Arthur Conan Doyle – Uno studio in rosso

Sherlock Holmes a fumetti per scaricare le tensioni

Siamo di fronte a un caposaldo della letteratura europea: Uno Studio in Rosso, infatti, è il primo romanzo di sir Arthur Conan Doyle dove fa la comparsa il detective più famoso di tutti i tempi: Sherlock Holmes. In questa straordinaria avventura i lettori faranno la conoscenza di questo straordinario e carismatico personaggio, vedendolo all’opera nel risolvere un caso apparentemente senza soluzione. Elementare, no?

I MAESTRI DELL’AVVENTURA – UNO STUDIO IN ROSSO – Free Book 

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I top 100 di Donald Trump. I migliori tweet selezionati e tradotti per voi

Forse nessun candidato alla presidenza degli Stati Uniti ha compreso l’importanza dei social media come Donald Trump. E nessuno prima di lui ha fatto di Twitter il più importante strumento di comunicazione con gli elettori e l’opinione pubblica. Trump ha postato quasi 50mila tweet e, alla vigila della Convention repubblicana, ha quasi 10 milioni di followers, tutti solerti nel retweet. Segue appena 40 persone, a riprova che nessuno può influenzare la sua idea di far tornare l’America grande. Nelle pagine che seguono, Veronica Vinattieri ha individuato, tradotto e adattato per il pubblico italiano i 106 tweet più popolari, quelli cioè che hanno ricevuto il maggior numero di “Mi piace” e di “Retweet”, sui principali temi legati alla personalità di Trump e al suo programma presidenziale. Forse questi brevissimi testi, che tutti insieme si possono leggere in meno di un’ora, sono la chiave per capire quello straordinario fenomeno politico e sociale che è stato definito il trumpismo che non è né un qualcosa di passeggero né tantomeno di clawnesco.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

Edoardo Ratti: La preistoria e la sua divulgazione

Generalmente si tende a separare la storia dalle scienze perché le competenze della prima portano ad indirizzarci verso un approccio più umanistico mentre le seconde adoperano un metodo di lavoro più scientifico. Questo non significa però che una disciplina umanistica non si avvalga di metodi scientifici, infatti proprio l’archeologia che viene inserita in ambito umanistico è una disciplina che si collega a diverse scienze e necessita di esse per produrre risultati nella sua missione di ricerca. Il ruolo dell’archeologo nella società risulterebbe più chiaro se in Italia fosse presente un Albo professionale come esiste per altre professioni, carenza che crea non poche difficoltà nell’ingaggio di specialisti. Recentemente alcuni tentativi in tal senso sono stati compiuti: nell’aprile 1997 ad esempio è stata fatta la proposta di legge N. 3614(DDL. 13-3614) per la costituzione dell’Albo degli archeologi e di altre figure professionali simili. Soprattutto il grande pubblico ha scarsa conoscenza di questa materia, specialmente in ambito preistorico, e non ha ben chiare le varie mansioni e ambiti di lavoro dell’archeologo, abbiamo quindi cercato di comunicare nozioni che noi riteniamo fondamentali, in modo coinvolgente per creare nuovo interesse verso questa disciplina e dipanare i dubbi più grossolani spesso presenti tra i non specialisti. Fortunatamente oggi è diventato molto più facile che non in passato scrivere di argomenti tecnici per il grande pubblico, adoperando un personal computer per fare un collage di frammenti di diversi documenti, utilizzando programmi traduttori, scanner e programmi di riconoscimento caratteri e insieme alla mole infinita di informazioni reperita da Internet è possibile poi scrivere un documento in breve tempo. Saper coinvolgere comunicando è un’altra cosa, non stiamo parlando di romanzi, che per fortuna resteranno sempre un’opera soggettiva per chi scrive e per chi legge, ma stiamo trattando di divulgazione di argomenti scientifici e quindi abbiamo lasciato da parte i documenti scritti indirizzandoci verso attività che fossero più coinvolgenti.

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La preistoria e la sua divulgazione attraverso la sperimentazione interattiva

IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro

Dante Gabriel Rossetti – Persefone

Persefone, 1874,Tate Britain, Londra

IL DIPINTO

Persefone è un dipinto a olio su tela (125,1×61 cm) di Dante Gabriel Rossetti, realizzato nel 1874 e conservato nella Tate Britain di Londra. Dopo la morte dell’amata moglie Elizabeth Siddal Rossetti si orientò definitivamente verso la ritrattistica femminile. In questo dipinto, realizzato nel Capodanno del 1874 (come ricordato dal cartiglio in basso), sceglie di ritrarre Jane Burden, moglie di William Morris e sua amante, nelle vesti di Persefone, regina dell’oltretomba insieme al consorte Ade. La figura di Persefone ritorna ossessivamente nella produzione pittorica di Rossetti (fra il 1872 e il 1882 fu visitata ben otto volte) e intende probabilmente alludere alla tragicità del suo matrimonio. Come sottolineato dal Rossetti in una lettera, Persefone è ritratta come una vera imperatrice dell’Ade, mentre posa «in un oscuro corridoio della reggia». La dea, ripresa a mezzo busto, è ammantata in una veste blu e presenta un’espressione pensosa, quasi mesta: il suo sguardo è molto penetrante e trasmette un’emozione intensissima, come se vedesse un qualcosa che va oltre l’osservatore. Il corpo è volto di lato, il viso è rappresentato a tre quarti, la pelle è diafana e i lineamenti sono affilati e precisi, quasi aristocratici. La fulgente chioma di capelli bruni sembra quasi imprigionare l’esile volto della dea, in cui risalta la bocca, che con il suo rosso riprende il colore del melograno, così come l’acquamarina degli occhi è un vero e proprio pendant cromatico dell’azzurro della veste.

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1863 – Fotografia di Lewis Carroll. Usata dal fratello nel 1889 per illustrare il suo “Dante Gabriel Rossetti as designer and writer

L’ARTISTA

Dante Gabriel Rossetti, nato Gabriel Charles Dante Rossetti (Londra, 12 maggio 1828 – Birchington-on-Sea, 10 aprile 1882), è stato un pittore e poeta britannico, tra i fondatori del movimento artistico dei Preraffaelliti insieme a William Holman Hunt, Ford Madox Brown e John Everett Millais. Artista complesso e dai molteplici interessi, propugnava un’arte che recuperasse l’autenticità e la spiritualità del passato. La sua stessa vita incarnò in molti aspetti i principi romantici. Si interessò sin dalla giovinezza a Dante ed ai poeti del dolce stil novo, passione ereditata dai genitori, ai romantici inglesi e tedeschi, ai romanzi gotici e agli scrittori come William Shakespeare, Goethe, William Blake e Edgar Allan Poe. I suoi dipinti, estetizzanti e sensuali soprattutto nelle figure femminili, sono ascrivibili alla corrente europea del simbolismo.

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I giochi da tavolo che tutti amavano nel XX secolo

I giochi da tavolo hanno fatto parte della maggior parte delle culture e delle società nel corso della storia. Il più antico gioco da tavola noto per essere esistito e Senet, che è stato scoperto nelle sepolture dell’antico Egitto dal 3500 a.C. e coinvolge i giocatori che si muovono su un piccolo tabellone a griglia con contatori. Oggigiorno la scelta dei giochi da tavolo è vasta ed ogni anno sembra che venga introdotta una nuova variante di un classico. Qui diamo uno sguardo ad alcuni dei giochi da tavolo più popolari del 20° secolo un’età dell’oro nel settore dei giochi con molti preferiti dalle famiglie e prodotti per la prima volta durante questo secolo. Quindi vieni con noi che adoriamo le confezioni vintage mentre scopriamo le storie che hanno portato alla creazione di questi giochi popolari.

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I giochi da tavolo che tutti amavano nel XX secolo
Molti libri di regole e una miriade di imballaggi vintage

Antonio Baglio – Messina negli anni della “duplice ricostruzione” (1909-1960)

Scrive Antonio Baglio: «Non è un azzardo affermare – come è stato avanzato da parte di alcuni studiosi di urbanistica e architettura – che Messina abbia rappresentato la più importante città nuova costruita nel XX secolo, dopo il terribile sisma che l’ha colpita il 28 dicembre 1908, provocando un numero impressionante di morti e la distruzione del vecchio centro. A distanza di pochi decenni un’altra calamità – questa volta causata non dalle forze della natura ma dall’intervento umano – si sarebbe abbattuta sulla città dello Stretto con le ferite inferte dai bombardamenti nella seconda guerra mondiale, particolarmente virulenti in un sito che rappresentava un nodo strategico nel quadro dei collegamenti con la penisola e nell’area del Mediterraneo. Ciò avrebbe comportato giocoforza la necessità di una seconda ricostruzione, destinata a ripercuotersi non solo sul versante economico, quanto sulla formazione di una identità urbana apparsa ancor più slegata dall’immagine della vecchia città ottocentesca. Non sono mancate analisi puntuali e riflessioni su come sia mutata la città nel corso del Novecento e sull’impatto che gli eventi prima rievocati hanno esercitato nel disegnare un volto cittadino profondamente diverso rispetto a quello dei secoli passati, sotto il profilo economico, socio-culturale e identitario. Nel saggio vengono ripercorsi quegli interventi destinati a modellare la fisionomia nuova della città novecentesca, al fine di valutarne le ricadute sul tessuto urbano, nella ridefinizione delle sue gerarchie territoriali e sociali e nell’affermazione di condizioni e dinamiche economiche incentrate prevalentemente sulle attività terziarie».

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Governare la città. Politica, amministrazione e gestione del territorio a Messina negli anni della “duplice ricostruzione” (1909-1960), in G. Silei (a cura di), Società del rischio e gestione del territorio, Pacini editore, Pisa 2020

IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro da cui è tratto il saggio della casa editrice Pacini di Pisa

William Holman Hunt – Isabella e il vaso di basilico

Isabella e il vaso di basilico, 1868, Laing Art Gallery, Newcastle upon Tyne

IL DIPINTO

Isabella e il vaso di basilico (Isabella and the Pot of Basil) è un dipinto a olio su tela (187×116 cm) del pittore preraffaellita William Holman Hunt, realizzato nel 1868 e conservato alla Laing Art Gallery di Newcastle upon Tyne. Il soggetto di questo dipinto, realizzato da Hunt a Firenze, è esplicitamente desunto dal poema di John Keats Isabella, or the Pot of Basil, a sua volta ispirato da una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio. Qui si narra di una sfortunata donna che, seppur destinata a sposare un ricco gentiluomo, si innamora di Lorenzo, un ragazzo che – essendo di bassa estrazione sociale – viene ucciso dai fratelli di lei. Egli torna tuttavia sotto forma di spettro per rivelare all’amata il luogo in cui è sepolto; Isabella lo dissotterra e, per conservarne il ricordo, gli taglia la testa e la nasconde in un vaso, per poi coprirlo con una profumatissima pianta di basilico.

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Autoritratto, 1867, Collezione di autoritratti agli Uffizi, Firenze

L’ARTISTA

William Holman Hunt, nome d’arte di William Hobman Hunt (Londra, 2 aprile 1827 – Londra, 7 settembre 1910), è stato un pittore inglese, cofondatore della Confraternita dei Preraffaelliti. William Hobman Hunt – solo dopo l’artista cambiò il suo secondo nome in Holman – nacque a Londra il 2 aprile 1827. Inizialmente venne avviato alla pratica commerciale; resosi conto della propria vocazione artistica, tuttavia, abbandonò il mondo del commercio per dedicarsi agli studi pittorici alla National Gallery e al British Museum. Nel 1844 fu ammesso alla scuola della Royal Academy, dove strinse amicizia con Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais; in accordo con essi, fondò la confraternita dei preraffaelliti nel 1848. Il gusto preraffaellita emerge in una delle sue primissime opere, Rienzi, esposta nel 1849 alla Royal Academy.

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William Hogarth: Marriage à-la-mode / Il suicidio della contessa

di Sergio Bertolami

I dipinti delle sei scene che abbiamo presentato in queste pagine, acquistati dal signor John Lane per £ 126, sono oggi conservati alla National Gallery di Londra. È utile, quindi, sintetizzare la scheda che compare a corredo del ciclo pittorico. Leggiamo che per secoli gli inglesi sono stati affascinati dalle problematiche sessuali e dalla squallida avidità dell’aristocrazia. Ecco perché il soggetto, rappresentato da Hogarth in Marriage à-la-mode è sempre stato uno dei massimi successi della pittura britannica, dal momento che illustra le disastrose conseguenze di un matrimonio fatto per soldi piuttosto che per amore. Di questa serie Hogarth ha inventato i personaggi, la trama e il titolo di ogni scena. Tuttavia, ciò che appare di grande interesse è che le scene erano dipinte espressamente per essere incise. In seguito, le stampe erano messe in vendita ad un prezzo accessibile e i dipinti originali concessi “al migliore offerente”, solo dopo che le incisioni erano state completate. Hogarth probabilmente lavorò ai dipinti di Marriage à-la-mode per tutto il 1743, e forse nella prima parte del 1744. Per questa serie decise di impiegare tre incisori francesi, che vivevano e lavoravano a Londra, ognuno dei quali si impegnò su due tavole. Le stampe, pubblicate nel 1745, sono versioni rovesciate dei dipinti poiché per essere incise occorreva copiarle allo specchio. Naturalmente erano realizzate in bianco e nero, ma l’acquirente successivamente avrebbe potuto farle colorare ad acquarello. Nelle sue “Note autobiografiche”, compilate nel 1763, Hogarth ricorda che dopo “alcuni anni” di ritratti e conversazioni, si rese conto che il modo corrente di dipingere non era sufficientemente ben pagato “per fare tutto ciò che la famiglia richiedeva”. Decise, quindi, di provare un nuovo approccio alla pittura e all’incisione realizzando “soggetti morali moderni” che descriveva come una novità assoluta tanto da poter essere considerato un “campo inesplorato in qualsiasi Paese o in qualsiasi età”. La sua attenzione si concentrò sulla moralità, che bene si attagliava al suo modo di intendere la vita, attraverso un approccio satirico del vizio e della follia. Hogarth intendeva dimostrare, in altri termini, che una varietà infinita di personaggi poteva essere presentata senza ricorrere necessariamente alla caricatura, come allora si faceva. Queste sue pitture o incisioni, naturalmente, all’epoca, non potevano competere con la grande pittura storica, che era il più prestigioso fra i generi artistici, raffigurando scene eroiche del passato o scene mitologiche intese a ispirare ed educare lo spettatore. Pur tuttavia, i personaggi dei “soggetti morali moderni” di Hogarth, tutt’altro che eroici, hanno sempre avuto lo stesso scopo di istruire. E noi oggigiorno possiamo ben capirlo ed apprezzarlo.

Scena sesta – Il suicidio della contessa

(S.B.) La sesta è l’ultima scena della tragicommedia di Marriage à-la-mode. Il titolo che compare sulla cornice è The Lady’s Death, ovvero La morte della signora. La sua non è, però, una morte naturale. Sembra piuttosto un suicidio. La contessa si è infatti avvelenata (forse volutamente, forse incidentalmente), dopo avere appreso che il suo amante è stato giustiziato per aver ucciso in duello suo marito. Giace riversa su di una poltrona. Ai suoi piedi una bottiglietta di Laudanum, narcotico con effetti antidolorifici e antispastici, ma velenoso se preso in dosi eccessive. Accanto alla bottiglietta un foglio a stampa che porta scritto: “Ultimo discorso del consigliere Silvertongue condannato a morte”, con le parole da lui pronunciate prima dell’impiccagione. La forca è stata issata a Tyburn, dove scorre un affluente del Tamigi, luogo da secoli utilizzato per l’esecuzione dei condannati. Dopo la notte tragica nell’albergo Testa del Moro, la giovane donna ha deciso di rifugiarsi nella casa paterna per riflettere su quel crimine, ultimo fra i tanti errori del suo rapporto coniugale. Errori che hanno distrutto ogni speranza in un futuro migliore e in una reputazione che, nonostante ogni incoscienza, aveva raggiunto il massimo splendore di prosperità. Da allora la contessa ha consumato i giorni con i fantasmi del suo passato disastroso, che hanno preso avvio col matrimonio combinato frutto dei piani ambiziosi del padre. Un genitore avido, che certamente neppure davanti alla tragica morte del genero ha pensato a consolare la figlia per attenuarne la sofferenza e proteggerla dalle sue fragilità. Al contrario non ha fatto altro che avventarsi su di lei, sovrastandola di terribili rimproveri. Finché, nella solitudine, abbandonata da tutti gli amici che ipocritamente l’attorniavano, la vita è diventata insuperabile, tanto da pensare che solo la morte potesse offrirle l’unico sollievo.

La scena che Hogarth prospetta è, dunque, una strana commistione di pathos e di indifferenza. La contessa si è assicurata il veleno grazie al quale ha compiuto il suo cieco proposito. L’infelice è rappresentata in agonia. Il volto teso, sbiancato, fa da pendant, in simmetrica corrispondenza, a quello del marito morente nella scena precedente. La ricordiamo illuminata dalle frivolezze, interessata unicamente ai piaceri, incurante di quanto la circondasse. Ora, per aumentare nel contrasto la forza d’attrazione delle linee mute di questa immagine, l’artista introduce per la prima volta la bambina, figlia più che trascurata dai genitori. L’anziana nutrice la porge alla madre morente per l’ultimo abbraccio. La sua tenera età fornisce l’idea del breve tempo trascorso. È il commento amaro dell’autore rispetto ad un senso di colpa che non è mai emerso in nessuna delle precedenti scene. La piccola creatura è contaminata dalla sifilide: la macchia è evidente sulla guancia e almeno per una delle sue gambette è obbligata a portare un tutore di ferro. La malattia le è stata trasmessa da suo padre. La scelleratezza del conte è punita con l’estinzione della sua stessa stirpe. Ma è anche punita l’ambizione egoista del nonno della piccina, che ha preteso di innestare la propria famiglia sul fiero ceppo di una nobiltà decaduta economicamente e moralmente, attraverso il matrimonio di una figlia con un giovane conte debosciato. L’unico utile che il vecchio può ora cogliere è l’anello prezioso che sfila con freddezza dal dito della moribonda, prima che intervenga il rigor mortis. Non il decesso prematuro di sua figlia causato da un atto inconsulto come il suicidio, né la condizione indifesa della sua nipotina rimasta orfana di ambedue i genitori, possono prevalere contro la sua istintiva avarizia. L’espressione distaccata rende la sua azione ancora più ripugnante. Solo la balia e la bambina esprimono un senso di pietà per la contessa morente. Per lei non c’è più nulla da fare. Lo stesso medico chiamato per salvarla sta uscendo dalla porta: la sua presenza è ormai superflua. Dall’altro lato della stanza il farmacista, inutilmente accorso con un clistere e una bottiglia di giulebbe in tasca, strapazza il cameriere, un babbeo con la livrea troppo grande, di sicuro appartenente a un precedente servitore (particolare che denota l’avarizia del suo signore). Lo sprovveduto cameriere ha obbedito agli ordini della contessa, quando lo ha spedito in farmacia per acquistare il Laudanum, ignaro delle sue intenzioni suicide.

La residenza, che costituisce l’ambiente scenico, è vicino al vecchio London Bridge, che dalla finestra aperta si può intravedere, gremito di case, come appariva in origine, prima che nel 1758 fosse demolito. In alto, tra l’infisso e l’imbotto, si distingue una ragnatela. Lo stemma della città spicca intagliato nei vetri, di cui qualcuno è mancante. Rappresenta il potere di pubblico amministratore raggiunto dal facoltoso padre della giovane contessa, che (a ben osservarlo) non dimentica mai di indossare la catena d’oro di assessore. Sul davanzale, la sua lunga pipa e una scatola di tabacco, che fuma affacciato alla finestra sognando la scalata al successo, con gli occhi e magari anche le mani sulla città. Nonostante tutto, la sua casa è quella di un piccolo borghese (ben lontana dal lussuoso palazzo del conte) arredata in un modesto stile fiammingo. Un tendaggio dimesso, a mezza altezza, quanto basta per oscurare la stanza. Alle pareti, oltre ad un Almanack, pochi quadri di gusto conservatore attraverso i quali Hogarth si fa gioco dei soggetti banali della pittura fiamminga: due ubriachi, alla Brouwer, che bevono e fumano la pipa in una taverna, con il primo che cerca di accendere la pipa dal naso del compare, rosso come una brace ardente; un uomo che orina contro un muro, alla Teniers; una natura morta sottosopra che contrasta con il cibo disposto ordinatamente sulla tavola. Il pranzo per una persona è, infatti, apparecchiato in modo quasi impeccabile, con piatti di peltro. È stato servito alla vista del Tamigi. Il pasto frugale si è interrotto col tragico malore della contessa, che non lo ha neppure iniziato: per primo un uovo sodo ritto su di un piatto di riso in bianco, per secondo una testa di maiale, che un cane smilzo sta addentando con voracità (pari a quella del suo padrone), qualche fetta di pane, un secchiello in argento per il vino la cui bottiglia non è stata neppure portata in tavola, pochi accessori: le due posate, un vassoio per gli scarti, uno spiedo da carne, una presa di sale. Quando la contessa, da sola, si è seduta a tavola stava già male, perché la brocca a terra le è servita per affrontare i conati di vomito. Poi improvvisamente è peggiorata. Si è alzata di scatto, rovesciando a terra la sedia di legno. È stata fatta accomodare sulla confortevole poltrona del padre, dove usa spulciare i suoi libri contabili. Li tiene proprio in quell’angolo, riposti in un armadietto a muro, col dorso voltato perché non si sciupino. Sono identificabili, perché riportano scritto “Libro giornaliero, Libro mastro, Libro degli affitti, Interesse composto”. Nell’armadietto conserva anche un sacchetto di tabacco, una scelta di pipe e un fiasco di corroborante acquavite. L’orologio a pendolo affisso a muro segna le undici e dieci. Quando il padre è stato avvertito non era in casa: lui esce di buon mattino per sviluppare affari. Indossa ancora cappotto e parrucca. Non era comunque ad una riunione della giunta comunale, perché la sua toga da assessore e il suo cappello di rito sono in bella mostra sull’appendiabiti.

Che contrasto tra la prima scena e l’ultima! Tra questo ambiente modesto e l’avito palazzo nobiliare in cui l’indifferente ragazza civettuola e il giovane visconte narciso si sono incontrati.  Erano ambedue oggetto di contrattazione fra due padri egoisti in eguale misura. Un assessore londinese, impenitente nella propria scalata, ha desiderato un giorno per sua figlia di stringere alleanza con un gran signore; il quale, da parte sua, vi ha acconsentito a condizione di accrescere le ricchezze di suo figlio, dopo la congerie di affari andati a male. Tutto questo perché, nella natura umana, c’è sempre qualcosa che rende infelici: i blasonati non sono mai sufficientemente ricchi per soddisfare il desiderio di vivere continuamente negli agi, e gli arricchiti non sono mai abbastanza distinti per primeggiare su tutti.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica dell’incisione di William Hogarth dal dipinto conservato alla National Gallery di Londra

Domenico Campolo – Son dunque un pittore

“‘Son dunque un pittore’ è una via di mezzo tra un catalogo fotografico e un racconto. Rispondo subito alla domanda che molti si faranno: sì, sono un pittore. Lo sono non perché dipingo tele ma dipingo muri in un modo e con una passione che mi distinguono nettamente da un semplice ‘imbianchino’. Quello che non sono ancora è un fotografo professionista, pur mettendoci la stessa passione che metto nel decorare. ‘Son dunque un pittore’ rappresenta la volontà di mostrare principalmente a me stesso che posso esserlo. La maggior parte delle foto inserite nascono dalla semplicissima idea di vedere il mio paese con gli occhi di un turista. Quindi ho trasformato la mia vita in un’avventura, e leggendo il libro potrai cominciare anche tu a vedere le cose in maniera diversa. Ho raccolto e suddiviso alcune delle foto che ho scattato in sei anni, con la mia fidata Canon, cercando di farne un racconto cronologico che mostri la mia parte di sud, il meraviglioso angolo di mondo nel quale vivo. Voglio far comprendere al lettore che il posto nel quale vive, è tutto tranne che banale e scontato e che semplicemente guardandolo da un’angolazione diversa diventa un paradiso terrestre. Intendo quindi mostrare che le piccole cose che diamo per scontate, nascondono invece in sé un immenso potenziale comunicativo, che una volta compreso diffonde nell’anima un profondo senso di serenità.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Free-Photos da Pixaba

Francesca Spatafora – Nutrire la città. A tavola nella Palermo antica

Se è vero che il cibo è cultura e l’alimentazione è il suo linguaggio (Niola 2009),Palermo è certamente il luogo ideale per cogliere, attraverso la cucina e il modo di nutrirsi, i molteplici volti di una città che, fin dalla nascita, dell’integrazione ha fatto la sua cifra essenziale, valorizzando le differenze anziché annullarle attraverso più semplici processi di omologazione.Luogo di incontri e contaminazioni, la città, fondata alla fine del VII secolo a.C.da genti venute dall’Est, occupò un territorio pressoché disabitato. Solo nelle più remote epoche preistoriche, infatti, alcune zone intorno all’area scelta successiva-mente per l’insediamento stabile, erano state frequentate con una certa assiduità in un susseguirsi di “culture” rappresentate attraverso il mutare dell’ambiente e l’evolversi delle pratiche alimentari, ben rispecchiate anche dal vasellame utilizzato per la preparazione e il consumo del cibo.

LEGGI IL SAGGIO SU ACADEMIA.EDU (OPPURE SCARICALO):
F.Spatafora (a cura), Nutrire la città. A tavola nella Palermo antica, Palermo 2015

IMMAGINE DI APERTURA – La copertina del libro