Piet Mondrian – Composition with Red, Blue and Yellow (1930)

La composizione con rosso, blu e giallo è dominata da un grande rettangolo rosso. In questa tipologia, sviluppata da Piet Mondrian intorno al 1930, il bordo del dipinto è delimitato da due larghe strisce suddivise. Le barre nere incrociate sono spostate lontano dal centro e si incontrano in un angolo in basso a sinistra. Il blu intenso e il giallo limone separati da superfici grigio-biancastre fanno da contrappunto alla nota rossa. Come Kandinsky, Piet Mondrian è giunto all’astrazione attraverso il suo lavoro sul paesaggio. Eppure ciò che è emerso era completamente diverso.

Nella città del XX secolo un’architettura nuova sostituirà quella senza qualità

Interno del Crystal Palace

In un periodo di Covid molti architetti e ingegneri stanno immaginando quale possa essere la città del futuro. Ci siamo chiesti come se la immaginavano, a metà Ottocento, la città che stiamo vivendo oggi, quella realizzata nel ventesimo secolo e che ora dovremmo trasformare. Così siamo ricorsi al Giornale dell’ingegnere, architetto ed agronomo edito a Milano. In un numero del 1857 troviamo un brillante articolo, non firmato, tradotto dalla Presse «ove si fa una rassegna delle principali mutazioni che debbono prodursi nell’industria e nella vita sociale del ventesimo secolo in grazia della piena attivazione di molti ritrovati moderni che trovansi tuttora in uno stato embrionale». Ne abbiamo fatto una riduzione, espressa in un linguaggio più vicino al nostro, questo perché chi volesse può sempre andare a leggere le pagine del libro originale.

Una città al ventesimo secolo

«Le importanti scoperte, che rendono il Diciannovesimo secolo uno dei più grandi nella storia, non avrebbero significato alcuno, se non dovessero condurre gli uomini ad uno stato sociale ben superiore a quello di oggi. La produzione industriale, coll’aiuto del vapore, è già capace, da sola, di realizzare un tale risultato. Basterà confrontare le nuove e grandi città moderne – quali New York, Filadelfia, una parte di Londra o di Parigi – con quelle città di origine medievale, caratterizzate da infette stradicciole, con vicoli ove difficilmente penetrano aria e luce. In queste strade piccoli industriali esercitano, fra pericoli e vessazioni, la loro penosa attività. Eppure pensate quale profondo cambiamento hanno realizzato pochi miglioramenti come la pavimentazione delle strade, la pubblica illuminazione, una polizia urbana bene organizzata, i perfezionati mezzi di trasporto! E non siamo che all’alba di questa nuova era, e ciò che oggi esiste è ben poca cosa in paragone a ciò che dovrà realizzarsi ancora. Si sono forse sfruttate al massimo le opportunità del vapore? No: non si sono che sfiorate le principali sue applicazioni. Dove sono i pubblici riscaldamenti che dovrebbero esistere in tutte le nostre città, in inverno? Dove le lavanderie economiche? Dove in quartieri operai forniti di acqua ben distribuita in ogni stabile e di gas? Dove i forni, i macelli e le farmacie comunali; e tutti i grandi mezzi di produzione, per i quali avremmo tante nuove istituzioni attualmente appena abbozzate in alcune località, ma che sono inevitabili e prossime?

Supponiamo, per un attimo, che tutto ciò sia stato realizzato. Immaginiamo una città del ventesimo secolo, ben ordinata in tutte le sue zone; le strade trasformate come viali alberati, non ingombre da una moltitudine di vetture, diverse e fragorose; percorse dai tram, con eleganti vagoni agganciati a piccole locomotive; niente fango, polvere, rumore. Tutto si agita e si muove come una immensa macchina, le cui rotelle sono state lubricate. Un’architettura nuova sostituisce l’architettura rabberciata, dimessa, e senza qualità della nostra epoca. Il vetro, il ferro, le fonderie potrebbero essere esclusivamente impiegate in queste gigantesche ed ardite costruzioni, i cui tetti riflettono splendidamente i raggi solari. Il palazzo di Sydenham può solo darci una debolissima idea di quest’ordine architettonico. [Si sta parlando del Crystal Palace, elevato a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Universale. Inizialmente la grande costruzione in acciaio e vetro fu installata a Hyde Park, ma l’anno successivo fu smontata e ricostruita a Sydenham Hill, altra area della città].

Nella città del ventesimo secolo ogni via sarà fiancheggiata da immensi palazzi; getti d’acqua si lanceranno graziosamente all’interno dei deliziosi giardinetti o dei laghi artificiali che abbelliranno e varieranno la monotonia delle grandi piazze. Non vi sarà più notte; a breve distanza l’uno dall’altro i fanali elettrici ci inonderanno di una luce splendida al di cui paragone i lampioni a gas sembreranno bui. Questa luce elettrica sarà quasi gratuita, perché creata coll’aiuto di motori idraulici, i quali attingeranno le loro potenza dai fiumi che lambiscono quasi tutti i centri urbani. L’aria della città diverrà salubre quanto quella della campagna; per la ragione che gli escrementi che ingenerano tante malattie, e che scorrono a cielo aperto in strada infettando i nostri quartieri, saranno raccolti in tubazioni, da dove apposite macchine le aspireranno incessantemente per trasformarle ad uso agricolo.

Il movimento continuo sostituirà la stagnazione attuale. Movimento delle acque pure e salubri che raggiungeranno qualunque piano degli edifici; movimento sotterraneo che respingerà incessantemente i liquami mefitici dai grandi centri popolati; movimento rotatorio dei fari elettrici. Singoli punti vendita, dagli alti soffitti, soppianteranno gli smisurati bazar. Tutto, proprio tutto, sarà ordinato, tutto sarà grandioso. Di distanza in distanza, saranno posti apparecchi elettrici [cioè telefonici], grazie ai quali si potrà comunicare col mondo intero. Dai luoghi più lontani dell’India o dell’Australia, si contatteranno direttamente Parigi o Sydney, si parlerà come se la distanza non fosse che di due passi.

Ogni settore dell’arte acquisirà meravigliosi mezzi di popolarità e di espressione. Il teatro si trasformerà; non sarà più riservato ai privilegiati della fortuna, ma aperto ad pubblico più ampio. L’arte del futuro prenderà a prestito dall’arte antica i vasti anfiteatri, dove le persone siederanno comodamente; mezzi potenti di riscaldamento, di ventilazione, e appropriati sistemi acustici, assicureranno a ciascun spettatore posti comodissimi. Né l’arte, né l’ispirazione poetica, perderanno nulla da questa materiale trasformazione. No, anzi, esse vi guadagneranno immensamente: il dramma, la commedia, l’opera intraprenderanno nuove strade. Si rivolgeranno ad una folla immensa; scomporranno e ricomporranno insieme le umane passioni, come l’ingegnere e l’architetto ricompongono e controllano la materia. Nel nuovo stato di cose, per essere applaudito, sarà necessario mettere a nudo il sentimento popolare, studiarne i bisogni, le tendenze, le aspirazioni del presente e dell’avvenire. L’anima del poeta si allargherà come il cerchio del suo uditorio.

Le biblioteche, i musei, le collezioni d’ogni sorta non saranno più rette da quei regolamenti attualmente in vigore. Che cosa sono ancora oggi le nostre biblioteche, se non risibili raccolte, senza mezzi per la ricerca, senza facilità d’uso? Vi si gela d’inverno; vi si soffoca d’estate. Quasi sempre chiuse, appena vi entrate, venite invitati ad uscirne. Zelanti osservatrici di tutte le feste del Calendario, delle vacanze di Pasqua, di quelle vendemmiali.

Chi prende in considerazione le città del medioevo, è colpito dalla individualità, dalla varietà, dalla molteplicità delle forme. Comignoli eleganti, svelte e graziose scale, finestre originali, nelle quali il circolo, l’ellissi, o il sesto-acuto si coniugano con nuovissime fogge. Nelle città moderne l’individualità sarà eliminata. L’occhio rimarrà attonito davanti all’imponenza delle grandi linee, all’associazione delle forze, ai miracoli dell’industria del secolo, che hanno una propria poesia.

Ogni secolo non ha forse la sua missione, la sua fede? L’umanità non considera l’idea del movimento e del progresso? Di secolo in secolo questa idea si manifesta in modo diverso e produce frutti diversi. Conchiudiamo col dire che non siamo nella cerchia di coloro che disperano perché nel presente ci troviamo in un’epoca assolutamente materialista, dove qualunque aspirazione è offuscata dalla ricchezza. Abbiate pazienza, il passato non è ancora del tutto dimenticato, l’avvenire non è ancora maturo. Aspettate che le nuove piantagioni abbiano messo germogli dal grembo di una terra di lumi e di libertà. Vedrete allora il mondo sotto un nuovo aspetto. Noi non dubitiamo di ciò, ma la nostra persuasione non giunge fino al punto di asserire che l’uomo, raggiunta quell’era, sarà migliore o più contento».

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Anonimo. Una città al ventesimo secolo. Milano, Giornale dell’ingegnere, architetto ed agronomo, 1857.

IMMAGINE DI APERTURA: Il Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasferimento a Sydenham Hill (Fonte Wikipedia)

Maurizio Carta – Strutture e strategie per l’armatura culturale in Sicilia

Il volume presenta gli esiti di una ricerca biennale commissionata dal Dipartimento dell’Urbanistica della Regione Siciliana al Dipartimento Città e Territorio dell’Università di Palermo – ed affidata alla responsabilità scientifica di chi scrive – relativa all’interpretazione delle identità e delle opportunità del sistema culturale regionale ed il loro utilizzo come risorse e strumenti per l’attivazione di politiche di sviluppo fondate sulla dimensione culturale. La ricerca, svolta nell’ambito degli studi promossi dal Comitato tecnico scientifico per la redazione del Piano territoriale urbanistico regionale (Ptur), ha prodotto l’individuazione in Sicilia di sistemi culturali locali, intesi come aggregazioni territoriali caratterizzate dal riconoscimento dell’appartenenza ad una cultura locale specifica, connotate da un preciso tema nel “dominio culturale”, composto dalla complessa interazione tra risorse, attività, servizi, luoghi, soggetti ed economie. Gli esiti della ricerca, in termini di individuazioni di ambiti e di linee guida per le decisioni di livello regionale, si propongono di indirizzare le scelte della pianificazione nel dominio culturale, cioè di orientare le strategie e le conseguenti azioni di tutela, valorizzazione, fruizione, gestione, marketing e comunicazione per il sistema culturale regionale sia per il breve periodo (adeguando l’offerta culturale regionale a criteri di eccellenza ed attivando un piano di marketing strategico orientato alla valorizzazione delle risorse, al turismo culturale ed alla fruizione del tempo libero) sia sul medio-lungo periodo (valorizzando il territorio attraverso la creazione di un sistema integrato e diversificato di servizi per la fruizione e per la produzione culturale). Pianificare nel dominio culturale significa quindi rafforzare il perseguimento di una più evidente ed efficace “dimensione culturale dello sviluppo”, la quale richiede oggi con sempre maggiore vigore di declinare le trasformazioni sociali, economiche e territoriali verso il “progetto delle identità” del territorio, verso politiche che favoriscano la realizzazione di strategie culturali concertate e un reale partenariato tra tutti i soggetti coinvolti, in termini di scambio di informazioni, di trasferimento di “buone pratiche” e di sperimentazioni di azioni.

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IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro

La sete di libertà ai tempi di Platone non è la stessa dei nostri giorni

di Sergio Bertolami

Su WhatsApp leggo il post di una mia amica che fa riferimento ad un brano tratto dalla “Repubblica” di Platone, che dice: «Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia».

Il brano è molto significativo. Soprattutto permette di riflettere, e non è cosa da poco. Tuttavia occorre considerare che il suo contenuto non può essere traslato ai nostri giorni senza contestualizzarne il pensiero. Non dimentichiamo che il riferimento al “contesto” è la grande conquista della nostra modernità. Il contesto sociale e politico di Platone ha come riferimento l’oligarchia, la demagogia, la tirannia. Concetti anche questi da storicizzare a loro volta. All’epoca il popolo era alla ricerca di un governo autoritario. Noi, al contrario, siamo tutelati da una repubblica parlamentare. Proprio oggi alle ore 12 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte riferirà alla Camera sulla crisi politica. Dopo il dibattito (quindi dopo un confronto fra presunti “coppieri”) per appello nominale i deputati saranno chiamati a confermare o meno la fiducia al governo. Non basta! La vera sfida numerica per la sopravvivenza di questa compagine governativa sarà domani al Senato. Non vado oltre, perché mi pare che le garanzie della nostra costituzione (perfettibile) bastino a rassicurarci che, pur apprezzando le intense parole di Platone, non viviamo nella società di 2400 anni fa. 

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Ahkeem Hopkins da Pixabay 

Arte del Novecento – Sono cambiati gli orientamenti

di Sergio Bertolami

1 – Premessa.

Da dove vogliamo cominciarla questa passeggiata nell’arte del Novecento? Sicuramente dalle avanguardie, anche se prima occorrerà dedicare qualche puntata ai precursori. Le avanguardie dei primi anni del secolo sono costituite dagli artisti famosi che hanno scritto eccellenti pagine di storia, come i Matisse, i Derain, i Kirchner, i Picasso. Ma occorrerebbe aggiungervi quelli misconosciuti, che riemergono (fateci caso) attraverso certe opere che pochi, molto pochi, conoscono. A pensarci bene, però, gli artisti famosi e quelli meno hanno un denominatore comune. Le loro opere entravano nei salotti della borghesia, che le pagava per un tozzo di pane, ammirando quel guizzo antiborghese che permetteva di sentirsi colti, illuminati ed innocenti. Tali opere mostravano atteggiamenti di rivolta verso l’arte del passato. Quell’arte che aveva scompaginato i canoni dei padri e dei nonni. Una trasformazione inarrestabile che ora sconvolgeva addirittura tutte le discipline, tutte le tecniche, i materiali, i contenuti. I nonni guardavano alle Accademie, ai maestri del passato. I padri erano approdati all’impressionismo, sentimento della modernità, ora i figli trovavano obsoleto tutto questo, se non addirittura un ostacolo alla liberà espressiva. Nel 1911, nel corso di una riunione della Secessione di Berlino, difronte alla nuova arte un membro della giuria si lasciò scappare: «Ma questo è ancora impressionismo?». Allorché, di rimando, si levò una voce dalla sala: «No, è espressionismo!». Nel corso di questa carrellata, non arriveremo a definire “Espressionismo” tutta l’arte moderna, come fa Sheldon Cheney, ma a piccoli passi ne tracceremo l’evoluzione. Partendo dalle evidenze, come certi influssi provenienti in Europa dai paesi extraeuropei. S’era cominciato col giapponismo conosciuto attraverso le stampe orientali, si continuò rivolgendosi alle cosiddette civiltà primitive, quelle provenienti dall’Asia o dall’Africa, dalle Americhe o dalle terre oceaniche. Ma non fu soltanto uno sguardo geografico; persino la spontaneità infantile fu considerata di maggiore ispirazione rispetto ai capolavori conservati al Louvre. Chi legge ricorderà la celebre frase di Picasso: «A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, però ci ho messo una vita per imparare a dipingere come un bambino».

Lettera di Picasso a Guillaume Apollinaire.

Per citare un italiano, ricordate il titolo di qualche libro di Tommaso Marinetti? Uccidiamo il Chiaro di Luna! Zang Tumb Tumb, Parole in libertà, La conquista delle stelle, Canto di eroi e macchine, La cucina futurista. Con quest’ultimo libro bandiva persino la pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana». Immaginate dunque se non erano banditi i principi dell’arte stessa, la figura tradizionale dell’artista, il suo ruolo sociale. I maestri del primo Novecento proposero un nuovo modo di intendere e di volere. E lo fecero ad alta voce, attraverso programmi, dichiarazioni alla stampa, manifesti. Dire che oggi – a distanza di un secolo da quelle espressioni, talora concitate – il grande pubblico non ha ancora capito del tutto quella nuova arte, è come sfondare una porta aperta. Chi fra questi ancora cerca nelle opere esposte in un museo o in una mostra, concetti come la mimesi della natura, il richiamo alla letteratura poetica, l’armonia delle forme e dei toni coloristici, la simmetria e le proporzioni, gli equilibri lievissimi e raffinati di un tempo, chi in altre parole cerca di trovare i tradizionali canoni estetici, non può che rimanere smarrito. Come un esploratore incerto se valicare il limite della propria mappa, laddove è scritto «hic sunt leones». Ovvero qui ci sono i leoni, questo è il confine inesplorato, al di là del quale non è incoraggiato avventurarsi. Occorre, chiaramente, una buona dose di temerarietà per azzardarsi senza un adeguato equipaggiamento. Vale soprattutto per gli amanti delle opere iconiche, quelle da ammirare e venerare, prostrati al puro visibile. Persino costoro sanno bene che i veri artisti hanno spesso suscitato scandalo. Pur tuttavia il divario fra l’arte del Novecento e la società contemporanea è andato sempre più aumentando, accrescendo incomprensioni. Un distacco colmabile solo attraverso la scoperta di nuove aree della conoscenza artistica. Consapevoli del rischio che si corre, se non si è disponibili a sovvertire il comune e consolidato sentire.

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Michele Dantini – Il momento Eureka. Pensiero critico e creatività

In ambito umanistico l’innovazione comporta, con la definizione di inediti “alberi del sapere”, la drastica mutazione di criteri di giudizio estetico e morale. Come accade che d’un tratto rifiutiamo le nostre abituali prospettive di valutazione? Quali patti o alleanze tra discipline sembrano improvvisamente vincere l’arida routine dello specialismo accademico e congiurano a disegnare nuovi mondi? L’attuale discussione sul “pensiero divergente” e l’innovazione cognitiva costituisce forse la cornice di indagine più appropriata per sperimentare prospettive molteplici e inedite collaborazioni epistemiche. Nel “Saggio sulla scintilla” storici dell’arte, storici della scienza, scienziati sociali e cognitivi incuranti delle barriere edificate dalle salde burocrazie settoriali sono invitati a prendere parte a un’ambiziosa conversazione sui rapporti tra cultura, etica e politica considerati da punti di vista di volta in volta determinati. Le ragioni che avevano portato a affermare l’esistenza di “due culture” sono oggi venute meno: questa una tesi tra le principali del libro. Acquista così particolare importanza l’esplorazione delle “zone di contatto” tra discipline umanistiche da un lato, scienze e tecnologia dall’altra. Si tratta oggi di articolare meglio le connessioni tra innovazione cognitiva e sociale e di riconoscere l’importanza delle emozioni – persino delle emozioni “negative”, se opportunamente elaborate – dal punto di vista di una teoria della scoperta (o del “momento Eureka”). La pluralità dei punti di vista richiamati e discussi nel modo più brillante dall’autore contribuisce polifonicamente a mettere meglio a fuoco la nostra comprensione del processo creativo nella molteplicità dei suoi aspetti. Con inusuale ampiezza di riferimenti storici e teorici e conoscenze storico-artistiche di prima mano, l’autore indaga la “creatività” al di là del solo requisito biologico o della prospettiva pedagogica, pure importantissimi.

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IMMAGINE DI APERTURA di Pexels da Pixabay   

Fausto Carmelo Nigrelli, Maria Rosaria Vitale – Piazza Armerina dalla Villa al Parco

Studi e ricerche sulla Villa Romana del Casale e del fiume Gela. Il volume è il risultato del forte interesse suscitato dalle vicende relative alla protezione dei mosaici di Piazza Armerina dopo la loro scoperta negli anni ’50. Il saggio di Maria Rosaria Vitale passa in rassegna il susseguirsi dei pareri, delle ipotesi e delle proposte riguardanti la protezione dei 4000 mq di mosaici concludendo la riflessione sulla sul dibattito riguardante la scelta di sostituire la copertura minissiana. Nel volume sono presenti anche tre contributi che riguardano la Villa, il territorio e la città. Uno dei contributi, curato da Mazzeo, si è occupato delle vicende che hanno portato all’assegnazione dei lavori sul sito archeologico a Minissi; un’altro contributo, curato da Filippo Gagliano riscostruisce le scelte di pianificazione del paesaggio nell’area attorno alla Villa; infine un altro contributo è dedicato al progetto del Parco archeologico . 

SCARICA IL LIBRO O LEGGILO SU ACADEMIA: Piazza Armerina: dalla Villa al Parco. Saggi e ricerche sulla Villa romana del Casale e il fiume Gela, Cannitello, Biblioteca del Cenide, 2010. ISBN: 978-88-87669-59-6

IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro   

Guido Gozzano – La camicia della trisavola

Estratto da “La danza degli gnomi e altre fiabe”

Quando (il tempo non ricordo!)
cani, gatti, topi a schiera
ben si misero d’accordo
c’era, allora, c’era… c’era…
… un orfano detto Prataiolo, tardo e trasognato, tenuto da tutti per un mentecatto. Prataiolo mendicava di porta in porta ed era accolto benevolmente dalle massaie e dalle fantesche, perché tagliava il legno, attingeva al pozzo; e quelle lo compensavano con una ciotola di minestra. Ma quando Prataiolo compì i diciott’anni, il vicinato cominciò ad accoglierlo meno bene ed a rimproverargli il suo ozioso vagabondare.
Tanto che egli decise di lasciare il paese e di mettersi pel mondo alla ventura.
Andò a salutare la sua sorella di latte, Ciclamina, e questa gli disse:
– Voglio darti una piccola cosa, per mio ricordo. Non sono ricca e non posso fare gran che. Aggiungerò al tuo fardello una logora camicia della mia trisavola, che era negromante.
Prataiolo non poté nascondere un sorriso di delusione.
– Non sdegnare il mio dono, o Prataiolo. Ti sarà più utile che tu non pensi. Ti basterà distendere la camicia per terra e comandare ciò che vorrai: e ciò che vorrai sarà fatto.
Prataiolo prese il dono, abbracciò la sorella, e partì. Verso sera sentiva appetito e trovandosi senza provviste e senza denaro, cominciava ad inquietarsi, perché aveva ben poca fiducia nella tela miracolosa.
Volle provare, tuttavia; la distese in terra e mormorò:
– Camicia della trisavola, vorrei un pollo arrosto!
Ed ecco disegnarsi a poco a poco l’ombra di un pollo, leggiera dapprima e trasparente, poi più densa e concreta, solida e dorata come un pollo naturale. E un profumo delizioso si diffondeva intorno.
Prataiolo non osava toccarlo, temendo un malefizio. Poi si chinò, lo palpò, ne strappò un’ala, la portò alla bocca.
Era un pollo autentico e squisito. Ordinò allora una torta allo zibibbo, un piatto di pesche, una bottiglia di Cipro.
E tutto si disegnava leggiero, si concretava a poco a poco sulla camicia miracolosa.
Prataiolo mangiava tranquillo, seduto sull’erba, quando vide sulla strada maestra un mendicante che lo fissava muto e supplichevole.
– Posso offrirti, compagno?
Il vecchio non si fece pregare e divise il banchetto con lui.
Ma quando vide la comparsa meravigliosa delle portate, pregò il ragazzo di donargli la tela magica.
– Ti darò questo mio bastone in compenso.
– E che vuoi che ne faccia?
– Se tu sapessi la virtù di questo mio bastone, accetteresti con gioia. Contiene mille piccole celle ed ogni cella racchiude un cavaliere armato e un cavallo bardato di tutto punto. Ogni volta che avrai bisogno d’aiuto ti basterà comandare: ” Fuori l’armata!”.
Prataiolo aveva sempre sognato d’essere generale e non poté resistere a quella tentazione: accettò il cambio e si mise in cammino. Ma dopo poche ore era già pentito.
– Ho fame e non ho più la mia camicia! A che può giovarmi un ‘armata quando lo stomaco è vuoto?
L’appetito cresceva e per distrarsi egli puntò in terra il bastone e comandò:
– Fuori l’armata!
Ed ecco un fruscìo dal di dentro, poi aprirsi nel legno tante piccole finestre e da ogni finestra uscir fuori un cosino minuscolo come un’ape; poi crescere in pochi secondi, crescere, formare all’intorno una muraglia di cavalli scalpitanti e di cavalieri armati.
Prataiolo guardava trasognato.
– Che cosa comandate, signor generale?
Egli ebbe un’idea.
– Che mi sia riportata la camicia della trisavola!
L’armata partì di gran galoppo, sparve all’orizzonte, e poco dopo era di ritorno con la tela miracolosa.
– L’armata rientri in caserma! …
Prataiolo puntò il bastone in terra. Cavalli e cavalieri presero a rimpicciolire, in pochi secondi ritornarono minuscoli come api, rientrarono nelle cellette che si rinchiusero sul legno senza lasciar traccia.
Prataiolo era felice.
Riprese la via e giunse ad un mulino.
Il mugnaio era sulla soglia e suonava il flauto: la moglie e i suoi nove figli danzavano intorno. Prataiolo sentì che avvicinandosi gli cresceva una voglia irresistibile di muover le gambe; poi fu costretto da una forza ignorata a ballare con gli altri ballerini.
Sentiva intanto la moglie del mugnaio che danzando gridava furibonda al marito:
– Basta! Basta! Uomo senza cuore! Dacci del pane invece che costringerci a ballare!
Poi rivolgendosi a Prataiolo che ballava con loro:
– Vedete? Questo mascalzone di marito, quando lo si prega di sfamarci, prende il suo flauto dannato e ci costringe a ballare!
Il mugnaio, quando gli piacque, smise di suonare e la moglie, i figli, Prataiolo caddero sfiniti dalla ridda vertiginosa. Prataiolo, riprese le forze, distese la camicia della trisavola e comandò un pranzo magnifico. Invitò il mugnaio e la sua famiglia sbigottita a dividere il pasto. Quelli non si fecero pregare, e giunti alle frutta il mugnaio disse:
– Cedimi la camicia ed io ti do il mio flauto.
Prataiolo accettò il cambio, già sicuro di ciò che doveva fare poco dopo. Giunto, infatti, a dieci miglia dal paese, spedì i mille cavalieri che gli riportarono la tela.
– Ed eccomi ora possessore della camicia, del bastone, del flauto magico… Non posso desiderare di più.
Arrivò verso sera in una città e vide grandi annunci a vivi colori. Si accordava la mano della figlia del Re a chi sapeva guarirla della sua insanabile malinconia.
Prataiolo si presentò subito alla Reggia. Il Re dava quella sera un banchetto di gala agli ambasciatori del Gran Sultano, ma, udita la profferta dello sconosciuto, lo fece passare all’istante. Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme.
Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio.
Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n’avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note. Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia… Poi tutti s’alzano d’improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l’un l’altro, spaventati.
Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d’oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile.
– Basta! Basta! Per pietà! – gridavano i più vecchi e i più pingui.
– Avanti! Avanti ancora! – dicevano i più giovani, tenendosi per mano.
La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch’essa d’alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante. Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un’ora e quando poté parlare disse al Re:
– Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa.
Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava.
– Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere.
– Partite, dunque, e portatela fra noi – dissero i commensali.
I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale.
– Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella -. E l’armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all’istante.
E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze.

IMMAGINE DI APERTURA: Illustrazione di Mystic Art Design da Pixabay

Lucio Fontana – Concetto Spaziale. Attese, 1964

Se in geometria razionale la retta è un insieme di punti totalmente ordinato allora pare del tutto naturale come dai primi “Buchi” del 1949 Lucio Fontana arrivasse a proporre, nel 1958 alla galleria milanese Il Naviglio, i primi lavori con i cosiddetti “Tagli”, poi battezzati dall’artista “Attese”; al singolare se il taglio era uno solo, al plurale se erano più di uno. “Attese” nel senso di sospensioni, pause, ritardi, dinamismi che mutano con il nostro sguardo in quanto fatti di ombre. Impossibile scegliere un’opera fra le altre poiché fin da subito furono concepite come una sorta di ciclo aperto.

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Sciascia, intellettuale dal forte impegno civile. L’Italia gli deve molto

“Un intellettuale al quale l’Italia deve molto” così il Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini nel giorno del centenario della nascita di Leonardo Sciascia. “Una personalità animata da forte impegno civile e passione democratica – aggiunge il Ministro – capace di analisi, critiche e spunti narrativi di grande attualità, autore di romanzi e racconti ai quali occorre ritornare per comprendere appieno il nostro Paese”.

Per ricordare questo grande scrittore siciliano lasciamo la parola a sua figlia Anna Maria Sciascia intervistata daDaniela Spalnca di TeleacrasWEB.

Leonardo Sciascia : sua figlia lo ricorda cosi !

IMMAGINE DI APERTURA – Manifesto delle manifestazione organizzata dalla Fondazione Leonardo Sciascia