Paolo Agostino Ruggeri – Un manuale per i manager del terzo millennio

 

Vorresti avere successo nella vita e sul lavoro? Vorresti diventare un leader e costruire il tuo impero? Tutto questo è possibile e parte da un semplice esercizio… Leggi questo estratto gratuito tratto da “I nuovi condottieri” di Paolo A. Ruggeri. In fondo realizzare i tuoi sogni è più semplice di quanto possa sembrare. Edizione non integrale.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di MetsikGarden da Pixabay 

Gaia Lavoratti – Il disegno comunica, ma come si comunica un disegno?

Gaia Lavoratti è Dottore di ricerca in “Rilievo e Rappresentazione dell’Architettura e dell’Ambiente” (sede di Firenze) afferente alla Scuola Nazionale di Dottorato in “Scienze della Rappresentazione e del Rilievo” (SSD ICAR/17), è assegnista di ricerca presso il DIDA/Dipartimento di Architettura di Firenze. In questo interessante saggio si sofferma sul tema della comunicazione applicato al disegno di architettura. «Il disegno è una delle forme espressive più antiche dell’uomo. Strumento descrittivo, mistico, di analisi, di progetto o forma d’arte, ha percorso millenni di storia evolvendo e modificandosi in relazione alle differenti culture e alle diverse competenze tecniche, fino a diventare esso stesso documento, testimonianza, traccia di un percorso intellettuale. Nati come ‘opere uniche’ fruibili da pochi, gran parte dei disegni antichi di cui siamo potuti venire a conoscenza si è conservata e diffusa grazie alla produzione di copie. Tale pratica, se in alcune circostanze ha portato a una eccessiva interpretazione del segno grafico nel passaggio di mano in mano fino alla perdita di parte del significato iniziale, dall’altra ha reso esplicita la necessità del disegno di essere trasmesso per potersi conservare. Con il perfezionamento dei processi tipografici si è assistito alla riproduzione in serie di simboli e tracciati e alla loro divulgazione ad un ampio pubblico. La stampa di disegni e opere d’arte ha quindi seguito un percorso evolutivo che, grazie alla sperimentazione di tecniche differenti, ha consentito la replicazione anche dei dettagli più minuti. Il passaggio dalla stampa su foglio singolo di un’immagine al suo inserimento all’interno di un volume ha reso però necessaria una riflessione tecnica e metodologica relativa alla funzione e alle potenzialità comunicative del segno grafico. Non più opera avulsa dal contesto, ma parte integrante della struttura della pagina, il disegno, al pari di ogni altro elemento del foglio, deve rispettarne le regole compositive ed editoriali, conservando al contempo la leggibilità delle informazioni da trasmettere».

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Disegno dell’architettura e grafica editoriale. Il disegno comunica, ma come si comunica un disegno?

IMMAGINE DI APERTURA – Immagine di copertina del libro “Contenuto e Forma. Lo sviluppo della comunicazione visiva nella relazione tra ricerca e pratica progettuale” a cura di Susanna Cerri.

Emilio Del Giudice – Spesso le grandi scoperte sono frutto di incomprensioni

“La storia è piena delle puttanate dette da grandissimi scienziati”. Così simpaticamente affermava Emilio Del Giudice, per dire che spesso senza neppure saperlo si commettono azioni sleali o semplicemente sciocche. Dopotutto siamo esseri fallibili. A riprova, basti ascoltare questo aneddoto riferito a Guglielmo Marconi, studente di fisica a Bologna, rimproverato dal suo professore riguardo alle onde elettromagnetiche, grazie alle quali Marconi fu il primo a depositare il brevetto d’un sistema di telegrafia senza fili, che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1909.

IMMAGINE DI APERTURAIl telegrafo (Fonte Wikipedia)

I Nottambuli di Hopper icone della solitudine e dell’alienazione

Nighthawks (I nottambuli) è una delle immagini più note dell’arte del XX secolo. Il dipinto raffigura un locale aperto tutta la notte nel quale tre clienti sono assorti ciascuno nei propri pensieri. Edward Hopper, che lo ha dipinto, ha riferito che Nighthawks è stato ispirato da «un ristorante sulla Greenwich Avenue di New York, dove due strade si incontrano». Tuttavia, possiamo considerare questa immagine come una icona universale e senza tempo, che trascende il luogo particolare che ha ispirato l’autore. Nella scheda dell’opera, conservata nelle collezioni moderne dell’Art Institute of Chicago leggiamo: «La comprensione di Hopper delle possibilità espressive della luce che gioca su forme semplificate conferisce al dipinto la sua bellezza. Le luci fluorescenti erano appena entrate in uso nei primi anni Quaranta e il ristorante aperto tutta la notte emette un bagliore inquietante, come un faro all’angolo buio di una strada». Noi spettatori ci troviamo fuori dal locale, separati dai tre clienti e dal barista intento nel suo lavoro. Il fronte vetrato ci isola dall’ambiente interno. Hopper ha addirittura eliminato ogni riferimento all’ingresso cosicché, pur attratti dalla luce del locale, volutamente rimaniamo esclusi dalla scena. I nottambuli, così poco comunicativi, sembrano separati e lontani non solo l’uno dall’altro, ma anche da noi spettatori.

Hopper stesso, trovandosi a commentare il dipinto, ha risposto che per la figura femminile dai capelli rossi ha posato come modella Jo, sua moglie, e per i due personaggi maschili ha ritratto sé stesso. Ha inoltre messo in evidenza di non avere mai intenzionalmente voluto rimarcare il senso di isolamento umano che da tutti viene attribuito al quadro, pur riconoscendo che «probabilmente, ma inconsciamente, stavo dipingendo la solitudine di una grande città». La critica d’arte Sarah Kelly Oehler, presidente Field-McCormick, nell’articolo che segue fornisce una notizia che molti disconoscono. Nighthawks è stata la risposta di Hopper a una delle più grandi crisi della sua generazione: il bombardamento di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 e l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Temendo un possibile attacco nemico, i newyorkesi furono sottoposti a vere e proprie esercitazioni di blackout notturno e a disposizioni sul mantenimento di luci soffuse negli spazi pubblici. A Hopper piaceva passeggiare giorno e notte, ma di certo la sua esperienza nella città oscurata dal momento di crisi deve essere stata molto diversa dal solito ed emotivamente coinvolgente.

LEGGI SUL SITO DEL MUSEO – Nighthawks as Hope: A Curator Muses su Edward Hopper e Crisis

Torino – CAMERA DOPPIA. Horst P. Horst – Lisette Model

24 Marzo 2021 – 04 Luglio 2021 – Torino, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia
CAMERA DOPPIA. Horst P. Horst – Lisette Model
Horst P. Horst a cura di Giangavino Pazzola – Lisette Model a cura di Monica Poggi
http://www.camera.to

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia inaugura la propria stagione di mostre del 2021 con una doppia personale dedicata a due importanti fotografi come Horst P. Horst e Lisette Model, riprendendo il filone espositivo dedicato ai grandi autori della storia della fotografia del XX secolo. Un ciclo – iniziato con la mostra su Carlo Mollino (2018) e proseguito poi con quella sull’opera di Man Ray (2019) – che offre lo spunto non solo per indagare il genio dei maestri, ma anche per apprezzare le diverse declinazioni artistiche nell’uso del linguaggio fotografico: dall’architettura al ritratto, dalla fotografia di strada a quella di moda.
Attraverso il format CAMERA DOPPIA, il centro espositivo di via delle Rosine 18 a Torino presenta al suo pubblico, dall’24 marzo al 4 luglio, le personali dedicate a Horst P. Horst e Lisette Model: genio della fotografia di moda lui, ironica e dissacrante street photographer lei, punti di riferimento nello sviluppo del proprio specifico genere fotografico ed ispiratori di intere generazioni. Nonostante l’avvicinamento al mondo della fotografia inizi per entrambi a Parigi negli anni Trenta, il loro atteggiamento nei confronti dei soggetti ritratti è totalmente opposto: se per l’autore tedesco le proprie modelle rappresentano un’eleganza senza tempo, dai richiami classici e dalla bellezza statuaria, i soggetti ritratti dall’austriaca diventano caricature di sé stessi, emblema di una società goffa e decadente. Anche per questo le mostre si presentano come una doppia occasione per scoprire due grandi protagonisti della storia del linguaggio fotografico, in grado di rivelare la ricchezza culturale dei decenni presi in esame.
Le mostre sono accompagnate da due cataloghi, entrambi pubblicati da Silvana Editoriale.

Horst P. Horst. Mainbocher corset, Paris, 1939 (Madame Bernon, corset by Detolle for Mainbocher, Paris, 1939) © Horst Estate/ Condé Nast. Courtesy Paci contemporary gallery

HORST P. HORST

Il percorso espositivo curato da Giangavino Pazzola si sviluppa in maniera cronologica e, con una selezione di oltre 120 opere di vario formato, prende in considerazione i principali periodi creativi di Horst, ripercorrendone la storia negli snodi fondamentali della sua evoluzione, dagli esordi alle ultime realizzazioni.
Le diverse sezioni si articolano in maniera tale da sottolineare alcuni punti salienti dell’intera produzione artistica di Horst: il legame con l’arte classica che, tuttavia, non esclude le influenze delle avanguardie; l’indagine visiva sull’armonia e l’eleganza della figura umana impreziosita dalla perfetta padronanza dell’illuminazione della scena; la proficua e duratura collaborazione con “Vogue”, rivista per la quale il fotografo ha firmato decine di copertine; i ritratti di personaggi del mondo della moda e dell’arte, spesso ambientati nelle proprie dimore, immagini attraverso le quali l’autore rivela ancora una volta le sue indiscutibili capacità compositive.
La prima sezione funge da introduzione all’autore e ai suoi interessi di ricerca: il rapporto natura-cultura, il ritratto ambientato e la grande cura del dettaglio, elementi riscontrabili sia nelle fotografie nelle quali immortala il milieu intellettuale della Parigi degli anni Trenta che negli autoritratti e nelle nature morte. Nella seconda sezione, trovano spazio le opere realizzate durante la fase parigina e quella newyorchese, periodi molto prolifici, influenzati dal romanticismo e dal surrealismo, durante i quali realizza immagini iconiche quali Mainbocher Corset, Paris, 1939, Lisa with Harp, 1939 e Hand, Hands, New York, 1941. L’uso del colore nella fotografia di moda è il soggetto che apre la sezione nella quale vengono ospitate le più celebri copertine di “Vogue”. A fare da trait d’union troviamo le sorprendenti immagini d’interni realizzate a partire dagli anni Quaranta e divenute presto una delle occupazioni principali del fotografo, anche grazie all’interesse di Diana Vreeland (direttrice di “Vogue” dal 1962), che commissiona ad Horst una serie di servizi su case e giardini degli artisti e delle celebrità. Tra tanti realizzati dall’autore, un focus viene dedicato all’Italia, con l’appartamento romano dell’artista Cy Twombly, adornato di proprie opere e sculture classiche, e con il fascino senza tempo della tenuta di Villar Perosa, all’interno della quale posa un’elegantissima Marella Agnelli.
A completare la mostra, che si muove sempre a cavallo tra le opere più note dell’autore e una serie sorprendenti inediti, le immagini tratte dalla rinomata serie Round the clock, New York, 1987, ultima sintesi di radicalità, talento e visione di una delle figure di spicco della fotografia del XX secolo.
La mostra è realizzate grazie alla collaborazione con l’Horst P.Horst Estate e Paci contemporary gallery di Brescia.

Lisette Model, Woman with veil, San Francisco, 1949 © 2020 Estate of Lisette Model, National Gallery of Canada, Ottawa Courtesy Baudoin Lebon / Keitelman

LISETTE MODEL

La mostra dedicata a Lisette Model, a cura di Monica Poggi, è la prima antologica realizzata in Italia. Con una selezione di oltre 100 fotografie, l’esposizione ripercorre la carriera dell’artista sottolineandone l’importanza avuta negli sviluppi della fotografia degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Il suo nome è spesso associato al periodo di insegnamento, durante il quale ha avuto come allievi diversi autori che sarebbero poi diventati a loro volta fotografi fra i più celebri del Novecento, come Diane Arbus e Larry Fink. La sua influenza, tuttavia, ha avuto un raggio d’azione ben più vasto, anche grazie a una spiccata capacità nel cogliere con ironia e sfrontatezza gli aspetti più grotteschi della società americana del dopoguerra. Le inquadrature ravvicinate, l’uso ricorrente del flash, i contrasti esasperati sono tutti espedienti volti ad accentuare le imperfezioni dei corpi, gli abiti appariscenti, la gestualità sguaiata. Non c’è interazione fra Model e i suoi soggetti, colti tendenzialmente all’improvviso, mentre mangiano, cantano o gesticolano goffamente, trasformati dai suoi scatti nei personaggi di un’irriverente commedia umana. Questa rivisitazione così personale all’approccio documentario la rende, di fatto, precorritrice di un modo di utilizzare la fotografia che troverà poi piena realizzazione con gli autori dell’epocale mostra “New Documents” al MoMA nel 1967.
La mostra prende avvio in Francia, dove Model inizia a fotografare negli anni Trenta grazie agli insegnamenti della sorella Olga. In questo periodo realizza Promenade des Anglais, una delle sue serie più note, dedicata alla borghesia pigra e decadente che passa l’estate in villeggiatura a Nizza, e racconta la vita dei parigini che trascorrono le loro giornate fra le strade della città. Dopo il trasferimento negli Stati Uniti inizia sistematicamente a fotografare gli abitanti di New York con uno sguardo sprezzante e ironico, realizzando alcune delle sue immagini più iconiche. In mostra, tuttavia, saranno presenti anche progetti meno conosciuti, come il reportage dedicato alla Lighthouse di San Francisco, organizzazione che offre lavoro e assistenza a persone cieche o quello realizzato durante le gare equestri a Belmont Park. La città è presente anche nelle prime serie realizzate subito dopo il suo arrivo: Reflections e Running Legs, dove viene ritratta attraverso i riflessi creati dalle vetrine dei negozi e attraverso le gambe di frenetici passanti. Le merci e gli edifici si fondono e confondono con le persone che passeggiano, in un insieme che è al contempo surreale e documentario. Non mancano ovviamente anche i suggestivi scatti realizzati all’interno dei locali di musica Jazz, da lei stessa definiti come luoghi dove ricercare la vera essenza degli Stati Uniti.
La mostra è realizzata grazie alla collaborazione con la mc2gallery di Milano e la Galerie Baudoin Lebon di Parigi.

IMMAGINE DI APERTURAHorst P. Horst. American Vogue Cover, 15 May 1941 © Horst Estate/ Condé Nast. Courtesy Paci contemporary gallery

Alessandro Barbero – Dante e l’amore

“Dante per anni ha sognato Beatrice senza più rivederla. E poi la rivede: son sui diciotto anni, tutti e due. La incontra per la strada. Hanno più o meno la stessa età, lei un pochino più giovane, però la loro condizione sociale è cambiata enormemente. Perché Dante […] è pur sempre un adolescente, forse brufoloso, certo imbranato – perché lo racconta lui che era imbranato – e incontra per la strada Beatrice, che invece, alla stessa età, è una donna sposata […]. La incontra per la strada, lei è con altre gentildonne, più anziane, e lui quando vede che c’è Beatrice che gli viene incontro va nel panico, “io cercavo di non farmi vedere”. E invece lei lo vede, e lo riconosce, e lo saluta. E a lui sembra di toccare il cielo con un dito.”

Il più noto storico italiano disegna un ritratto di Dante a tutto tondo, avvicinando il lettore alle consuetudini, ai costumi e alla politica di una delle più affascinanti epoche della storia: in questo video, primo di una serie realizzata dalla casa editrice, Alessandro Barbero ci racconta il rapporto tra Dante e i suoi antenati. Un video ideato e prodotto dagli Editori Laterza e realizzato da Mu Produzioni.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Rhodan59 da Pixabay 

Alessandro Barbero racconta Dante

In Böcklin e Bracht dei luoghi tranquilli dove ricordare o dimenticare

di Sergio Bertolami

9 – Il simbolismo in Germania: Böcklin e Bracht.

Le associazioni culturali di questo periodo affondano le proprie radici nelle esperienze trascorse. Ovverosia, da una parte, nei valori e negli ideali del Movimento romantico, che aveva come punto nodale la vita e i sentimenti dell’umanità. Dall’altra, a più forte ragione, nel Simbolismo, incentrato su tutti quegli elementi immateriali, irrazionali ed emozionali che indiscutibilmente coinvolgono l’esistenza. Ecco allora che non poteva essere dimenticata la lezione di autori importanti, come lo svizzero Heinrich Füssli, l’inglese William Blake, il tedesco Caspar David Friedrich, il francese Jean-Auguste-Dominique Ingres. Le nuove manifestazioni dell’arte non rigettavano, infatti, il passato romantico nelle sue diverse estrazioni nazionali, ma lo modificavano. Così come John Ruskin è testimone dell’insegnamento dei Preraffaelliti, che non rimane affatto circoscritto alla cultura vittoriana, ma è alla base di molte manifestazioni del Simbolismo e dell’Art Nouveau, reali movimenti di transizione dal Tardo romanticismo al nascente Decadentismo.
Anche gli artisti tedeschi continuavano la tradizione del Grand Tour; viaggiavano cioè per portare a perfezione il proprio sapere non solo artistico, ma anche culturale e politico, per maturare esperienze dirette e non soltanto teoriche. Venivano soprattutto in Italia, lo vedremo prossimamente con l’austriaco Gustav Klimt, ma per ora soffermiamoci sullo svizzero Arnold Böcklin.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872, Alte Nationalgalerie, Berlino

Inizialmente interessato alla mitologia, negli ultimi vent’anni della sua vita riesce a cogliere le atmosfere del Simbolismo, e le sa combinare sapientemente con gli aneliti classici e con la tradizione romantica tedesca. La maggiore eredità trasmessa è tutta nel suo dipinto più noto, quello che nella prima versione del 1880 (conservato nella collezione d’arte pubblica del Kunstmuseum di Basilea dal 1920) aveva denominato Un luogo tranquillo, ma che presto tutti impareranno a conoscere come Die Toteninsel ovvero L’isola dei morti. Lo ha battezzato così il suo mercante d’arte berlinese Fritz Gurlitt, che fece la fortuna economica del pittore. Böcklin utilizzò subito questo nuovo titolo, annunciando al proprio mecenate Alexander Günther di avere completato l’opera: «L’isola dei morti è pronta, finalmente, e sono convinto che susciterà l’impressione che desidero». Nonostante fosse un quadro fortemente autobiografico, il dipinto divenne una delle opere più famose e indicative del Simbolismo tedesco.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti, Versione originale, 1880, Museo d’arte di Basilea

Il quadro fu elaborato dal pittore, tra il 1880 e il 1886, in cinque versioni, tutte diverse per gradazioni di luce e toni di colori. I cinque dipinti mostrano un’isola rocciosa che si erge a picco sul mare, al centro caratterizzata da un gruppo incombente di cipressi neri. Incastonate nelle rocce si scorgono le camere funerarie. Su di una barca, che si accinge ad approdare sull’isola, una figura in piedi accompagna una bara velata e un vogatore, rappresentato inspiegabilmente da una figura femminile. Secondo i critici l’immagine sarebbe frutto di fantasticherie funebri per aver perso un gran numero di figli – chi dice sei, chi dice otto – e per aver temuto lui stesso di morire di tifo o a causa di un ictus. È certo però che il tema romantico (e simbolico) della morte è sempre stato presente nelle sue composizioni. Basti ricordare Autoritratto con la Morte che suona il violino (1872) oppure La peste (1898), che mostra la “Cavalcata della Morte” su di una creatura simile a un pipistrello, divenuto in questi nostri tempi di pandemia fra i dipinti più evocati. Secondo l’autore, l’immagine avrebbe dovuto produrre un tale silenzio che il semplice bussare alla porta dovrebbe ancora oggi fare sussultare lo spettatore. Il silenzio è percepibile nell’immobilità del contesto, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua rimossa dalla rematrice. In verità, nelle prime due versioni non erano presenti né bara e né figura ammantata di bianco. Furono aggiunte successivamente. Propose, per l’appunto, la seconda versione del quadro alla vedova Marie Berna che gli chiedeva un’opera “per sognare”. Nell’aprile del 1880 Böcklin in una lettera a lei indirizzata tratteggiava le suggestioni di Un luogo tranquillo dove avrebbe «sognato nel buio mondo delle ombre». Qui si sarebbe potuto percepire leggero «il tiepido alito di vento increspare le onde del mare, in un silenzio solenne e irreale che una sola parola bastava a turbare». Fu dopo le modifiche che il soggetto divenne, dapprima, L’isola delle tombe e, in seguito al suggerimento di Gurlitt, L’isola dei morti.

Il castello Aragonese di Ischia

Chi chiedesse dove si trova quest’isola tenebrosa, stupirebbe a sapere che potrebbe essere stata ispirata sotto il sole di Ischia. Lo ha rivelato lo storico dell’arte svizzero Hans Holenweg, dell’Università di Basilea, fondatore e curatore dell’archivio di Böcklin, aprendo nel 2011 una mostra al palazzo comunale di Fiesole, cittadina toscana dove il pittore si spense nella villa di San Domenico sei anni dopo averla acquistata nel 1895. Come ha spiegato Holenweg, Böcklin aveva visitato Ischia per la prima volta col suo amico Hans von Marées, pittore tedesco. Era il settembre del 1879, a conti fatti appena sei mesi prima di realizzare il dipinto nelle due versioni conservate l’una a Basilea e l’altra a Berlino. Fu lo stesso Böcklin a confidare al suo allievo Friedrich Albert Schmidt che l’idea scaturì dalla vista del castello ischitano di Alfonso d’Aragona. «In effetti – commenta Holenweg – quest’isola presenta notevoli somiglianze con le rocce e le pareti che si ergono sul mare. E poiché in Böcklin la scelta del soggetto nasceva spesso da una suggestione visiva, si può affermare che lo spettacolo di quell’isola rocciosa abbia ispirato in lui la concezione del quadro. Proprio di fronte all’isola con il castello, c’è un cimitero a terrazze addossato alla roccia, con un approdo a riva che sorse nel 1836 durante un’epidemia di colera. Evidentemente a quel tempo i morti venivano trasportati al camposanto anche via mare. Böcklin nel 1879 alloggiò a Villa Drago, nei pressi di questo vecchio cimitero, ora ricoperto di sterpaglie e completamente privo di croci».

Eugen Bracht

Il tema della morte non è certo fra quelli privilegiati nelle sue opere da Eugen Bracht. Anch’egli svizzero come Böcklin, tuttavia, dal 1887 è attratto da paesaggi rocciosi fortemente caricati di significati simbolici. Rive dell’oblio (Gestade der Vergessenheit) e l’Isola dei morti di Arnold Böcklin sono considerate fra le più famose opere del simbolismo tedesco. Se Böcklin ne realizzò cinque versioni, Bracht la stessa opera la moltiplicò per otto, tra il 1889 e il 1916. Cosa accumunava i due pittori? Sicuramente i viaggi in Italia, ma soprattutto la “pittura del pensiero”, come la chiamava Bracht, manifestato attraverso quel sottile simbolismo che i loro dipinti restituivano. Bracht lo esprimeva con la rappresentazione dei fenomeni naturali, con inquietanti paesaggi costieri e rocce selvagge e aspre, col trattamento della luce da poterne leggere risvolti quasi mistici. Molteplici rappresentazioni espressive che riflettevano il talento dell’artista. Un talento che non passò inosservato ad Anton von Werner, direttore dell’Università di Belle Arti di Berlino, che gli offrì di dipingere insieme a lui le parti di paesaggio all’interno de La battaglia di Sedan e parallelamente assumere l’incarico per la cattedra di “pittura di paesaggio” nell’Accademia da lui diretta. Proposte irrinunciabili per nessuno, specialmente per un pittore che sin dall’inizio della sua carriera non era stato ancora baciato dalla fortuna. Bracht, insoddisfatto del proprio lavoro di quegli anni, era alla ricerca di nuove forme d’espressione. Pensava addirittura di lasciare Berlino e trasferirsi a Parigi. Anzi, si racconta che vi avesse mandato sua moglie alla ricerca di un appartamento. Fu allora che Anton von Werner venuto a conoscenza di tali intenzioni, grazie ad un collega pittore che soggiornava nello stesso Hotel della moglie, evitò di non farsi sfuggire il talentoso giovane pittore, offrendogli un posto d’eccezione all’Accademia di Berlino.

Eugen Bracht, Rive dell’oblio, Versione originale, 1889, Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

In questi “anni panoramici”, come Bracht era solito chiamarli, iniziò il successo artistico e la sua entusiasmante ascesa sociale. Tuttavia, Bracht non era artista che si rivolgeva al passato, e quando si trovò a vivere l’acceso dibattito tra forze conservatrici e progressiste che si scatenò sulla scena artistica berlinese prese una posizione molto precisa e inaspettata da parte del mondo accademico. Protestò vigorosamente, con altre settanta personalità della cultura, allorché Anton von Werner – che dopotutto era il suo superiore e il suo amico – nel 1892 fece chiudere anticipatamente, dopo appena una settimana, la mostra di Edvard Munch. Per dimostrare in modo inequivocabile le proprie posizioni, rassegnò le dimissioni da tutti gli incarichi ufficiali e onorari. Dimissioni che furono chiaramente rifiutate, considerato che il corso di Bracht era il più frequentato e che i suoi allievi erano spesso vincitori di premi alle mostre d’arte. Lasciò la cattedra di Berlino per trasferirsi a Dresda solo nel 1901, quando cambiò la direzione dell’Accademia. Rifiutò persino un’importante opera pubblica, tanto da scandalizzare lo stesso Kaiser Guglielmo II. Si prese a dire di lui: «Nato col romanticismo, passato attraverso il naturalismo, approdò infine all’impressionismo». La pittura di Stato era, infatti, per lui ormai alle spalle e ora veniva considerato come un rappresentante dell’avanguardia berlinese e uno degli artisti più famosi del tempo. Vita e opere di Bracht potevano leggersi anche nella seconda edizione del libro di Julius Norden, Berliner Künstler-Silhouetten del 1902. Una serie di saggi che tratteggiavano le “silhouette degli artisti berlinesi”.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Giulia Ottaviano – Coco Chanel

 

Ludovica ha una nonna molto particolare. Nonna Betty, nonostante gli anni, è ancora elegantissima, attenta alle mode e curata nel vestirsi e truccarsi; ogni sera sembra pronta per una festa di gala. Betty era una stilista affermata, e la sua linea Rose Garden è sempre stata di altissimo livello. Ora, però, la nonna mostra evidenti segni di debolezza e un giorno, quando Ludovica entra in camera sua, la scambia per una figura del passato, forse un’altra stilista. La nipote non può tacere: riporta alla madre l’accaduto e le analisi mediche rivelano che la nonna è malata. Ludovica fatica ad accettare il cambiamento, vorrebbe fingere che tutto sia come prima. Rivuole la Betty agguerrita e impeccabile, che non può più tornare. Soltanto diverso tempo dopo scoprirà che la nonna le ha lasciato un dono, un regalo tutto per lei: un abito splendido ancora da realizzare. 

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di an_photos da Pixabay

Chiara Baglione – Casabella 1928-2008, una rivista, molte storie

Pubblichiamo questo lungo percorso della memoria legato ad una rivista di architettura, da quando si chiamava «La Casa bella» e vedeva la luce nel gennaio 1928 diretta da Guido Marangoni, fino ai giorni nostri o quasi. La racconta Chiara Baglione e queste sono le sue parole, le sue “storie” introduttive: «Settecentosettantadue numeri, che corrispondono a una quota poco inferiore di fascicoli, e – per quanto il calcolo non possa che essere fatto con larga approssimazione – a una quantità di pagine redazionali nell’ordine delle cinquantamila. Cifre scarne che sintetizzano ottant’anni di vita, non pochi per una rivista di architettura. Possiamo immaginare questa massa di carta come una miniera, un deposito di parole e immagini al quale attingere selettivamente, una fonte di dati e materiali da interrogare con obiettivi e in modi diversi: alla ricerca di informazioni sulle opere realizzate in una determinata area geografica, o progettate in un arco di tempo definito; oppure per ricostruire la produzione di un architetto, ma anche i dibattiti e le polemiche che hanno di volta in volta animato la scena italiana e internazionale, in alcuni casi, entrando nella storia, in altri, rimanendo confinate nella cronaca o, come direbbe qualcuno, nella “geografia” culturale. Ripercorse nel loro stratificarsi durante gli ottant’anni di vita della rivista, quelle pagine possono aiutarci a delineare spaccati interessanti su questioni specifiche: pensiamo, per fare solo alcuni esempi, all’evoluzione della professione dell’architetto nel nostro Paese; alla storia delle facoltà di Architettura e delle crisi che ciclicamente ne hanno segnato l’evoluzione; oppure a quella della Triennale di Milano, sia in relazione a temi e allestimenti, sia per i dibattiti nati in merito alla sua gestione, ai suoi compiti e al suo ruolo. Ma una rivista può essere anche in sé oggetto di studio, analizzata, dunque, per ricostruirne l’evoluzione, le trasformazioni nei contenuti e nelle finalità, il mutare dei modi di concepirla e confezionarla, oltre che degli strumenti critici e descrittivi adottati per leggere e presentare progetti e realizzazioni. In un’analisi di questo tipo la storia dell’architettura si intreccia con quelle della professione, dell’editoria e della grafica, ma anche con la storia politica e sociale, dato che il modo di interpretare il ruolo culturale di una rivista di settore è influenzato dalle condizioni economiche e politiche in cui viene prodotta, dal panorama editoriale in cui si inserisce, dalle modalità di circolazione delle informazioni, dalle caratteristiche del mondo professionale a cui si rivolge e che si rispecchia sulle sue pagine».

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C. Baglione, Casabella 1928-2008, Electa, Milano 2008

IMMAGINE DI APERTURA – Immagine di copertina del libro

Le vignette dei nostri bis-nonni

Come si rideva all’inizio del secolo scorso? Questa volta siamo andati a spulciare nelle pagine di burle, curiosità del mondo, motti, racconti allegri, passatempi di famiglia, dettati e frizzi popolari, raccolti e pubblicati da Francesco Dani nel suo “Libro per ridere” (1905). Abbiamo scelto alcune battute simpatiche arricchite da illustrazioni. Giusto per rivivere lo spirito del tempo.

Curiosità del mondo

IMMAGINE DI APERTURA rielaborazione grafica della copertina de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli.