Luigi Prestinenza Puglisi: Architetti d’Italia. Riccardo Morandi, l’ingegnere

A pochi giorni dall’inaugurazione del ponte di Renzo Piano, che ha sostituito il ponte Morandi, drammaticamente crollato due anni fa, Luigi Prestinenza Puglisi ripercorre la storia del suo progettista. Opponendosi alle accuse mosse da certa critica nei suoi confronti.

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Chi era Morandi?
Riccardo Morandi (Roma, 1º settembre 1902 – Roma, 25 dicembre 1989) è stato un ingegnere e accademico italiano. Considerato uno dei più importanti e innovativi ingegneri e progettisti del XX secolo, iniziò la sua attività in Calabria, sullo scorcio degli anni venti, con la progettazione di strutture in cemento armato per il recupero di edifici di pregio (principalmente chiese) che riportavano ancora i danni del terremoto del 1908. Tornò poi a Roma continuando lo studio o la soluzione dei problemi tecnici connessi a questo tipo di struttura (allora nuova per l’Italia).

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IMMAGINE DI APERTURA: Studio AAR – Morandi – Concorso Palazzo di Giustizia – Riccardo Morandi (Fonte Wikipedia).

Prendi questi puzzle e ispirati per i tuoi viaggi

Traiamo questa pagina dal blog di Europeana, precisamente la parte dedicata ai gioielli culturali e alle gemme nascoste di tutto il continente europeo. La bellezza e la diversità dell’Europa hanno attirato turisti e artisti nel corso della storia e ne hanno lasciato testimonianze visive nelle loro opere. Bellezza e natura vi aspettano nei parchi nazionali. Ciò vale anche per mare e sole, dal momento che la costa europea è lunga migliaia di chilometri e offre una straordinaria varietà di paesaggi: scogliere spettacolari, ampie dune, pittoreschi villaggi di pescatori e vivaci località turistiche. Ma c’è così tanto da fare anche in riva ai laghi: dagli sport acquatici all’osservazione della fauna selvatica. Ovunque ci sono villaggi gradevoli, ampi terreni agricoli, cibo delizioso, cultura tradizionale e serenità. Completate, perciò, questi puzzle per scoprire posti meravigliosi e trovare ispirazione per i viaggi futuri.

Componi i puzzle di Europeana

IMMAGINE DI APERTURA:  Foto di StockSnap da Pixabay 

Le mosche cocchiere, che come capitan di vaglia spingono i soldati alla battaglia

di Sergio Bertolami

Leggi tranquillo, non sto parlando di te. Questo è lo slogan che dovrei adoperare dopo avere scritto un pezzo su Experiences o un post su Facebook o WhatsApp. Non ti agitare, rilassati. Soprattutto impara a sorridere. Anni fa, per fare un esempio, scrissi che ognuno di noi ha come un angelo custode che si chiama fortuna. All’epoca, la mia fortuna era sonnacchiosa e pigra, mentre gli altri potevano contare su fortune sveglie, attive, scattanti. Un collega di lavoro all’improvviso mise il broncio, credendo che parlassi di lui. Questo soltanto per aver letto che avevo ripreso la personificazione della fortuna da un racconto della tradizione popolare calabrese e lui era proprio calabrese. Mi venne facile, allora, appianare l’equivoco; ma oggi con centinaia di lettori che si offendono, che si pungono e ti pungono, come fare? Capita con le zanzare. Non di zanzare, però, vorrei parlarvi, ma di mosche. Colgo, dunque, un gustoso episodio raccontato su WhatsApp dal mio amico prof. Cosimo Inferrera.

«Quel luglio 1943 fu assai difficile. Avevo poco più di cinque anni. Gli alleati sbarcando a Giardini spararono cannonate sulle colline dietro Calatabiano, dove durante l’emergenza dello sbarco ci eravamo rifugiati. Ci fu molta incertezza su ciò che avremmo potuto subire… Rotto il fronte a Gela, parte degli italiani smisero la divisa e si imboscarono. I tedeschi, da soli indietreggiando commisero atrocità e fucilazioni. Tutti ben noti, purtroppo. Nessuno poteva immaginare cosa avrebbero combinato gli anglo-americani, entrando. In effetti non fecero violenze… tranne qualche ceffone a chi faceva contrabbando. Fu a questo punto che si presentò sulla scena, un uomo di mezza età, aitante, ricco di favella e manieroso, accampando amicizie e benevolenza presso l’Amcot. Tale “Settitrummi” (Sette trombe) si chiamava, di nome o soprannome (non so) e si dette molto da fare per tranquillizzare la nostra famiglia. I miei vecchi, il nonno Cosimo paziente come il ragno e lo zio Corradino fervente socialista, Commissario al Comune di Calatabiano nei mesi critici del dopo guerra, lo inquadrarono subito: “Nenti, na musca cucchiera!”, cioè un bluff. Questo lo capii dopo. La mosca, dissero, si intrufola ovunque. Certe volte si poggia sul crine di un possente cavallo e volgendosi indietro dà a vedere e si illude di governare “u gnuri”. Il cocchiere e la carrozza su cui viaggiano signore e personaggi importanti… A un certo punto però arriva il colpo di frusta che fa svanire l’illusione… E la mosca ritorna mosca».

Vi siete mai soffermati a pensare quando avete imparato un’espressione e quando avete maturato il suo significato? Avete mai incontrato delle “mosche cocchiere”? Avete mai domandato loro: con quale pretesa potete arrogarvi il diritto di dire a qualcuno cosa debba o non debba fare, senza avere alcuna forza o potere di negoziazione? E questo vale, ancor di più, quando ci rivolgiamo alle Istituzioni.

Fabula merito deridet eum qui sine imperio vanas exercet minas, la favola deride a ragione, colui che senza averne il potere pronuncia vane minacce. Da questa massima latina scopriamo, quindi, che già nella Roma dei suoi tempi (cioè nella prima metà del 1° secolo d.C.) Fedro spronava a rendersi conto che prima di parlare occorre accertarsi di contare davvero qualcosa, anziché superbamente presumerlo. Questo concetto – oggi valido più che mai – risale addirittura a molto tempo prima, dal momento che Fedro si ispirò a una favola di Esòpo, vissuto presumibilmente tra il 7°e 6° secolo a.C.

La favola di Fedro e di Esòpo racconta di una mula che a fatica trainava un carro, quando sul timone venne a posarsi una mosca, che prese a rimbrottarla: «Come sei lenta, perché non ti muovi più in fretta, bada che non ti punzecchi il collo col mio pungiglione». Senza neppure scomporsi la mula rispose: «Delle tue minacce me ne sto infischiando, temo piuttosto, costui che seduto a cassetta mi tiene al giogo a colpi di frusta, e mi frena col morso alla bocca su cui sto sbavando. Perciò, smettila con questa tua sciocca arroganza. So bene io quando prendermela comoda e quando, invece, mettermi a correre». La Mosca e la mula, questo è il titolo con cui la favola è stata tramandata e ripresa in varie versioni. La più nota è quella narrata da Jean de La Fontaine nelle sue Favole del 1669: Le Coche et la Mouche.

«Per una strada in salita, erta e sabbiosa, esposta da ogni lato al sole, sei robusti cavalli trainavano a stento una Carrozza. I viaggiatori per alleggerirla erano scesi: le signore, un monaco, alcuni anziani. I cavalli sudati e trafelati stavano quasi per cedere… quando una Mosca si avvicinò ai cavalli, fingendo di animarli col suo ronzio, punzecchiando ora l’uno ora l’altro, e pensando che toccasse a lei spingere quel veicolo grosso e traballante. Si posò sul timone, sul naso del cocchiere. Appena si accorse che la Carrozza, bene o male, si era mossa e che i passeggeri erano in cammino, si prese lei soltanto la gloria e, andando e venendo, si riempiva di boria come un capitan di vaglia (di valore) che incita i soldati alla battaglia. La mosca senza tregua spingeva per fare avanzare la sua gente e affrettare la vittoria. Ma si lamentava che, in questo frangente, a spingere fosse da sola, che a lei sola toccassero tutte le cure, mentre nessuno aiutava i cavalli a uscire dai guai. Non lo faceva il monaco che leggeva il breviario prendendosi il suo tempo! Nel mentre una donna gorgheggiava. Era forse quello il momento di mettersi a cantare? Così Madame Mouche andava, qui e là, a ronzare nelle loro orecchie e faceva mille cose sciocche come questa. Dopo tanto lavoro la Carrozza arrivò in cima alla collina. “Respiriamo finalmente – disse subito la Mosca – Ho fatto tanto per questa brava gente che ora è sul pianoro. Pertanto, signori cavalli, ringraziatemi del mio disturbo”. Così fanno certi faccendoni, che s’intrufolano nei problemi da sembrare sempre necessari. E in ogni cosa risultano sgraditi da dovere essere cacciati».

Jean de La Fontaine non fa giri di parole su tali mosche cocchiere inopportune, smodate, noiose. Ognuno di noi le conosce. Solo loro pensano di poter nascondere facilmente le proprie manie di grandezza. Basterebbe che considerassero semplicemente di non dire ad alta voce ciò che più o meno tutti, nel loro intimo, pensano di sé stessi. Giusto o sbagliato. Solo che la maggior parte di persone, nel timore di eccedere, si frena per non uscire dalle righe. Diceva bene Arthur Schnitzler, che con Sigmund Freud andava a braccetto: «Ciò che ci sembra mania di grandezza non sempre è un disturbo psichico: spesso è soltanto il comodo mascheramento di una persona che dispera di sé».

IMMAGINE DI APERTURA Gravure réalisée par René Gaillard d’après un dessin de Jean-Baptiste Oudry représentant la fable Le coche et la mouche de Jean de La Fontaine (fable 8 du livre VII). Cette gravure est parue dans l’édition complète des fables de La Fontaine, parue en quatre tomes chez l’éditeur Desaint & Saillant, rue saint Jean de Beauvais à Paris, 1755-1759.

 

Torino: PAOLO VENTURA. Carousel

17 Settembre 2020 – 8 dicembre 2020
Torino, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia
PAOLO VENTURA. Carousel
Mostra a cura di Walter Guadagnini, con la collaborazione di Monica Poggi

Dal 17 settembre al 8 dicembre CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia ospita “Carousel”, un percorso all’interno dell’eclettica carriera di Paolo Ventura (Milano, 1968), uno degli artisti italiani più riconosciuti e apprezzati in Italia e all’estero. Dopo aver lavorato per anni come fotografo di moda, all’inizio degli anni Duemila si trasferisce a New York per dedicarsi alla propria ricerca artistica. Sin dalle sue prime opere Ventura unisce alla grande capacità manuale una particolare visione poetica del mondo, costruendo delle scenografie all’interno delle quali prendono vita brevi storie fiabesche e surreali, immortalate poi dalla macchina fotografica. Con “War Souvenir” (2005), ambientato in un tempo imprecisato che rimanda alle atmosfere dell’Italia della Seconda Guerra Mondiale, ottiene i primi importanti riconoscimenti, come l’inserimento all’interno del documentario della BBC “The Genius of Photography” nel 2007. Dopo dieci anni negli Stati Uniti, rientra in Italia dove realizza alcuni dei suoi progetti più celebri, all’interno dei quali mescola fotografia, pittura, scultura e teatro, come ad esempio nella scenografia di “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, frutto dell’importante collaborazione con il Teatro Regio di Torino, di cui CAMERA ha esposto alcuni lavori preparatori a gennaio del 2017.
In quest’occasione le sale del museo ospitano alcune delle opere più suggestive degli ultimi quindici anni – provenienti da svariate collezioni, oltre che dallo studio dell’artista – in un’assoluta commistione di linguaggi che comprende disegni, modellini, scenografie, maschere di cartapesta e costumi teatrali. Non mancano i progetti più iconici della prima fase della sua produzione: il già citato “War Souvenir”, “L’Automa” e una selezione dalle “Winter Stories”, in cui i protagonisti delle narrazioni sono dei burattini e gli ambienti dei piccoli set teatrali costruiti dallo stesso Ventura sul tavolo del suo studio. Con le “Short Stories” si sancisce una fase nuova della sua ricerca: di ritorno dalla Grande Mela si stabilisce nel piccolo borgo di Anghiari, nei pressi di Arezzo, dove, all’interno di uno studio particolarmente luminoso ricavato da un vecchio fienile, allestisce una pedana e un fondale su cui lui stesso impersona, insieme alla moglie e al figlio, brevi vicende paradossali e fiabesche. Un elemento che ritroviamo anche nei progetti più recenti che, pur perdendo la sequenzialità narrativa, rimangono ricchi di una suggestione surreale. In particolare, lo si nota nei collage in cui i soggetti – gli stessi che ricorrono nell’intera produzione dell’artista: soldati, maghi, artisti, pagliacci e saltimbanchi – si stagliano su una superficie che nel corso degli anni ha lasciato sempre maggior spazio alla pittura.
Non si tratta, tuttavia, di un percorso lineare né di una retrospettiva, quanto piuttosto di una messa in scena di tutti i temi più frequenti della sua poetica, fra i quali spiccano quello del doppio e della finzione. Le prime sale dello spazio espositivo torinese diventano quindi un’autentica full immersion nella poetica di Ventura, un vero e proprio ingresso all’officina dove nascono e si compongono le storie elaborate dall’artista, anche grazie all’allestimento di alcuni degli elementi che concorrono alla loro realizzazione. Un viaggio e un racconto, dunque, secondo quelli che sono i temi e le modalità espressive predilette da Ventura, rappresentante di una fotografia volutamente narrativa: non a caso, i testi che accompagneranno questo percorso saranno stesi e scritti direttamente dall’artista, che diviene la voce narrante della mostra.
La seconda metà dell’esposizione sarà invece dedicata interamente a due nuovi e inediti progetti: il primo è “Grazia Ricevuta”, rivisitazione affettuosamente ironica del tema dell’ex voto, che Ventura naturalmente rielabora a partire dalla manipolazione dell’immagine e dalla presenza costante della sua figura e di quella delle persone a lui vicine. Un ulteriore affondo nella cultura popolare, così amata e ben conosciuta da Ventura, una cultura che da sempre fornisce icone e tematiche al multiforme artista milanese. Il secondo lavoro inedito esposto in questa occasione è il frutto di una residenza svolta presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma, avviata grazie alla collaborazione fra CAMERA e l’ente ministeriale. Sulla scorta dello studio e della riflessione sulla rappresentazione delle vicende risorgimentali, a partire dagli Archivi dell’ICCD, Ventura allarga il proprio orizzonte ai temi della rappresentazione della guerra attraverso la fotografia e della difficile accettazione della modernità del mezzo fotografico in un paese fortemente legato alla tradizione come l’Italia del XIX secolo. Tutto questo attraverso il romanzesco rinvenimento di una serie di rare carte salate, risalenti al periodo risorgimentale, nel corso della residenza romana dell’artista.
Pressoché sconosciute al pubblico sono anche le prime opere, che ritroviamo eccezionalmente in mostra, con le quali Ventura inizia a sperimentare con un obiettivo close-up e un flash anulare alla fine degli anni Novanta, dopo essersi allontanato dall’ambiente della carta patinata.
Conclude il percorso una grande e spettacolare installazione, che trasforma l’intero lungo corridoio di CAMERA nel palcoscenico sul quale appare e si sviluppa una città immaginaria, composta dalle tante architetture realizzate da Ventura nel corso degli anni, riassemblate e reinventate per questa occasione in un allestimento di grande suggestione.
Curata da Walter Guadagnini, con la collaborazione di Monica Poggi, la mostra sarà accompagnata da un volume monografico, pubblicato da Silvana Editoriale, che ripercorre per la prima volta in modo esaustivo e organico tutte le tappe salienti della ricerca dell’artista. Oltre al saggio dello stesso Guadagnini, al suo interno troviamo un testo della scrittrice e critica letteraria Francine Prose e una lunga intervista di Monica Poggi.
L’attività di CAMERA è realizzata grazie a Intesa Sanpaolo, Lavazza, Eni, Reda, in particolare la programmazione espositiva e culturale è sostenuta dalla Compagnia di San Paolo.

IL SITO WEB DI PAOLO VENTURA

IMMAGINE DI APERTURAPaolo Ventura: Automaton#15 (da The Automaton) 2010.

Giovanni Fattori – In vedetta

In vedetta, 1872, Valdagno, collezione Marzotto

IL DIPINTO

In vedetta, o Il muro bianco, è un dipinto a olio su tela del pittore macchiaiolo Giovanni Fattori, realizzato nel 1872 e conservato in una collezione privata di Valdagno. Nel dipinto è raffigurata una scena di vita militare in cui tre soldati effettuano la ronda di vigilanza, immobili sotto il sole implacabile di un primo pomeriggio estivo. Il primo cavaliere, collocato in primo piano ma decentrato sulla destra, proietta la sua ombra sulla bianca parete retrostante. Il muro interrompe bruscamente la linea dell’orizzonte e presenta una geometria perfetta, sulla quale si struttura l’intero apparato prospettico del dipinto: si tratta del motivo essenziale della composizione, che generalmente è costituita da pochi altri elementi, quali il cielo, la pianura arida color ocra e gli uomini a cavallo. Vi troviamo, infatti, altri due cavalieri, collocati all’estremità più lontana del muro (quasi come se volessero proseguirne idealmente la prospettiva), che cavalcano rispettivamente un cavallo bianco e uno nero. La composizione, completata da un cielo azzurro-violaceo e da un’arida pianura color ocra, è sostenuta da una grande staticità derivante dalla sapiente scansione dei volumi e dal bilanciamento degli spazi.

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Autoritratto, 1884, Galleria d’Arte Moderna, Firenze

L’ARTISTA

Giovanni Fattori (Livorno, 6 settembre 1825 – Firenze, 30 agosto 1908) è stato un pittore e incisore italiano. È considerato tra i maggiori pittori italiani dell’Ottocento e tra i principali esponenti del movimento dei Macchiaioli. Giovanni Fattori è considerato uno dei più sensibili esponenti del movimento dei Macchiaioli. Egli iniziò a informare i primi personali orientamenti artistici quando, a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, iniziò a frequentare il Caffè Michelangiolo di Firenze, animato da «una classe di giovani [artisti], i quali erano divenuti nemici dei professori accademici: guerra all’arte classica!». Fattori, mostrandosi insofferente alla pittura accademica e ai temi storico-celebrativi da essa prediletti, aderì quasi fisiologicamente alla macchia, una nuova tecnica pittorica ed espressiva legata con la poetica naturalistica. Lo scopo di Fattori, infatti, era quello di instaurare una pittura di ‘impressione’ modulando i volumi e le lontananze non più con il tradizionale chiaroscuro, bensì con la giustapposizione omogenea di campiture di colore accordate tra di loro in base al «tono», al «valore» e al loro conveniente «rapporto» (come spiegò egli stesso). Questa prassi aveva i suoi presupposti nelle dinamiche della percezione visiva: la presenza delle macchie, infatti, è giustificata dal fatto che l’occhio umano è colpito solo dai colori, che con le loro brusche interruzioni descrivono i contorni degli oggetti. Per questo motivo il reticolo disegnativo di Fattori non contemplava l’utilizzo di linee di contorno (assenti, tra l’altro, anche nella realtà).

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Le Passeggiate del Direttore: Sarcofagi femminili nel terzo periodo intermedio

Cosa c’è di meglio di una web serie per tenervi compagnia? A grande richiesta, vi presentiamo LE PASSEGGIATE DEL DIRETTORE, la prima stagione di una serie firmata dal Museo Egizio, un viaggio nella storia suddiviso in brevi episodi. 

Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo, a livello mondiale, interamente dedicato alla civiltà nilotica ed è considerato, per valore e quantità dei reperti, il più importante al mondo dopo quello del Cairo. Nel 2004 il ministero dei beni culturali l’ha affidato in gestione alla “Fondazione Museo Egizio di Torino”. Nel 2019 il museo ha fatto registrare 853 320 visitatori, risultando il sesto museo italiano più visitato. Nel 2017 i Premi Travellers’ Choice di TripAdvisor classificano l’Egizio al primo posto tra i musei più apprezzati in Italia, al nono in Europa e al quattordicesimo nel mondo.
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Le Passeggiate del Direttore: Sarcofagi femminili nel terzo periodo intermedio

IMMAGINE DI APERTURA – Ingresso del museo egizio, Torino (Fonte Wikipedia)

L’attraversamento dello Stretto? Come l’amore ai tempi del colera

di Sergio Bertolami

Vi prego, non guardate il dito, godetevi la luna, perché dell’attraversamento dello Stretto ho già scritto, ma vale tornarci con qualche esempio divertente. Tra i miei amici qualcuno non vuole sentire affatto parlare di ponte. C’è chi ha messo in rilievo quanta polvere solleverebbero in città i movimenti di terra fatti in cantiere. Un altro ha posto la questione sull’intasamento del traffico, a causa dei camion che avanti e indietro trasporteranno materiali edili. Avessero evidenziato che nello Stretto c’è una faglia, in verità, mi sarei preoccupato di più. Ho anche altri amici che, a differenza dei primi, difendono a spada tratta il progetto del ponte a campata unica, battezzato nel 1971. Il prossimo anno ricorreranno cinquant’anni. I primi mi fanno pensare a chi – pur liberissimo di non volere usare il televisore perché a suo dire trasmetterebbe pessimi programmi – pretende di vietarne l’uso ai familiari e pure agli estranei. I secondi assomigliano a chi vorrebbe continuare ad accomodare il vecchio televisore, perché era un modello di ottima tecnologia italiana. Dopotutto in salotto fa ancora bella mostra di sé. Occorrerebbe solo trovare un tecnico preparato che seduta stante sostituisse le valvole. Forse bisognerebbe reperire proprio le valvole, ma su Amazon può darsi che si trovino ancora.

Ho anche un terzo gruppo di amici. Sostengono, che si potrebbe raggiungere all’angolo il centro commerciale e comprare un apparecchio di ultima generazione: magari Ultra-HD e con schermo OLED. In altre parole, per attraversare lo Stretto, amerebbero una nuova soluzione, come per esempio un tunnel. Fino a ieri, quando ne parlavano, tutti pensavano a degli sprovveduti, perché pescano un’idea solennemente bocciata, altro che nuova! Bocciata da chi? «Nel 1969 c’è stato un concorso!», mi fanno notare gli oppositori. Sono stati presentati 143 progetti: 45 ponti a una o più campate; 9 soluzioni di tunnel; 21 proposte fra ponti galleggianti, istmi, dighe o altro ancora. Rispondo: come al festival di Sanremo, uno solo è il vincitore. Gli altri sono tutti esclusi, salvo ad avere comunque successo. Nel nostro caso, il progetto vincitore è il ponte più lungo del mondo, già pronto per il cantiere. Petrolini diceva: «Ti voglio portare a vedere il cantiere… stavano tutti zitti… non cantava nessuno…». Anche questa canzone da festival non la canta nessuno. Da cinquant’anni ne intonano semplicemente il ritornello. Solo che l’innamorato della canzone ora ha cinquant’anni di più. Ma chi se lo sposa uno con cinquant’anni di più. «Ma non l’hai letto L’amore ai tempi del Colera?», mi ha ripreso un’amica. Del Coronavirus! Ho replicato. «Ma no, il romanzo di Gabriel García Márquez, che racconta i lunghi patimenti di Florentino per la bella Fermina. Ultrasettantenni coroneranno infine il loro sogno d’amore».

Macché, il problema è politico! Le ho ribattuto; usando i termini degli accaniti sostenitori del ponte sospeso. Politico, piuttosto, come l’amore tra il rampollo Montecchi e la quattordicenne Capuleti! Che ora comunque di anni ne conterebbe sessantaquattro. Tuttavia, la storia di William Shakespeare finisce male. Così paventano i miei amici, perché questa scelta del Governo di fare il tunnel è una presa in giro. Gridano: il ponte non si farà! E non si farà neppure il tunnel… e i soldi andranno al Nord. Che non si faccia niente di niente, invero, lo teme anche Gian Antonio Stella, grande stella del Corrierone della Sera che ha rispolverato un divertente fumetto della Disney con Zio Paperone, Paperino, Qui, Quo e Qua, alle prese 38 anni fa con un bislacco scienziato. Indovinate chi è lo scienziato. Uno dei miei svariati amici. Di lui oggi tutti parlano perché ha proposto il tunnel nello Stretto. Vi assicuro, in coscienza, che lo scienziato in questione non è bislacco; è uno che studia, che scrive e partecipa a convegni in tutta Italia. Lui, ai mugugni ora diventati insulti, da gran signore risponde: vivaddio c’è qualcuno che legge! Al MIT (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per chi non ama le sigle) hanno esaminato le sue relazioni e lo hanno chiamato. Ditemi voi: al gran ballo di Corte tutti vorrebbero appioppare la propria pulzella al principe, ma lui sceglie che sia vostra figlia a calzare la scarpetta di vetro. Sai che invidia generale! Che bile!

Ora, dico io, il grande Gian Antonio Stella avrebbe potuto prendere il telefono e chiamare lo scienziato, ma ha fatto prima a digitare su Google e ripescare il fumetto di zio Paperone. Dopotutto siamo ad agosto e un po’ d’ironia non guasta. Il servizio migliore l’ha prestato, però, Tirreno Sat, televisione di Milazzo, ricorrendo una videoconferenza. Ha dato la parola allo scienziato. Questo non lo hanno fatto mica i giornaloni e giornalini italiani. I giornalini hanno preferito la smaccata irrisione. Rimane il fatto che il telefono lo potevano usare tutti. Vale per i giornalettisti e vale anche per gli altri scienziati scartati dalla kermesse: se il principe non ti ha neppure chiamato al gran ballo di Corte, telefona tu. Perciò, tu che sei un ordinario professore, uno straordinario giureconsulto, un emulo di Pico De Paperis, raccogli le carte che fino ad oggi hai prodotto e vai a Roma. Sarebbe stato meglio raccoglierle prima, ma forse fino ad ottobre potresti recuperare il debito formativo.

Ci sarebbe molto da aggiungere, ma vorrei concludere con due sole osservazioni. La prima: mi hanno proprio convinto tutte le celebrità chiamate ad avvalorare che quel ponte di 3300 metri si tiene in piedi, non svirgola al vento, ci passano sopra non solo le auto ma pure i treni (anche se le ferrovie non si sono ancora espresse) … e così via. Nondimeno, umilmente chiedo: se dovete rilasciare un certificato di “sana e robusta costituzione” a uno che non ha neppure un cenno d’influenza che bisogno c’è di fare consulti con le stelle del firmamento? Non sarà come col Coronavirus, quando tanti luminari istituzionali dicevano che potevamo dormire su sette cuscini? Seconda osservazione: uno scienziato elettrotecnico, che ha passato la vita nelle ferrovie, ne saprà qualcosina di treni, così da immaginare che possono passare attraversando una galleria? No! A lui non compete immaginare, né tantomeno scrivere o parlare! Per illuminare ci sono i luminari! Guai a far rimarcare che oggi si lavora in squadra e pure il mio iPhone (non so il vostro) non lo ha progettato Steve Jobs, ma i suoi ingegneri elettronici, i suoi designer dentro e fuori della Apple, i produttori di materiali e tecnologie d’avanguardia dentro e fuori dagli USA.

Per cui, quando mi parlano di opportunità (e me ne parlano senza retorica) ricordo sempre la storia vera di un giovanotto che aveva il padre funzionario delle ferrovie a Roccalumera. Lui studiava per geometra allo Jaci di Messina. S’è diplomato e per buona parte della vita è stato un dipendente del Genio Civile (a Reggio Calabria, a Imperia, a Genova, a Cagliari). Il geometra però studiava, studiava. Non per fare l’ingegnere, ma per tradurre (pensate un po’) i classici greci e latini. Alla fine, in quel di Stoccolma (che si trova in Svezia e non in Sicilia) si sono accorti di lui e gli hanno conferito il premio Nobel per la letteratura. Correva l’anno 1959 e quel giovanotto si chiamava Salvatore Quasimodo. Ma in questo caso si tratta di letteratura e i miti dello Stretto son fatti salvi.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay  

Paolo A. Ruggeri – Time management. I 18 principi per gestire al meglio il tuo tempo

Qual è la cosa più importante che abbiamo? Qual è quella risorsa limitata , forse l’unica, che non possiamo comprare? Puoi riuscire a procurarti la tecnologia migliore, puoi riuscire probabilmente a procurarti le persone migliori…ma non potrai mai procurarti… più tempo! Il tempo è una risorsa finita, democratica. Tutti abbiamo a disposizione al massimo 24 ore al giorno ma… alcuni sono in grado di sfruttare al meglio il proprio tempo ed essere più produttivi pur lavorando di meno! Qual è il loro segreto? O meglio: quali sono i loro 18 “piccoli” segreti? Scoprilo con la lettura di questo ebook gratuito!

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Pete Linforth da Pixabay

Parma: L’ultimo romantico. Luigi Magnani il signore della Villa dei Capolavori

12 Settembre 2020 – 13 Dicembre 2020
Mamiano di Traversetolo – Parma, Fondazione Magnani-Rocca
L’ultimo romantico. Luigi Magnani il signore della Villa dei Capolavori
Sito web: http:/www.magnanirocca.it

Milton Gendel, Luigi Magnani e la Principessa Margaret d’Inghilterra nella Villa dei Capolavori, 1984

Dal 12 settembre al 13 dicembre 2020, la Fondazione Magnani-Rocca, col titolo “L’ultimo romantico”, propone un ricchissimo omaggio espositivo al suo Fondatore, e lo fa nella dimora che Luigi Magnani trasformò in una casa-museo sontuosa e sorprendente, la ‘Villa dei Capolavori’ a Mamiano di Traversetolo, nel parmense. Uomo di cultura tra i grandi della sua epoca, Magnani può essere legittimamente assunto a testimone di ‘Parma Capitale Italiana della Cultura 2020’, sotto la cui egida la mostra si svolge.

Luigi Magnani (1906-1984), uno dei massimi collezionisti di opere d’arte al mondo, nella sua casa delle meraviglie realizzò un vero Pantheon dei grandi artisti di ogni epoca, un tempio che si andò animando lentamente con l’acquisizione di dipinti e arredi unici, dai Morandi e i fondi oro degli inizi, poi il Tiziano, il Goya, fino al Monet, ai Renoir e al Canova degli ultimi anni della sua vita, in un processo di identificazione spirituale con le opere che giungevano ad abitare la sua dimora presso Parma come la scena della sua vita intellettuale.

La mostra, con oltre cento magnifiche opere provenienti da celebri musei e prestigiose collezioni, intende raccontare nei saloni destinati alle mostre temporanee – in parallelo alla sua Raccolta d’arte permanente, allestita nei saloni storici della Villa – la figura di Luigi Magnani, che amava il dialogo tra la pittura, la musica, la letteratura, attraverso i suoi interessi e le personalità che frequentò o alle quali si appassionò. Intellettuale di primo piano nella cultura italiana del Novecento, nonché frequentatore dei più esclusivi salotti del suo tempo, fu tra i fondatori di Italia Nostra. L’esposizione – a cura di Stefano Roffi e Mauro Carrera – presenta dipinti, ritratti, autoritratti e documenti autografi dei celeberrimi artisti, critici, musicisti, letterati, registi, aristocratici, capitani d’industria frequentati da Magnani, da Bernard Berenson a Margaret, sorella della regina d’Inghilterra, da Eugenio Montale allo stesso Giorgio Morandi; inoltre omaggi pittorici alla passione per la musica di Magnani, resi dai più grandi artisti italiani del Novecento, da Severini a de Chirico a Guttuso a Pistoletto; importanti strumenti musicali antichi; i segreti della Villa, svelati eccezionalmente al pubblico. Infine, il sogno di altri ‘capolavori assoluti’ inseguiti da Magnani ma non conquistati, che in occasione della mostra raggiungeranno la Villa dei Capolavori e verranno svelati; il primo grande sogno realizzato è il celeberrimo dipinto Il cavaliere in rosa di Giovan Battista Moroni, capolavoro cinquecentesco, gemma di Palazzo Moroni a Bergamo, che, dopo la Frick Collection di New York, viene ora esposto alla Fondazione Magnani-Rocca per la durata della mostra.

Quella che ora è chiamata ‘Villa dei Capolavori’ è tuttora abitata dallo spirito della bellezza, e mostra ancora purezza e forma sublimi, così come la volle Magnani, del quale rappresenta il compiuto autoritratto, come lo è per Peggy Guggenheim la collezione conservata a Venezia; nella Villa si è realizzato un ‘museo dell’anima’ in cui quadri dei grandi maestri del passato, degni dei più importanti musei del mondo, accanto ad arredi del primo Ottocento degni di una residenza napoleonica, raccontano di sé e della vita di chi li ha raccolti e custoditi, in dialettica con alcune delle opere simbolo della contemporaneità.

Attraverso le cose tornano a vivere gli incontri memorabili e le conversazioni finissime che lì ebbero luogo, quando insieme a Magnani, davanti a un piatto di fumanti anolini, Morandi e Arcangeli trovavano magicamente argomenti di condivisione poco tempo prima della clamorosa rottura fra il pittore e il critico, o quando Ungaretti, dopo una passeggiata nel parco, lasciava una poesia per l’amico Luigi, o ancora quando Guttuso festeggiava il Capodanno nella Villa omaggiando Magnani con la carnalità delle sue opere. L’élite culturale e aristocratica europea è passata per questi saloni, ha commentato un dipinto, ha ascoltato gli affascinanti racconti del padrone di casa, mentre le note di Mozart facevano da contrappunto ai capolavori dei celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.

Un dipinto da solo varrebbe il viaggio alla Villa di Luigi Magnani: è il grande quadro di Francisco Goya La famiglia dell’infante don Luis (1783-1784), forse il ritratto di corte più rivoluzionario di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer, Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra; altre opere imperdibili sono il Ghirlandaio, il Carpaccio, il Rubens, il Van Dyck, i Tiepolo, il Füssli, ma unici sono il preziosissimo Stimmate di San Francesco di Gentile da Fabriano e l’indimenticabile Sacra conversazione di Tiziano (1513). La magnificenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura nella Tersicore di Canova e nelle due figure femminili di Bartolini.

Il nucleo contemporaneo è dominato dalle ben cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani spiccano una stupefacente Danseuse futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico, alcuni lavori di Renato Guttuso e considerevoli sculture di Giacomo Manzù e Leoncillo. Importantissimo anche il Sacco di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, la Villa ospita l’unica sala di opere di Paul Cézanne in Italia; incantevole è il paesaggio marino di Claude Monet e splendide le opere di Renoir, Matisse, de Staël, Fautrier, Hartung.

Capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza. Segreto che Magnani, leggendo l’amato Doctor Faustus di Thomas Mann, riconosceva nella tensione tra il prorompente impulso creativo e le inviolabili leggi strutturali dell’arte; per questo volle per la propria raccolta un’opera di Rembrandt raffigurante proprio il Doctor Faustus. Della capacità dell’arte di conchiudere significati assoluti Magnani era convinto, come pure del suo afflato metafisico; per questo, dopo un lungo soggiorno romano dedicato all’insegnamento, si era ritirato nella sua Villa di Mamiano, fra gli amici eletti e le amate opere d’arte. Qui come già per Magnani, dimora per noi tutti la gioia silenziosa del posare lo sguardo su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984 a settantotto anni, dopo una vita trascorsa in dialogo spirituale con i grandi della cultura, ospiti reali o ideali della sua splendida residenza. Il percorso della Fondazione Magnani-Rocca era stato avviato con la sua istituzione da parte di Magnani nel 1977, nel disegno di destinare i suoi tesori d’arte al godimento di tutti, nel ricordo dei propri genitori, donando a Parma e all’Italia una piccola Versailles. L’apertura al pubblico della Villa avvenne trenta anni fa, nell’aprile 1990. Venivano così svelate le opere di una raccolta quasi leggendaria appartenuta a una delle più eclettiche personalità culturali del XX secolo: Magnani fu infatti scrittore, saggista, storico dell’arte, compositore, critico musicale e, con le sue ricerche e i suoi scritti su Correggio, Morandi, Mozart, Beethoven, Goethe, Stendhal, Proust, seppe, come pochi, ricongiungere le ragioni del sentimento e quelle dell’intelletto.

IMMAGINE DI APERTURAGiovan Battista Moroni, Il cavaliere in rosa, 1560, olio su tela 216 x 123 cm

Giuseppe De Nittis – Passa un treno

Passa un treno, 1880, Pinacoteca De Nittis, Barletta

IL DIPINTO

Passa un treno è un dipinto di Giuseppe De Nittis. Realizzato prima del 1880, è conservato alla Pinacoteca De Nittis di Barletta. Fu presentato la prima volta alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino, nel 1880. Passa un treno fu esposto a Parigi alla Expotition J. de Nittis. Tableaux, pastels, acquarelles, dessins, études et croquits, nel 1886. Appartiene al gruppo di opere che, dopo la morte del pittore, furono donate dalla moglie Léontine Gruville al Comune di Barletta, città natale del pittore. In un primo tempo la critica assegnò il dipinto al 1869 e sostenne che il soggetto era ambientato in una campagna dell’Italia meridionale. La data fu in seguito posticipata al 1878-1879: il fazzoletto, portato dalle due contadine in primo piano, e l’albero di betulla non potevano non riferirsi a una campagna francese, oppure fiamminga.

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Giuseppe De Nittis nel 1875

L’ARTISTA

Giuseppe Gaetano De Nittis (Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884) è stato un pittore italiano vicino alla corrente artistica del verismo e dell’Impressionismo. Giuseppe Gaetano De Nittis nacque a Barletta nel 1846, figlio quartogenito di don Raffaele De Nittis e donna Teresa Emanuela Barracchia. Prima che nascesse, il padre fu arrestato per motivi politici, e, appena uscì di prigione due anni più tardi, si tolse la vita. Rimasto orfano sin dall’infanzia, crebbe con i nonni paterni, e dopo il suo apprendistato presso il pittore barlettano Giovanni Battista Calò, si iscrisse nel 1861 – contro il volere della famiglia – all’Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la guida di Mancinelli e Gabriele Smargiassi. Di indole indipendente e insofferente verso qualunque tipo di schema, si mostrò disinteressato alle nozioni ed esercitazioni accademiche, tanto che fu espulso per indisciplina due anni più tardi. Assieme ad altri pittori, fra cui Federico Rossano e Marco De Gregorio, si diede alla composizione all’aria aperta (dipingevano generalmente a Portici), specializzandosi nella riproduzione di paesaggi porticesi, partenopei e barlettani. Nel 1864 fu notato da Adriano Cecioni e l’anno successivo fondò la Scuola di Resìna, corrente italiana sul tema del realismo.

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