotta, gesso e disegni a matita e a colori. Metteva molte cose insolite nei suoi “impasti”. Espose le sue opere a Parigi al Salon des Artistes Français, al Salon des Indipendents, nella Gallerie Thomas e Georges Petit, e a Vienna nel 1885. Eseguì alcuni busti per il cimitero monumentale di Milano. Nel 1886 espose a Londra e a Venezia e nel 1889 all’Esposizione universale di Parigi. Fu stimato, tra i suoi contemporanei da Edgar Degas e Auguste Rodin. Influenzò, successivamente, artisti come Boccioni, Carrà e Manzù.

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