Firenze, Gli Uffizi: Wright of Derby Arte e scienza

IN UN DIPINTO TUTTA L’EMOZIONE DELLA SCIENZA: IN ‘TRASFERTA’ DALLA NATIONAL GALLERY DI LONDRA ARRIVA IN MOSTRA AGLI UFFIZI IL CELEBRE ‘ESPERIMENTO’ DI JOSEPH WRIGHT OF DERBY

Capolavoro del museo inglese raramente concesso in prestito, per la prima volta esposto in Italia: resterà in Galleria fino al 24 gennaio

Wright of Derby Arte e scienza  
Firenze, Gli Uffizi
6 ottobre 2020 – 24 gennaio 2021

Joseph Wright of Derby (Derby 1934 – 1797)
Esperimento su un uccello in una pompa pneumatica
1768, olio su tela, The National Gallery. Londra

Volti spaventati, preoccupati, meravigliati, incuriositi, appena rischiarati nelle loro diverse espressioni dalla luce della lanterna e dal flebile chiarore della luna. Sono i protagonisti del celebre dipinto settecentesco Esperimento su di un uccello inserito in una pompa pneumatica, eseguito nel 1768 dal pittore inglese Joseph Wright of Derby: capolavoro indiscusso della National Gallery di Londra, sbarca per la prima volta in Italia, alla Galleria degli Uffizi di Firenze, dove, esposto da oggi al secondo piano del museo (nella sala 38, tra la stanza che custodisce i dipinti di Leonardo da Vinci e quella di Michelangelo e Raffaello) vi resterà fino al 24 gennaio 2021 nell’esposizione “Arte e Scienza”, curata da Alessandra Griffo.

Proprio le reazioni umane nei confronti della ricerca scientifica sono il tema portante di quest’opera, che per l’occasione diventa anche simbolo dei legami culturali tra Londra e Firenze nel segno della storia, dell’arte e della natura.

Nel 1768, data a cui risale il dipinto di Wright of Derby, le sperimentazioni sul vuoto d’aria tramite pompa pneumatica messa a punto da Robert Boyle, chimico irlandese vissuto nel secolo precedente, non costituivano più una novità scientifica. Erano però ampiamente proposte con fini divulgativi e didattici nelle sedi più disparate; e lo stesso accadeva nello stesso periodo anche a Firenze. A partire dagli anni Settanta del Settecento, prima a Palazzo Pitti per i propri figli, poi anche per un pubblico più ampio nel neonato Museo di Fisica e Storia Naturale allestito a La Specola, il granduca Pietro Leopoldo di Lorena commissionava analoghi esprimenti e laboratori dimostrativi che introducevano alla conoscenza delle principali leggi chimico-fisiche allora note. Le strumentazioni utilizzate dall’istituto, simili a quella riprodotta nel quadro londinese, sono in seguito confluite nel Museo Galileo di Firenze, dove sono custodite tuttora.

L’Esperimento di Wright of Derby raffigura una riunione in una casa di campagna inglese: il pubblico è composito – non si tratta di addetti ai lavori – e proprio questo campionario di tipi umani diversi permette all’artista di raffigurare le espressioni con teatralità: a rafforzare questo effetto sono anche i forti contrasti di luce ed ombra, e l’abbigliamento da illusionista dell’uomo al centro: è lui che, girando la chiavetta ed eliminando l’aria dalla campana, può decretare la morte del volatile. La stessa scelta del pappagallino bianco (al posto del consueto canarino) rende ancora più drammatico il contrasto tra il candore delle piume e l’oscurità intorno.

Tra gli spettatori meravigliati, nel caso dell’Esperimento, deve essere incluso anche chi osserva il quadro; le dimensioni dei personaggi, della strumentazione e degli stessi spazi, prossime alla scala 1:1, creano infatti la finzione di una stanza nella stanza, con un effetto realistico potenziato dalla qualità pittorica nitida, minuziosa, dettagliatissima.

Nella mostra sono poste in dialogo con la grande tela altre opere che illustrano la pratica dello studio a lume di candela, la concentrazione notturna sul lavoro di concetto, come il San Girolamo con due angeli di Bartolomeo Cavarozzi (1617), e il disegno di Enea Vico, L’Accademia di Baccio Bandinelli (1560). Completa l’esposizione l’ottocentesco Orologio da mensola in forma di gabbietta, oggetto prezioso in prestito dagli Appartamenti Imperiali e Reali di Palazzo Pitti, la cui forma evoca direttamente l’uccelliera da cui è stata estratta la colomba protagonista, suo malgrado, dell’esperimento raccontato da Wright of Derby nel suo quadro.

Commenta il ministro ai Media e la Cultura del Regno Unito John Wittingdale: “L’Italia e l’Inghilterra condividono una storia illustre di ispiratori del progresso globale nei campi dell’arte e della scienza; una tradizione, questa, che è stata mantenuta attraverso i secoli e prosegue saldamente ancora oggi. Questa mostra agli Uffizi celebra la nostra dedizione nel costruire legami forti e duraturi tra le nostre due nazioni attraverso lo scambio culturale”.

Aggiunge il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt: “Il dipinto di Wright of Derby conferisce una qualità monumentale alle reazioni umane davanti a un esperimento scientifico: narra le emozioni e descrive i personaggi come in un quadro di storia – il genere più nobile in pittura, fino a quel momento. La scena ci cala con straordinaria immediatezza nello spirito Illuminista che anche a Firenze viveva una gloriosa stagione: fu proprio in questo periodo, nel 1769, che il Granduca Pietro Leopoldo decise di aprire gli Uffizi al pubblico, per istruirlo; tuttavia in quegli anni il più visitato della città era il museo di scienze naturali della Specola. Nel Settecento, la Scienza dominava anche in riva all’Arno”.

Spiega la curatrice dell’esposizione Alessandra Griffo: “Oltre a costituire un caposaldo della pittura inglese del Settecento, l’Esperimento su di un uccello inserito in una pompa pneumatica, eseguito nel 1768 da Joseph Wright of Derby, si impone oggi all’attenzione del pubblico, in quest’epoca segnata dal Covid-19, anche con imprevisti accenti di attualità. Le nostre reazioni nei confronti della ricerca scientifica – indifferenza, consapevolezza, riflessione, curiosità o timore – sono infatti uno dei temi di quest’opera che tuttavia propone, come accade per le grandi opere, numerosi livelli di lettura. Alcuni sono stati suggeriti in mostra associando al dipinto londinese altre cinque opere delle Gallerie degli Uffizi. Da un lato viene tratteggiato il tema squisitamente artistico dei dipinti a lume di notte, dall’altro viene sollecitata la riflessione sull’argomento sensibile del rispetto per la dignità degli animali”. 

JOSEPH WRIGHT OF DERBY: CENNI BIOGRAFICI

Joseph Wright, detto “of Derby” dal nome della città inglese dove nacque nel 1734 e morì nel 1797, si formò a Londra come ritrattista, divenendo uno dei massimi esponenti di questo genere particolarmente apprezzato nel mondo anglosassone. Oltre ai ritratti, cui si dedicò lungo tutto l’arco della sua carriera, a partire dalla metà degli anni Sessanta si datano inoltre una serie di opere caratterizzate da ricercati effetti luministici che richiamano la tradizione seicentesca, caravaggesca, e la pittura olandese. L’artista raffigura soggetti comuni, scene di genere e accademie artistiche a lume di candela, o viceversa – come nel caso dell’Esperimento qui esposto, risalente al 1768 – le novità scientifiche e tecnologiche che documentano il diffuso sentire della società illuminista, già avviata sulla strada della rivoluzione industriale. Del 1774 -1775 è un viaggio in Italia che gli ispirò vedute e paesaggi, di nuovo connotati da scenografici contrasti di luce: l’eruzione del Vesuvio, spettacoli pirotecnici nei cieli di Roma, gli interni di orride grotte e caverne. Realizzati anche dopo il ritorno in patria, insieme a soggetti che illustrano brani letterari di tono accentuatamente patetico, questi dipinti aprono alla cultura preromantica del Sublime.

IMMAGINE DI APERTURA – L’opera in esposizione (particolare)

Giovanni Segantini – Le cattive madri

Le cattive madri, 1894, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

IL DIPINTO

Le cattive madri è un dipinto del pittore italiano Giovanni Segantini, realizzato nel 1894 e conservato al Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Le cattive madri costituisce la seconda opera del cosiddetto ciclo del Nirvana, una serie di dipinti che Segantini realizzò ispirandosi ad un testo del Nirvana del librettista Luigi Illica. L’artista, infatti, trasfigura i celebri versi dell’autore e li riporta sulla tela, seguendo un procedimento tipicamente simbolista, che consiste nel partire dal concetto per poi giungere all’immagine. È proprio grazie a quest’opera, la quale fu acclamata dalla Secessione viennese e acquistata dal governo austriaco, che Segantini venne annoverato tra gli esponenti del Simbolismo europeo, mentre in Italia erano numerose le critiche che si stavano diffondendo nei confronti del ciclo del Nirvana, ritenuto un’erronea interpretazione del testo di Illica. La tematica affrontata nel quadro si lega alle vicende autobiografiche del pittore, il quale perse la madre a causa di una malattia quando era ancora un bambino. Questo fatto spalancò in lui un enorme vuoto che, in seguito, si trasformò in una vera e propria ossessione. Nelle cattive madri l’artista mette, infatti, in scena una vera e propria condanna rivolta a tutte coloro che, per un qualunque motivo, in vita rifiutarono la maternità per affermare la propria libertà sessuale.«Amai e rispettai sempre la donna in qualunque condizione essa sia pur che abbia viscere di Madre.» (Giovanni Segantini). Aspetto tipico della corrente simbolista è, infatti, la contrapposizione binaria tra donna come madre, che viene celebrata dallo stesso Segantini nel dipinto L’angelo della vita, e donna come femmina, che avendo abdicato alla sua missione primaria, deve necessariamente scontare la propria pena.

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Giovanni Segantini, ritratto fotografico

L’ARTISTA

Giovanni Segantini (Arco, 15 gennaio 1858 – monte Schafberg, 28 settembre 1899) è stato un pittore italiano, tra i massimi esponenti del divisionismo. Giovanni Battista Emmanuele Maria, figlio di Agostino Segantini e Margarita de Girardi, nasce ad Arco, nella parte italofona del Tirolo, allora appartenente all’impero austriaco, in una famiglia in condizioni economiche precarie. Alla morte della madre (Margherita de Girardi), nel 1865 viene inviato dal padre a Milano, in custodia presso la figlia di primo letto Irene. Privato di un ambiente familiare vero e proprio, Segantini vive una giovinezza chiusa e solitaria, tanto da venire arrestato per ozio e vagabondaggio, anche perché era considerato apolide: nel 1870 è rinchiuso nel riformatorio Marchiondi, dal quale tenta di fuggire nel 1871, ma vi viene riportato e vi rimane fino al 1873. Segantini viene quindi affidato al fratellastro Napoleone, che vive a Borgo in Valsugana, e, per mantenersi, lavora come garzone nella sua bottega. Rimane a Borgo fino al 1874. Al suo ritorno a Milano, ha ormai sviluppato una sua prima coscienza artistica e passione per la pittura, tanto che si iscrive ai corsi serali dell’Accademia di belle arti di Brera, che frequenta per quasi tre anni.

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Montevarchi (Arezzo): Ottone Rosai

25 Ottobre 2020 – 31 Gennaio 2021
Montevarchi, Palazzo del Podestà
OTTONE ROSAI
Mostra a cura di Giovanni Faccenda
Sito web ufficiale

Ottone Rosai: Trattoria Lacerba (1921) Olio su tela applicata su tavola, cm 20,3×39

Il Comune di Montevarchi (AR) annuncia le nuove date della mostra dedicata a Ottone Rosai inizialmente prevista per aprile. Grazie alla grande sensibilità dimostrata da tutti i prestatori delle opere è stato possibile individuare il periodo che va dal 25 ottobre 2020 al 31 gennaio 2021.

Ottone Rosai (Firenze 1895 – Ivrea 1957), uomo dalle travolgenti passioni, fu artista che scelse di leggere le novità del suo tempo alla luce della grande arte del Tre-Quattrocento toscano. Nel centenario (1920) della prima personale fiorentina di Rosai, che lo impose all’attenzione del mondo dell’arte, la città di Montevarchi, nell’aretino, aveva deciso di proporre un’ampia e del tutto originale retrospettiva dedicata al maestro toscano, progetto ovviamente fermato dall’emergenza covid-19 ma che sarà auspicabilmente possibile completare nell’autunno, rendendo la mostra fruibile al pubblico dal 25 ottobre prossimo.

A curarla è il professor Giovanni Faccenda, massimo esperto di Rosai e curatore del catalogo generale delle sue opere.
La mostra riunirà, nella storica sede di Palazzo del Podestà, cinquanta opere di Rosai, per metà disegni e altrettanti oli. Tutti riferiti ad un momento preciso dell’artista: gli anni tra il 1919 e il 1932, il ventennio tra le due Grandi Guerre.
Le opere provengono tutte da collezioni private, e il pubblico potrà ammirare tele notissime ma anche – e questa è una delle peculiarità di questa mostra – opere del tutto inedite, emerse dalle ricerche che il prof. Faccenda ha condotto nelle collezioni private e nelle case di chi, in Toscana ma non solo, ebbe rapporti con Rosai o con i suoi galleristi ed eredi.
«Una delle maggiori peculiarità di questa esposizione pubblica – anticipa il professor Faccenda – deriva dalla riscoperta di una decina di capolavori assoluti di Rosai degli anni Venti e Trenta, tutti provenienti da una raccolta privata romana, presenti alla mostra di Palazzo Ferroni, a Firenze, nel 1932, e documentati nel primo volume del Catalogo Generale Ragionato delle Opere di Ottone Rosai (Editoriale Giorgio Mondadori, Milano, 2018), da me curato. Accanto ad essi, le eccellenze più note di un periodo – quello fra le due guerre (1918-1939) – che rappresenta l’aristocrazia della pittura e del disegno di Rosai.
Vi si aggiunga la volontà di superare una lettura esegetica ormai antiquata e limitata dell’opera di questo Maestro fra i maggiori del Novecento, sovente priva dei necessari riferimenti culturali che vi si debbono cogliere (Dostoevskij, Campana e Palazzeschi, fra gli altri) e di una riflessione filosofica che tenga conto delle affinità con il pensiero di Schopenhauer e il pessimismo cosmico di Leopardi.»

“Quando il Professor Faccenda diversi mesi fa, ci propose di realizzare la mostra, introducendoci nella storia complessa e particolare di questo maestro dell’arte del ‘900 – spiega Silvia Chiassai Martini Sindaco di Montevarchi – rimanemmo catturati dalla delicatezza e dalla grande espressione di umanità che emerge dalle sue opere. Allora pensammo che ospitare un’esposizione dei suoi capolavori nel nostro Palazzo del Podestà, in un luogo tornato alla sua antica bellezza, fosse un’opportunità culturale che dovevamo cogliere subito, tanto più ne siamo convinti ora poiché la mostra segnerà anche la ripresa culturale del nostro paese”.

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IMMAGINE DI APERTURAOttone Rosai: Partita a briscola (La partita a scopa) (1920) Olio su tela, cm 70×50

Arnold Böcklin – L’isola dei morti

L’isola dei morti, prima versione dell’opera nel museo d’arte di Basilea, 1880-1886, Kunstmuseum Basel

IL DIPINTO

L’isola dei morti (Die Toteninsel) è il nome di cinque dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin, realizzati tra il 1880 e il 1886 e conservati a Basilea, New York, Berlino e Lipsia. Un luogo tranquillo: era questo il titolo originale della prima versione dell’opera, eseguita da Böcklin dopo una gestazione molto meditata su commissione di Alexander Günther, il suo mecenate ricco e misterioso: «L’isola dei morti è pronta, finalmente» gli comunicò in una missiva del 19 maggio 1880 «e sono convinto che susciterà l’impressione che desidero». Lo stesso Böcklin, tuttavia, rimase talmente stregato dalla sua creatura da non volersene separare più. Non sappiamo nulla sullo spunto che sollecitò Böcklin a dare vita a questa precisa composizione, che potrebbe aver preso le mosse da una visione onirica, o magari da un’immagine reale poi rielaborata dal genio artistico e dall’inconscio del pittore, o magari da luttuose fantasticherie.

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Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872 circa, Alte Nationalgalerie, Berlino

L’ARTISTA

Arnold Böcklin (Basilea, 16 ottobre 1827 – San Domenico di Fiesole, 16 gennaio 1901) è stato un pittore, disegnatore, scultore e grafico svizzero, nonché uno dei principali esponenti del simbolismo tedesco. Arnold Böcklin nacque il 16 ottobre 1827 a Basilea, figlio di Christian Friedrich Böcklin, noto mercante della seta nativo di Sciaffusa, e di Ursula Lipp, celebre discendente di una famiglia che annoverava tra i propri avi Johann Jacob Lippe e Hans Holbein il Giovane. Inizialmente destinato a seguire le orme paterne, grazie all’intercessione della madre e del poeta Wilhelm Wackernagel (professore al ginnasio e all’università di Basilea) il giovane Arnold fu in grado di assecondare la sua più autentica vocazione artistica, andando nel 1845 a studiare all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf. Qui ebbe come insegnante il pittore Johann Wilhelm Schirmer, uno dei maggiori interpreti del tempo della cosiddetta pittura eroico-panoramica, che in lui trovò un apprezzato autore di paesaggi densi di colore e di luce. Come osservato dallo storico dell’arte Heinrich Wölfflin «presso Schirmer a Düsseldorf la tendenza verso il grande paesaggio eroico ha ricevuto un particolare nutrimento. Giganteschi gruppi di alberi, pianure maestose, linee di montagne italiane con il loro tranquillo respiro riempivano la fantasia. Tuttavia il pathos un po’ generico di Schirmer non bastava a Böcklin». L’alunnato del Böcklin presso lo Schirmer durò fino al 1847, anno in cui Böcklin si recò insieme al condiscepolo Rodolf Koller a Bruxelles ed Anversa per ammirare i dipinti dei grandi maestri fiamminghi e degli olandesi del Seicento, rimanendone fortemente impressionato. Seguì un viaggio nella natia Svizzera, dove Böcklin – che, giova ricordarlo, aveva sviluppato una naturale inclinazione per la pittura di paesaggio – ebbe modo di incontrare la forza evocativa delle Alpi, da lui omaggiate con dipinti dal sapore friedrichiano. Arrivò persino a installarsi a Ginevra, seguendovi i corsi di Alexandre Calame, rinomato pittore di paesaggi alpini. L’apprendistato con quest’ultimo, tuttavia, si rivelò essere sterile ed inconcludente, sicché il giovane Arnold decise di recarsi a Parigi, città in quell’epoca satura di fermenti artistici. Böcklin rimase certamente colpito dall’innovativo cromatismo delle opere di Delacroix e Corot, o anche dalla bellezza de I romani della decadenza, quadro di Couture che nel 1847 aveva suscitato ammirati plausi nel pubblico del Salon. Ma furono in particolar modo la vastità e la solitudine del tessuto urbano Parigini e, soprattutto, la tumultuosità della rivoluzione francese del 1848 a lasciare un’impronta indelebile nel suo animo.

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William Hogarth: Marriage à-la-mode / Poco tempo dopo il matrimonio

di Sergio Bertolami

Come sappiamo, i dipinti originali furono acquistati da John Lane, di Hillingdon, il quale in una lettera al signor Nichols, ha descritto i particolari di quella singolare transazione. Nell’anno 1750, William Hogarth pubblicizzò la vendita degli originali, dando luogo a una sorta di asta. Ogni potenziale acquirente avrebbe dovuto fare pervenire la propria offerta personale mediante un biglietto scritto su carta intestata e controfirmato, dove era riportato il prezzo disponibile a pagare. Queste offerte avrebbero dovuto pervenire ad Hogarth entro un mese dall’avvio della gara. Alle dodici dell’ultimo giorno del mese i quadri sarebbero andati al migliore offerente. Nessun altro, tranne coloro che avevano presentato per iscritto le offerte, sarebbe stato ammesso all’acquisto il giorno in cui il pittore avrebbe determinato la cessione dei sei dipinti. Questo strano metodo di vendita, del tutto nuovo per quanti apprezzavano le opere di Hogarth, portò uno sconvolgimento tale da sembrare esserci un atteggiamento concordato fra quanti erano contrari all’illustre pittore. Insomma, parve che l’approvazione straordinaria verso le sue opere, fosse all’improvviso venuta meno. Se questo fosse davvero il caso – scriveva John Lane nella sua lettera – i detrattori realizzarono pienamente la propria intenzione.

Nel giorno stabilito di giugno 1750, verso le undici, il fortunato acquirente, Mr. Lane, arrivò al Golden Head. Grande fu la sua sorpresa. Si aspettava di trovare il salone dei dipinti pieno di nobili e illustri personaggi. Questo era accaduto in altre situazioni di cui era stato testimone, ad esempio nel 1745, quando Hogarth mise in vendita molti dei suoi quadri. Quel giorno, al contrario, trovò solo il pittore e il suo ingegnoso amico Dr. Parsons, segretario della Royal Society. Questi signori sedevano nella sala dei dipinti, parlottando fra loro mentre aspettavano almeno un certo numero di spettatori, se non proprio di offerenti. Quando si aprì la busta, Hogarth dovette constatare che quell’unica offerta pervenuta era da considerarsi l’offerta più alta, fatta per iscritto da un gentiluomo secondo le regole prefissate. L’offerta ammontava a £ 126. Nessun altro entrò una decina di minuti prima di mezzogiorno, ora segnata dall’orologio posto nella stanza. Il signor Lane precisò anche a voce quanto aveva scritto nella sua lettera d’offerta. L’orologio batté le dodici e Hogarth augurò gioia al signor Lane per il suo acquisto, con la speranza che il fortunato acquirente fosse soddisfatto. Il signor Lane, sorpreso dell’inaspettato favore della sorte, rispose: «È precisamente così».

La transazione doveva a quel punto considerarsi conclusa, quando inaspettatamente seguì un inconveniente, suscitato dall’amico di Hogarth, il Dottore. In verità, ciò che seguì disturbò, più che il signor Lane, lo stesso Hogarth, che parve manifestare in volto una grande e ragionevole delusione. Il Dottore disse a Hogarth che aveva fatto un errore grave, perché aveva deciso di fissare la vendita a un’ora poco conveniente; cioè proprio quando le persone importanti in quella parte di città si erano da poco alzate dal letto. Hogarth perplesso rispose: «Forse può essere così». Il signor Lane, dopo qualche istante di sorpresa concordò col Dottore, aggiungendo di essere anche lui dell’opinione che quelle pregevoli opere di pittura fossero davvero mal pagate; pertanto, se Hogarth pensava che più tempo gli sarebbe stato di qualche utilità, gli avrebbe concesso fino alle tre, per trovare un acquirente migliore di sé stesso. Hogarth accettò calorosamente l’offerta ed espresse i suoi riconoscimenti per la generosità manifestata dal signor Lane. Ricevette grandi encomi anche dal Dottore, che si offrì di rendere pubblica quella proposta disinteressata ed altruistica. Il signor Lane preferì, invece, che il fatto rimanesse riservato.

Circa una o due ore prima di quanto gli aveva concesso il signor Lane, Hogarth intervenne asserendo che non avrebbe più abusato della sua generosa disponibilità e che, se il signor Lane era soddisfatto del proprio acquisto, lo stesso Hogarth era ampiamente soddisfatto della propria vendita. Desiderava soltanto che il signor Lane gli promettesse che non si sarebbe mai liberato dei dipinti senza prima informarlo della sua intenzione. Il signor Lane tenne i sei quadri finché visse, nonostante varie offerte d’acquisto. Parlò anche più volte con Hogarth di questa sua determinazione a non cedere i quadri a nessuno. Un eminente pittore un giorno disse al signor Lane: «Questi dipinti sono certamente l’opera più faticosa e finita del grande Maestro; con essi è come possedere l’anima di Hogarth». Soltanto dopo la morte del signor Lane, questi sei quadri incomparabili furono messi all’asta da Mr. Christie’s, il 10 marzo 1792.

Scena seconda – Poco tempo dopo il matrimonio

(S.B.) La seconda scena del racconto di Hogarth è intitolata The Tête à Tête (il nome è segnato sulla sua cornice) e vi compaiono le prime avvisaglie di un matrimonio che non lascia presagire niente di buono. La coppia è infatti più “scoppiata” che mai. Nel lussuoso salone della loro nuova residenza i giovani sposi siedono ai lati di un tavolino dove è stata predisposta la prima colazione. Facendo però attenzione, l’orologio a parete segna venti minuti dopo mezzogiorno. Anche questa seconda scena, come la prima, si presenta incredibilmente piena di contrasti. La signora si è alzata da poco; intorno la confusione regna sovrana. Le candele, ridotte a mozziconi ancora fumanti, spuntano dal grande lampadario a bracci e dai candelabri. Un cameriere ha preso a riordinare le sedie intorno ai tavoli, sbadigliando in modo svogliato, dopo l’intera notte che lo ha impegnato al servizio degli ospiti. È del tutto indifferente al fatto che una candela minaccia di riprendere fuoco a poca distanza da lui. Almeno in parte, i divertimenti dell’allegra compagnia sono suggeriti dai tavoli verdi e dalle carte da gioco sparse sul pavimento. Una poltroncina in primo piano è rovesciata; a fianco sono abbandonati a terra i violini con le custodie e la raccolta di partiture eseguite nottetempo dai musici. Tanti dettagli che indicano come il decoro rigido dell’alta nobiltà del passato non sia stato minimamente rispettato da parte dei presenti, né richiesto della padrona di casa. Da un lato del caminetto, la bella e vanitosa padrona di casa siede al tavolino dove le è stato preparato un vassoio d’argento con teiera, una singola tazza e un piattino dal quale non ha rimosso neppure il tovagliolo. A malapena, con sonnolenza tenta di riprendersi dalle fatiche del festino. Con uno specchietto in mano, si sta stiracchiando, mentre guarda in tralice il consorte. Ai suoi piedi è caduto un libro con la scritta “Hoyle on Whist”, ovvero i consigli di Hoyle riguardo al Whist. È il breve manuale, pubblicato nel 1742 da Edmond Hoyle, noto per avere teorizzato per primo pratiche e tecniche del Whist, un gioco di carte molto in voga, semplice in quanto a regole, ma difficile ad essere giocato con abilità. La signora in déshabillé appare disfatta, sia negli atteggiamenti che nell’aspetto. Per Hogarth (come ebbe a sottolineare) «una ciocca di capelli che cade scomposta lungo le tempie ha un effetto troppo provocante per essere rigorosamente decente». È intorno a lei e alla sua lussuriosa mondanità che si è riunita l’allegra brigata, dal momento che il visconte suo marito ha passato le stesse ore fuori di casa, a gozzovigliare chissà dove.

Il giovane aristocratico è da poco tornato dalle sue avventure notturne. Dall’atteggiamento prostrato, dallo sguardo vacuo, si può chiaramente intuire come il suo stato fisico e mentale siano diretta conseguenza della dissoluzione. È rientrato da lunghe ore di baldoria. Il soprabito riccamente adornato lascia intravvedere il gilet sbottonato, la camicia disordinatamente fuori dalle brache, le calze di seta abbassate. Anche i suoi capelli sono sciolti, e, nonostante sia alla presenza di una signora, non si è neppure tolto il suo fregiato copricapo. Malconcio, è accasciato dall’altro lato del caminetto, come a prendere le distanze da sua moglie. Ambedue le mani conficcate nelle sue tasche. Fantastica ancora sulle grazie dell’amante appena lasciata. Da una tasca gli pende un suo capo d’abbigliamento intimo, sembra una cuffietta da notte (che si è portato via come prova di conquista), mentre un cagnolino ne sta annusando il profumo. Ai piedi del giovane è gettato il cinturone e lo spadino spezzato, segno inequivocabile che ha ingaggiato un duello, chissà, forse per difendere l’onore della donna: a causa di una parola licenziosa di un altro pretendente o per la facezia di un compagno di stravizi. Ma ripensa anche ai giri sfortunati di carte, che ancora una volta gli hanno fatto sborsare qualche bella somma. Lo esprime bene il volto agitato dell’anziano maggiordomo, che svolge anche il compito di amministratore dei conti di casa. Porta sottobraccio il Libro mastro e in tasca una copia di Regeneration, noto sermone metodista. Esprime mirabilmente la sua piena convinzione che la rovina finanziaria, dopo aver colpito il conte padre, interesserà inevitabilmente anche il visconte figlio e la sua esaltata consorte. Il maggiordomo stringe fra le mani un gran numero di cambiali da pagare, perché solo una fra queste è stata onorata: la ricevuta porta la data del 4 gennaio 1744. L’apparente intrusione di questo personaggio indica, da parte di Hogarth, come in quel tempo certi contabili solerti fossero generalmente considerati volgari, perché troppo impertinenti e molesti per una élite alla moda, in tutt’altre faccende affaccendata. Non sono di questo avviso, al contrario, le figure che compaiono alle pareti. I loro sguardi di disapprovazione verso i padroni casa sono espliciti.

Sul caminetto la coppia ha esposto nuovi acquisti di scarso pregio artistico: una sfilza di chincaglierie in vetro, onice, marmo, ad indicare un lusso senza eleganza né gusto. Spicca però, al centro della mensola, un pezzo d’antiquariato, sembra una Faustina romana col naso rabberciato, segno di poca o nessuna cura nel trattare reperti antichi e preziosi. Sul retro un dipinto è incastonato in una cornice marmorea poderosa, culminante con un frontone che onora il gusto classicheggiante del proprietario. Il dipinto rappresenta un Cupido che suona il flauto, non a caso assiso su delle rovine. Oltre l’arco, sorretto da una coppia di colonne con capitelli corinzi, compare un quadro di cui si scorge semplicemente un piede. Probabilmente una Danae, della quale è coperta ogni sensuale nudità. Nel salone, arredato nel corso del festino con tavolini da gioco rimovibili, fanno mostra alle pareti I quattro evangelisti ad evidenziare ogni contrasto morale. Sotto i dipinti, infatti, una fila di specchi riflette l’effettiva smoderatezza dei frequentatori di quell’ambiente. Nelle sue caratteristiche decorative il salone, raffigurato da Hogarth, si ispira satiricamente agli interni decorati da William Kent, all’epoca talmente in voga che nessuna villa o palazzo avrebbero potuto essere costruiti o arredati senza ricorrere al suo geniale gusto artistico.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica dell’incisione di William Hogarth dal dipinto conservato alla National Gallery di Londra

Lorenzo Cardinale Ciccotti – Il bilancio a prova di scimmia

Fate il test del “Se”:
1. se avete una “visione tolemaica” del fatturato;
2. se il bilancio per voi è poco più di un elenco di numeri in ordine sparso;
3. se “lavorofatturomanonhouneuro”;
4. se almeno una volta siete andati dal consulente e siete usciti dallo studio più confusi di prima;
5. se averne uno lo ritenete un male necessario o la malattia del secolo;
6. se pensate che uno valga l’altro;
7. se l’avete scelto perché “mifapagarepoco” (e magari lo dite pure con orgoglio);
8. se subite il fascino della sua vuota magniloquenza e intanto “nonhocapitounamazzamasuonabene”;
9. se vi siete scoperti a pensare “misembraseriovestebene” (o viceversa);
10. se, sopra ogni cosa, avete realmente voglia di capire che piega ha preso la vostra carriera di imprenditori e continuate a non capire nulla di (o poco più) quando vi parlano di contabilità e vi sentite come nel cestello della lavatrice in modalità centrifuga, vi invito a rilassarvi, distendere la cervicale, le gambe e farmi compagnia in questo viaggio semiserio sulla gestione aziendale.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay 

Piacenza: Un inedito confronto tra Francesco Mochi e Mimmo Paladino

PIACENZA 10 OTTOBRE – 28 DICEMBRE 2020
PALADINOPIACENZA
IN PIAZZA CAVALLI UN INEDITO CONFRONTO TRA FRANCESCO MOCHI (1580-1654) E MIMMO PALADINO

PaladinoPiacenza, veduta dell’installazione, Piazza Cavalli (Piacenza) ©️ Lorenzo Palmieri 2020

Dal 10 ottobre al 28 dicembre 2020, piazza Cavalli, nel cuore di Piacenza, ospita PaladinoPiacenza, l’iniziativa, curata da Flavio Arensi ed Eugenio Gazzola, che propone un insolito quanto interessante confronto tra due maestri dell’arte moderna e contemporanea: Francesco Mochi da Montevarchi (1580-1654) e Mimmo Paladino (Paduli, BN, 1948).

Le statue equestri in bronzo di Alessandro e Ranuccio I Farnese, realizzate tra il 1612 e il 1628, capolavoro indiscusso della statuaria barocca e uno dei simboli di Piacenza, dialogano con un’installazione di grandi dimensioni realizzata appositamente dall’autore campano, tra i più riconosciuti esponenti dell’arte italiana a livello internazionale.

PaladinoPiacenza è parte del programma di Piacenza 2020/21 promosso da un comitato composto dal Comune di Piacenza, dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi Piacenza-Bobbio, dalla Camera di Commercio di Piacenza, in linea con il tema “Crocevia di culture”, con cui si è candidata al titolo di capitale italiana della cultura.

“L’arte di oggi – afferma Massimo Toscani, Presidente della Fondazione di Piacenza e Vigevano -, quella che per comodo chiamiamo sempre “contemporanea”, trova a mio avviso il suo compimento critico e la sua affermazione culturale quando è posta in linea – se non direttamente a confronto – con le opere d’arte delle epoche passate, autorevoli testimoni e nostri interlocutori. Da questa convinzione è nata l’idea di “PaladinoPiacenza”, vale a dire di chiedere al maestro Mimmo Paladino di immaginare un’opera che si ponesse in dialogo con i monumenti equestri farnesiani di Francesco Mochi”.

“Credo che tutti siano d’accordo – prosegue Massimo Toscani – nel considerare i “nostri Cavalli” il complesso di maggiore rilievo del patrimonio artistico di Piacenza. È un’opera che non ha eguali nel mondo e costituisce, a buona ragione, un altro primato italiano, oltre che identificare la città a partire dalla sua piazza principale: la piazza dei Cavalli, appunto, piazza del potere civico contrapposta alla vicina (e lontana) piazza del Duomo, sede del potere religioso, il quale, nella nostra città, non è mai stato secondo a quello politico”.

“Il dialogo come confronto e come strumento di crescita – dichiara Patrizia Barbieri, sindaco di Piacenza. L’installazione dell’artista Mimmo Paladino, con la curatela di Flavio Arensi ed Eugenio Gazzola, che trova spazio nel cuore di Piacenza, in quella piazza dei Cavalli che è luogo simbolo e antica agorà della nostra città, ha nel visivo e diretto confronto con le statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese del maestro Francesco Mochi una delle più concrete espressioni di quel concetto di “Crocevia di Culture” che abbiamo voluto proporre come titolo e profonda essenza del ricco calendario di iniziative culturali e artistiche legate a Piacenza 2020-2021. Un crocevia di culture che da sempre ha caratterizzato il nostro territorio per divenire strumento di arricchimento e di crescita; un cammino che dobbiamo percorrere con sempre maggiore convinzione”.

L’intervento di Mimmo Paladino consiste in una installazione monumentale collocata al centro di piazza Cavalli in posizione equidistante tra i due monumenti equestri di Francesco Mochi ed è composta da 18 sculture in vetroresina, poste su una base quadrangolare di dodici metri.

Il soggetto dell’opera utilizza l’icona tipicamente paladiniana di un cavallo ridisegnato a partire da un modello funerario di origine etrusca che, a seconda dei contesti, si arricchisce di risonanze omeriche, rurali, cortesi, militari.

Il cavallo è dato come elemento formale di passaggio tra mondo antico e mondo moderno, oltre che come luogo di incontro e scontro tra le civiltà di Oriente e Occidente.

Nel caso di PaladinoPiacenza è evidente la volontà di interloquire con i monumenti farnesiani che danno il nome alla piazza centrale della città, opponendo al fasto delle sculture del Mochi il rigore delle forme stilizzate di Paladino.

“Ancora una volta – ricorda Flavio Arensi – Paladino dimostra di essere in grado d’intervenire in spazi complessi in cui la storia si esibisce come accumulo armonioso e dove l’opera d’arte contemporanea diventa luogo d’interconnessione, nella propria capacità di creare un cortocircuito visivo e culturale del tutto autonomo. È, infatti, una caratteristica precipua del linguaggio di Paladino riuscire a cogliere i motivi generali che connotano l’ambiente, servendosene in maniera libera e autosufficiente, per edificare un nuovo racconto per immagini”.

“Come già capitato per altre installazioni – prosegue Flavio Arensi -, si pensi alla Montagna di sale o alla grande Croce di Firenze, l’opera è temporanea e resta una sorta di apparizione effimera, un elemento momentaneo che assume in sé le condizioni preesistenti. La piazza intera, dunque, diviene opera di Paladino, sinfonia fra le parti e le persone che l’abitano”.

“Il dialogo innescato dall’intervento di Mimmo Paladino in piazza Cavalli – sottolinea Eugenio Gazzola, così collocato tra storia e tradizione, tra arte del passato e arte del presente, racchiude in un solo evento il rapporto tra la città di Piacenza e l’arte del nostro tempo. “Una lunga marcia nelle istituzioni”: niente meglio della celebre immagine coniata dal sociologo Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco berlinese tra il 1967 e il 1968, rende l’idea del progressivo, faticoso avvicinamento della città all’arte di oggi. Una marcia durata poco meno di quarant’anni verso istituzioni ed enti con giurisdizione sui programmi, sugli spazi, sulle risorse necessarie a promuovere l’arte: istituzioni quali il Comune e la Provincia di Piacenza, la Regione Emilia Romagna, la galleria d’arte moderna Ricci Oddi, la stessa Fondazione di Piacenza e Vigevano. In ciascuna di esse era necessario inoculare l’interesse verso un linguaggio certamente nuovo e complesso, ma non ostile e soprattutto non “difficile”, come si tende a ritenere un po’ per timore di contrasti e un po’ per pigrizia e disimpegno”.

I due monumenti equestri collocati in piazza Cavalli si devono allo scultore toscano Francesco Mochi da Montevarchi (1580-1654), che ci lavorò per sedici anni, dal 1612 al 1628. Ranuccio Farnese, in costume romano, è raffigurato in modi ancora classicheggianti; più matura la resa del padre Alessandro percorso da un fremente dinamismo riflesso nel mantello e nella gualdrappa gonfiati dal vento, particolari, che denotano un evidente aggiornamento nello stile, premessa ai grandi capolavori del Bernini.

Catalogo Skira.

IMMAGINE DI APERTURA – Mimmo Paladino @ Lorenzo Palmieri

Gustave Moreau – Edipo e la Sfinge

Edipo e la Sfinge, 1864, Metropolitan Museum of Art, New York

IL DIPINTO

Edipo e la Sfinge è un dipinto del pittore simbolista francese Gustave Moreau, conservato al Metropolitan Museum of Art di New York. Moreau rinnova la visione del mito antico in questo confronto, da cui Edipo uscirà vittorioso, che è quello tra il bene e il male, lo spirito e la materia. Il leggendario eroe greco Edipo, giunto a Tebe, incontrò la temuta Sfinge: un mostro con testa di donna, corpo di leone, coda di serpente ed ali di rapace. Ad ogni viaggiatore essa poneva un enigma: “Qual è la creatura che cammina su quattro piedi al mattino, su due al pomeriggio e su tre di sera?”. Nel suolo giacevano i resti dei passanti che non avevano risposto correttamente, ma Edipo capì che la soluzione era l’uomo, poiché da bambino gattona, da adulto cammina su due gambe ed in vecchiaia usa un bastone. Edipo sconfisse così la Sfinge. Nel 1864 Gustave Moreau espose al Salon Edipo e la Sfinge ricevendo le lodi di illustri critici come Théophile Gautier, Maxime du Camp, Paul de Saint-Victor, ricevette una medaglia e fu acquistato da un prestigioso collezionista: il principe Napoleone Bonaparte, cugino dell’imperatore. L’opera segnò l’inizio della sua fortuna.

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Autoritratto, 1850, Musée National Gustave-Moreau, Parigi

L’ARTISTA

Gustave Moreau (Parigi, 6 aprile 1826 – Parigi, 18 aprile 1898) è stato un pittore francese. Fu precursore del simbolismo e del surrealismo. Gustave Moreau nacque il 6 aprile 1826 a Parigi da Louis Moreau e Pauline Desmontiers. Il primo, architetto di influenze neoclassiche, offrì al giovane figlio un’ampia biblioteca costituita da opere di gran pregio, dove il giovane Gustave esplorò i capolavori della letteratura occidentale (tra i quali Ovidio e Dante Alighieri), i grandi trattati dell’architettura (Vitruvio e Leon Battista Alberti) e i trattati pittorici di Leonardo da Vinci e Winckelmann. La madre invece, devota al suo unico figlio, gli trasmise la passione per la musica. Dopo essersi avviato negli studi superiori con scarsi risultati nel Collegio Rollin, ottenne nel 1844 il baccalaureato dopo essersi preparato privatamente. Vari studiosi intravedono già nell’adolescenza di Gustave i segni di una personalità schiva e restia alle interazioni sociali, manifestando i primi sentori di un carattere fragile e ombroso che sfocerà poi nella sua produzione pittorica. Era infatti già emersa la passione per il disegno, sviluppata poi nella bottega di François Picot. Quest’ultimo lo introdusse alla pittura storica e soprattutto italiana, spingendolo ad eseguire minuziose copie degli artisti cisalpini esposti al Museo del Louvre. Ammesso nel 1846 alla Scuola delle Belle Arti, non riuscì mai a conseguire il Grand Prix de Rome, cosa che lo portò nel 1849 ad abbandonare l’istituto rifiutando per sempre la canonica e convenzionale arte accademica.

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Francesco Grisolia – Rodolfo Lanciani, archeologo e collezionista di disegni e stampe

Francesco Grisolia, membro del Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e di Storia dell’Arte dell’Università di Roma “Tor Vergata”, ama presentarsi attraverso una citazione dell’olandese Frits Lugt, collezionista e storico dell’arte, che scriveva: «Un dipinto canta o recita, una stampa racconta o discorre, ma un disegno si confessa, sussurra, gorgheggia, sovente con un timbro che sfugge a certe orecchie. Ci vuole un’attenzione incessante per assaporare le intenzioni e le delicatezze di questo linguaggio». Nel saggio che presentiamo in questa pagina Grisolia dedica la sua attenzione a Rodolfo Amedeo Lanciani, e con queste parole introduce il suo lavoro: «Nato nel 1845 a Montecelio (Guidonia), vicino Roma, fu un insigne archeologo e topografo, la cui attività è stata oggetto di studi e pubblicazioni specifiche. In questa sede si desidera sottolineare il suo ruolo di collezionista interessato a materiale grafico e segnalare i marchi da collezione individuati nella sua ricca raccolta, confluita dopo la morte nel Regio Istituto Italiano di Archeologia e Storia dell’Arte e da tempo in deposito presso la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma (BiASA), entrambi con sede in Palazzo Venezia. Considerato oggi il “principe” della topografia romana e figura di riferimento nell’archeologia della nuova capitale del neonato Regno d’Italia tra XIX e XX secolo, Lanciani ebbe una elevatissima formazione in campo archeologico e ottenne anche le qualifiche tecniche di architetto e di ingegnere. Queste aperture disciplinari e una vasta e trasversale cultura sono fattori fondamentali per una piena comprensione della sua figura di collezionista di disegni e di stampe, raccolti nell’arco di una lunga e laboriosa vita professionale, consumata in viaggi per tutt’Europa e America, con un interesse mirato soprattutto ad opere relative alla città di Roma».

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Rodolfo lanciani (1845-1929), archeologo e collezionista di disegni e stampe

IMMAGINE DI APERTURA – Adattamento grafico dalla copertina del catalogo “Les marques de collections” al Sixièmes rencontres internationales du Salon du Dessin, Paris 2011