Non sempre il progetto vincitore di un concorso è davvero convincente

di Sergio Bertolami

My God! È lunedì e su WhatsApp sono ricominciate le schermaglie. C’è chi usa il fioretto, chi la sciabola o la spada, e pure l’arbitro non disdegna qualche affondo. Ciò che anima i cuori ardenti della Chat è la contesa. Come a noi, giovani architetti dei primi anni Ottanta, piacevano i concorsi di progettazione. Ci appassionava misurarci sul terreno della competizione, piuttosto che su quello degli incarichi ordinari. E se la competizione era lanciata da una rivista di prim’ordine, che prometteva una visibilità internazionale, allora il gioco si faceva eccitante. Mio fratello Daniele, era un trascinatore irrefrenabile, convinto che occorresse partecipare a molti dei bandi dell’epoca. Sosteneva che avrebbero permesso di emergere anche a degli illustri sconosciuti come noi. Aveva persino scritto a Renzo Piano, che da qualche anno godeva della fama conquistata col Beaubourg (chi lo conosceva prima di allora?), e aveva ricevuto anche risposta e l’incitamento a proseguire nei suoi convincimenti. Io, al contrario, obiettavo ogni perplessità. Avevamo da poco terminato un concorso per la progettazione di una piazza in un comune della Toscana, chiamati da uno dei nostri professori di composizione architettonica. Non avevamo vinto neppure un fiore di consolazione colto nel giardino immaginato. Ci avevamo lavorato alacremente per una quindicina di giorni, con un gruppo di amici indimenticabili. Caffè, sigarette, scherzi, battute di spirito, e poi ancora caffè, cercando di non rovesciarlo sugli enormi fogli da disegno. A colpi di Rapidograph e lametta da barba (per ogni minima correzione), ricominciare da capo avrebbe messo a repentaglio la consegna. L’orologio era il nostro nemico; non la notte o il sonno, ma le lancette delle ore.

Ecco perché ogni volta che, in studio, Daniele si sedeva alla mia scrivania con una rivista in mano, già sapevo che avrei dovuto principiare una battaglia estenuante. Una mattina mi aprì una gran pagina colorata di Domus. Il concorso annunciato non era una piazza per riqualificare un centro storico, un complesso di case fatiscenti da risanare come edilizia economica popolare, una fabbrica dismessa da trasformare in museo. Era semplicemente la proposta per una innovativa moquette, lanciata da Louis De Poortere e dalla prestigiosa rivista di architettura e design fondata da Gio Ponti. In palio i premi per i tre classificati, una mostra alla Fiera di Milano per cinquanta selezionati e, naturalmente, la messa in produzione della moquette prescelta. «Tu pensi che non riusciremo almeno a piazzarci fra quei cinquanta? Non vinceremo, ma sbarcheremo a Milano!». Dall’entusiasmo di mio fratello sembrava che dovessimo subito decidere se prenotare i biglietti del treno o dell’aereo. Mi convinceva, però, che non fosse un lavoro tanto impegnativo da fermare lo studio per qualche settimana. Nonostante ciò, chiesi il parere di Mario e Birgit e fu in sala disegno che piantammo il campo di battaglia. Mario era un giovane architetto, a modo suo figlio della Beat Generation, amato dai nostri clienti che con lui non provavano alcuna soggezione. Tutto il contrario era Birgit, una biondina uscita dall’Università di Belle Arti di Amburgo, di una precisione inappuntabile. Quella fu, probabilmente, l’unica volta che espressero un parere concorde. A loro avviso, il concorso copriva dei giochi già fatti e se proprio, Daniele e io, volevamo parteciparvi occorreva che, da titolare dello studio, prendessi il telefono per cercare una bella raccomandazione. A quel punto il gruppo di lavoro era definito; cosicché, riempire con solo i nostri due nomi il modulo d’iscrizione e spedirlo, fu tutt’uno.

Qualche settimana più tardi ricevemmo un plico contenente dei grandi quadrati di moquette bianca immacolata e due scatole di pennarelli nella gradazione dei bruni. Le istruzioni per l’uso spiegavano il funzionamento delle macchine e degli ugelli a iniezione che avrebbero realizzato il disegno. Come di consueto Daniele sfornò una profusione di schizzi e io selezionai le tre proposte da elaborare nelle modalità corrette. Poi fu tutto un lavoro di geometrie, perché di colori neanche a parlarne. Prima di quanto ci aspettassimo completammo i cartoni, tono su tono, e inoltrammo il tutto alla sede italiana della società belga. Non dovevamo che attendere i risultati. Nel frattempo, rispondevamo, al più, alle canzonature di Mario e di Birgit. Arrivò la data della mostra milanese, anticipata da un elegante catalogo spillato. Fu mio il compito di voltare pagina dopo pagina, attorniato dai presenti incuriositi. Il progetto vincitore s’intitolava “Tessuto urbano” e rappresentava una planimetria catastale da pavimento. Immaginate di camminare come Gulliver lungo le strade e le valli di Lilliput. Neppure il secondo e il terzo premio andarono a noi. Rimanevano ancora cinquanta progetti da guardare. Voltavo ogni foglio con lentezza esasperante, un po’ per creare suspense, ma soprattutto perché, ad ogni pagina in più, diminuiva la possibilità di una nostra traccia. Quando chiusi la quarta di copertina fu chiaro che di noi non c’era ombra. «Cosa mai potevamo aspettarci, noi del profondo Sud? Bastava leggere i nomi dalla commissione giudicatrice per comprendere quale sarebbe stato il risultato finale! Non ti sei procurato neppure un morso di raccomandazione, come avevo suggerito io!». Questa non è che una sintesi estrema dei commenti; gli altri è facile immaginarli. Che il concorso fosse verosimilmente orientato lo dimostrava una miriade di indizi.

Racconto però questa storia, giacché in fin dei conti ha una sua morale. A volte è lo stesso autore a metterla in evidenza, questa specie di lezione di vita, a volte invece è la sorte stessa che a sorpresa la serve in tavola. A noi capitò, quando una gentile voce femminile disse di chiamare per conto della LdP. In verità chi rispose al telefono comprese B&B, nota società di divani e poltrone. Stavo per rispondere di non avere tempo per incontrare un rappresentante di giro. Ma la LdP era proprio quella Louis De Poortere che mesi prima ci aveva lasciato con la bocca amara. La cordiale signora dava per scontato che io conoscessi ogni risvolto del concorso. La manifestazione di Milano non era che la prima tappa di un processo selettivo. La documentazione, raccolta evidentemente in varie parti d’Europa in altrettanti concorsi, era giunta a Mouscron, in Belgio, dove la fabbrica di moquette e tappeti pregiati ha sede centrale. Con questo mi si informava che a giorni avrei ricevuto una proposta di contratto per la produzione di uno dei disegni che avevamo spedito. Messo a punto il contratto, in tempi strettissimi avremmo dovuto procedere con la progettazione e concludere gli elaborati esecutivi. Quello che seguì fu un iter di lavoro artistico svolto, passo dopo passo, con i tecnici dell’azienda. La moquette fu concepita in tre varianti di colori, utilizzando soluzioni e macchine di nuovissima generazione che permettevano di produrre un “contract” di alta gamma per alberghi e uffici open space, navi e aeroporti, grandi ambienti arredati. Per l’Europa e il resto del mondo. Si affacciava sul mercato un nuovo concetto di vendita che evitava il magazzino di stoccaggio. Come al solito mio fratello Daniele aveva colto nel segno. Non avevamo vinto il concorso, non avevamo esposto a Milano a fianco dei nostri colleghi italiani. Ma a differenza loro, che non videro realizzato alcun lavoro, noi potevamo sfogliare il lussuoso catalogo cartonato, interamente a colori, nel quale la nostra moquette compariva nella sezione Design, a fianco di firme prestigiose come Ricardo Bofill o Ettore Sottsass.

Questa storia, nella sua semplicità, dimostra che non sempre il progetto vincitore di un concorso, magnificato in una mostra o in un convegno, celebrato dalle grandi riviste internazionali, lodato da tanti ammiratori, è davvero convincente da trovare un suo riscontro produttivo o d’uso. Dopotutto, il design, quello creato a favore della gente e non solo del marketing ad effetto, è una sintesi che assomma prerogative tecniche, funzionali, economiche, estetiche, riguardanti oggetti prodotti in serie per l’industria e per la vita. Ecco perché a partire da quei primi anni di professione giovanile, piena di fiducia e aspettative, con Daniele ho continuato a lavorare con grande serietà, evitando in progettazione personalismi e boutade. Sempre ridendo, scherzando, bevendo caffè. Sedevamo in poltrona, lui fumando l’immancabile sigaretta. Ogni volta col minimale incantamento di realizzare qualcosa che solo apparentemente il caso ci aveva concesso. Nulla esigendo da nessuno. E questo fino al suo ultimo respiro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay