Giovanni Vultaggio – PALINSESTO: Progettisti di emozioni

La pubblicazione illustra i risultati del progetto PALINSESTO, uno degli ultimi, se non forse l’ultimo, dei progetti rivolti e promosso per giovani locali dalla Provincia Regionale di Trapani. Nel progetto l’illustrazione della metodologia di classificazione delle risorse turistiche sviluppata, esempi della mappatura turistico culturale compiuta nei 24 comuni della provincia e la presentazione degli oltre 27 progetti giovanili promossi con il progetto.

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IMMAGINE DI APERTURA – Immagine tratta dalla copertina del volume

I Pocast del prof. Luigi Gaudio – Il racconto umoristico e…

Il racconto umoristico e “Il bicchiere infrangibile” di Achille Campanile e “L’aspirante attore” di Ennio Flaiano

Luigi Gaudio è un Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Belgioioso (PV) e ha insegnato Lettere presso il Liceo Vico di Corsico (MI). Se però cercate di lui sul web troverete anche che è un professore molto seguito dai suoi studenti, fra le mura scolastiche e sui media che le tecnologie informatiche mettono a disposizione. Così potrete scoprire che Luigi Gaudio è anche l’apprezzato webmaster di vari siti, fra i quali troverete www.atuttascuola.it ricchissimo di pagine, per la condivisione in rete di articoli, tesine e lezioni. Non basta, perché ha aperto un canale su YouTube contenente video didattici seguito da più di venticinquemila iscritti. Questo è l’indirizzo: www.youtube.com/luigigaudio. Troverete anche centinaia di podcast istruttivi su svariati argomenti di letteratura, storia, geografia, musica e tanto altro ancora, disponibili su Spreaker, Spotify, iTunes, e vari aggregatori di audio ed Mp3. Noi vorremmo seguirlo, pescando qua e là alcune delle oltre 220 lezioni di letteratura del Novecento, sia italiana che straniera. Siamo sicuri che molti dei lettori di Experiences rimarranno ad ascoltare con grande interesse il professore Gaudio, per conoscere finalmente autori spesso citati, ma sicuramente non tutti letti.

In questo podcast:
Il bicchiere infrangibile di Achille Campanile
L’aspirante attore di Ennio Flaian‪o

IMMAGINE DI APERTURA di chiplanay da Pixabay 

Gerrit Rietveld – Sedia rosso e blu, 1918/1923

È una sedia o la scultura di una sedia? Di sicuro è un’opera d’arte. Pur ritrovandola fra le mura domestiche, è uno dei manufatti annoverati nelle arti decorative del Novecento. Evoca il neoplasticismo, cardine principale del movimento De Stijl, nato in Olanda all’inizio del XX secolo. Gerrit Rietveld (1888-1964), l’architetto olandese che ne è l’autore, esprime infatti il pensiero De Stijl attraverso un’applicazione equilibrata del colore e la disposizione degli elementi geometrici. Gli artisti del De Stijl hanno cercato, infatti, nuove forme astratte per esprimere una visione del futuro, preferendo evitare ogni riferimento allo storicismo e al naturalismo. Rietveld, produttore di mobili e architetto, era un amico di Mondrian, i cui dipinti successivi ricordano da vicino le forme di questa sedia. La scheda di Google arts and culture sintetizza bene le qualità dell’opera: «Questo design ha offuscato i confini tra pittura, scultura e architettura. Riducendo la forma a una serie di piani e confini che delineano lo spazio, ma non lo contengono, Rietveld ha cancellato l’isolamento dell’oggetto nello spazio e ha dato movimento alla forma statica. Il suo uso dei colori primari ha negato la forma naturale del materiale e ha oggettivato il tutto. Questo concetto è spesso indicato come neoplasticismo ed era il cardine principale del movimento De Stijl in Olanda all’inizio del XX secolo».

La sedia, considerata da Theo van Doesburg come una «scultura astratta-realistica per gli interni delle nostre case future», è oggi esposta al Museum of Modern Art di New York (MOMA). Rietveld stesso spiegò il suo lavoro: «Lo scopo di questa sedia è quello di semplificare le singole parti, preservare la forma intrinseca nel carattere e negli scopi originari dei materiali utilizzati, quella stessa forma che conduce alla formazione di un’entità armoniosa grazie all’adozione di uno specifico modulo per i vari elementi distinti. La struttura della sedia è tale che si possono collegare fra loro le singole parti senza mutilarle, in modo da evitare che una domini sull’altra coprendola o mettendola in situazione di dipendenza; in questo modo il tutto è libero nello spazio. La forma è nata in virtù del materiale. I criteri aggregativi che ho utilizzato consentono l’utilizzo di listelli di legno. […] La cosiddetta Sedia rossa e blu, dunque, […] serve anche per dimostrare che è possibile realizzare qualcosa di bello che interviene plasticamente sullo spazio con l’utilizzo di semplici e puri elementi prodotti dalle macchine».

Prototipo della sedia Rietveld non verniciata

Non tutti gli storici dell’arte concordano sulla datazione del primo prototipo della sedia. Alcuni lo collocano nel 1917, altri si riferiscono alle indicazioni di Gerard van de Groenekan, ex dipendente della fabbrica Rietveld, fermamente convinto che sia stata realizzata nell’estate del 1918. Al contrario Marijke Kuper, storica dell’arte e specialista di Rietveld, indica il 1919 come la data esatta. Facciamo una seduta (è il caso di dirlo!) spiritica con Rietveld e domandiamolo a lui. Interesserà sapere, invece, che il prototipo non è stato eseguito nei caratteristici colori rosso e blu, ma è stato lasciato nel colore del legno naturale. Inoltre, il prototipo presenta due pannelli laterali in compensato sotto i braccioli, come si può osservare nell’immagine. I colori definitivi, che caratterizzano questa sedia stupenda, cioè il rosso, blu, giallo e nero furono attribuiti nel 1923, poco tempo prima che Rietveld progettasse la Rietveld-Schröder House, abitazione privata di Truus Schröder-Schräder, un’artista visiva olandese amica dell’autore, che ha abitato in questa casa, che dal 2000 è nella lista del patrimonio mondiale dell’Umanità UNESCO.

GUARDA IL PROTOTIPO IN NERO ESPOSTO AL MOMA DI NEW YORK: Gerrit Rietveld. Prototype for Red/Blue Chair. 1917-18

Ravenna: Dante. Gli occhi e la mente – LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO

24 aprile 2021 – 04 Luglio 2021 – Ravenna, Chiesa di San Romualdo
Dante. Gli occhi e la mente LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO
Mostra a cura di: Massimo Medica
http://www.mar.ra.it

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Dal 24 aprile al 4 luglio 2021, in San Romualdo a Ravenna, si potrà ammirare la preziosa mostra “Le Arti al tempo dell’esilio”, secondo grande appuntamento del ciclo espositivo “Dante. Gli occhi e la mente”, promosso dal Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura e dal MAR Museo d’Arte della città di Ravenna, a cura di Massimo Medica. A promuovere congiuntamente il ciclo, manifestazione ufficiale del Settimo Centenario della morte di Dante, sono accanto al Comune di Ravenna, i Musei degli Uffizi, per effetto di un accordo pluriennale di collaborazione che idealmente sancisce il gemellaggio tra la città dove il Poeta nacque e quella in cui morì e riposa.
Questa, annunciata alla presenza del Presidente della Repubblica, è una mostra di autentici capolavori. Quantitativamente concentrata, essenziale, precisa: la scelta curatoriale è stata quella di riunire solo testimonianze di assoluta eccezione, precisamente aderenti al tema, realmente emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco. Proponendo ciò che il Poeta ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario “poema per immagini”.

Ad accogliere questo percorso espositivo d’eccezione è un luogo altrettanto significativo: la Chiesa monastica di San Romualdo, di origine camaldolese, attigua alla Biblioteca Classense, nel cuore storico di Ravenna.
A dare, e non solo idealmente, il via al percorso della mostra sarà la potente scultura in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, di colui cioè che condannò il Poeta all’esilio. Prestito fondamentale concesso in virtù dell’importante scambio culturale fra le città di Ravenna e Bologna, quest’ultima accoglierà al posto del Bonifacio VIII, presso il museo medievale, un’opera a mosaico di Marco De Luca, mosaicista ravennate.
Accanto all’effigie bolognese, sarà in mostra a Ravenna anche il calco del ritratto dello stesso Bonifacio realizzato da Arnolfo di Cambio, ora ai Palazzi Vaticani. L’ambiente di origine e formazione del Poeta, Firenze, è documentato in mostra da imperdibili opere di Cimabue – “Madonna con Bambino” proveniente dalla Pinacoteca di Santa Verdiana a Castelfiorentino e “I santi Crisante e Abbondio”, tabernacolo reliquiario dal Museo Civico di Gubbio – e di Giotto – “Polittico di Badia” proveniente dagli Uffizi e “Madonna col Bambino” (Madonna di San Giorgio alla Costa) dal Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte di Firenze – datate al periodo di permanenza fiorentina di Dante e che, con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare.

Costretto ad abbandonare anche Roma, Dante percorre la lunga via dell’esilio che lo porterà in diverse città tra le quali Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca, Pisa e Ravenna. Gli anni dell’esilio corrisposero ad un periodo di profonde mutazioni e novità nell’arte e la mostra le documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. I mesi romani sono rievocati dalle effigi di San Pietro e il San Paolo di Jacopo Torriti, all’epoca dantesca nel portico di San Pietro. Allontanatosi dalla Città dei Papi, ad accoglierlo saranno la Forlì degli Ordelaffi e poi Verona, dove si pose sotto la protezione degli Scaligeri prima nel 1303-1304 e poi nel 1313-1318. Anni in cui la città stava vivendo un momento di grande sviluppo anche artistico, promosso soprattutto da Cangrande della Scala, “uno dei più magnifici Signori che dallo Imperatore Federigo Secondo in qua si sapesse in Italia” (Boccaccio). Preziosi tessuti, oreficerie, tavole dipinte e sculture (queste ultime dovute al cosiddetto Maestro di Sant’Anastasia) documenteranno la sosta del poeta alla corte veneta. Intorno al 1304 fu a Padova. Erano gli anni in cui Giotto stava ultimando la decorazione della cappella degli Scrovegni, quanto di più innovativo la pittura potesse esprimere, tanto da indurre il poeta ad affermare che “ora ha Giotto il grido”. E tra i primi a recepire le innovazioni giottesche furono i maestri padovani della miniatura e la mostra ha il vero privilegio di mostrare, per la prima volta, il preziosissimo Offiziolo, ora di proprietà privata, appartenuto al poeta Francesco da Barberino, amico di Dante. L’arte della miniatura affascina Dante anche nella successiva tappa bolognese, tanto da fargli citare, con ammirazione, nell’undicesimo canto del Paradiso, uno dei maestri della scuola bolognese di quest’arte, Franco Bolognese, per altro non meno importante dell’altro celebrato maestro, Oderisi da Gubbio. In questa sezione, uno dei capolavori assoluti dell’arte della miniatura, è la Bibbia Istoriata appartenuta a Carlo V, eccezionalmente concessa dalla Biblioteca del Monastero dell’Escorial.

Dopo i soggiorni nella Marca Trevigiana e poi nella Lunigiana dei Malaspina, Dante si trasferì nel Casentino, poi a Lucca, dove ebbe occasione di ammirare le opere di Nicola Pisano per la cattedrale (presente in mostra il calco della lunetta con la Deposizione dalla Croce, Pisa Museo di San Matteo) e ancora a Forlì nel 1310. Fu qui che probabilmente apprese la notizia della discesa in Italia del nuovo Imperatore Arrigo VII, verso il quale si concentrarono le sue speranze e il sogno di una restaurazione imperiale. Sogno infranto dalla morte del sovrano al cui funerale, nel Duomo di Pisa, presenziò probabilmente anche Dante, che ebbe così occasione di ammirare alcuni dei capolavori assoluti realizzati da Nicola e da Giovanni Pisano. In mostra, tra gli altri, l’effige della Giustizia, commissionato per la tomba di Margherita di Brabante, moglie dell’Imperatore. Le testimonianze di Nicola e Giovanni Pisano affiancheranno in mostra quelle di Arnolfo di Cambio (Galleria Nazionale dell’Umbria) a conferma della preminenza attribuita dal poeta all’arte plastica, come attestano le numerose citazioni contenute nella Commedia.
Dante giunge a Ravenna intorno al 1319, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di San Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal Poeta

La mostra è promossa da Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura – MAR Museo d’Arte della città di Ravenna in collaborazione con La Galleria degli Uffizi.
Con il patrocinio del Comitato per le Celebrazioni dantesche e della Società dantesca e realizzata grazie al prezioso contributo della Regione Emilia Romagna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.

IMMAGINE DI APERTURAManno Bandini da Siena, Statua di Bonifacio VIII, legno e rame dorato, 275x96x34 cm., Bologna, Museo Civico Medievale.

Virtual Tour della mostra “Paolo Roversi – Studio Luce”

Paolo Roversi

La mostra Paolo Roversi – Studio Luce, a cura di Chiara Bardelli Nonino, con le scenografie di Jean-Hugues de Chatillon e con il progetto esecutivo di Silvestrin & Associati, realizzata dal Comune di Ravenna, Assessorato alla Cultura e MAR, con il prezioso contributo di Christian Dior CoutureDauphin e Pirelli, main sponsor, costituisce un’occasione unica per conoscere a fondo il lavoro del grande fotografo ravennate. Dal 1973 Paolo Roversi lavora a Parigi, nel suo atelier in Rue Paul Fort (lo Studio Luce che dà il titolo alla mostra), ma nelle opere esposte sono numerosi i rimandi a Ravenna, città natale e luogo che più di ogni altro ha influenzato il suo immaginario.

CONTINUA LA LETTURA DELLA SCHEDA SUL SITO DEL MUSEO: PAOLO ROVERSI – STUDIO LUCE

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica della pagina di apertura dedicata a Paolo Roversi nel website del Museo

Franz von Stuck – Intensa gioia di vivere e desiderio di passione

di Sergio Bertolami

12 – La ricerca d’inconsueti traguardi espressivi.

Uno striscione sventolava: “Spianare la strada ai giovani talenti!”. Era il 1889, l’anno in cui fu istituito il primo Salone di Monaco al Glaspalast. Non era importante che desse vita a una nuova serie di mostre, quanto che fossero d’arte moderna. Un giovane pittore, fiducioso, inviò per la prima volta i suoi lavori a un evento pubblico. Fra i visitatori i soliti parrucconi accademici scuotevano la testa per disapprovazione. Stavolta, però, Bruno Piglhein, direttore della giuria faceva la differenza e la mostra rivelò, immancabilmente, come quel giovane 26enne, sconosciuto ai più, avesse intravisto una direzione del tutto nuova col suo Guardiano del Paradiso. Grazie a questo dipinto Franz von Stuck assurse a gloria, vinse la medaglia d’oro del Münchener Jahresausstellung 1889 ed anche la notevole somma di 6000 marchi. Non da poco, soprattutto per il figlio di un modesto mugnaio, che si era mantenuto all’accademia disegnando vignette per la rivista umoristica Fliegende Blätter. Sparuti lettori lo conoscevano come disegnatore e come illustratore. Come pittore, però, attirò l’ammirazione di tutti, e più che altro l’attenzione dei critici. La sua opera imponente – 250×167 cm – suscitò meraviglia per l’abilità artistica e la tecnica insolita. L’impasto, simile a smalto dietro la spada infuocata dell’angelo, restituiva lo splendore sensoriale di un paradiso scintillante di rosa, azzurro e giallo. L’opera suscitò scalpore, perché da una parte rompeva con la tradizione – con la pittura allegorica, con la pittura storica, con la popolare pittura Lederhosen di genere contadino – dall’altra non poteva neppure considerarsi aderente ai nuovi movimenti tanto vituperati dall’accademia e lodati dall’avanguardia monacense: il naturalismo o l’impressionismo. Piuttosto, Franz von Stuck sembrava essere più vicino a Böcklin, il maestro di Zurigo, il “pittore dell’anima e della mente”, mentre con un occhio guardava ai preraffaelliti inglesi e ai simbolisti francesi. In effetti, con Arnold Böcklin condivideva affinità interiori: gli aveva schiuso le porte di una bellezza mai immaginata, gli aveva arricchito il mondo di nuovi valori.

Un anno dopo il fortunato debutto, nella seconda mostra di Monaco, quella del 1890, fu ancora un angelo a sconcertare il pubblico. Un angelo caduto. Stuck nel grande Palazzo di vetro delle esposizioni che lo aveva consacrato presentò, infatti, il suo Lucifero. Il demone incarnava il pathos dell’odio. Seduto, con le ali ripiegate, piantava sugli spettatori due occhi verdi, brillanti, vendicativi. Re Ferdinando di Bulgaria, impressionato, nel 1891 acquistò il dipinto per il suo palazzo, e una volta raccontò a Stuck che a corte si facevano il segno della croce quando ci passavano accanto. Raggomitolato Lucifero simboleggiava l’esatto opposto dell’autorevole angelo a guardia delle porte del paradiso. Livido di rancore per il senso di colpa, era ritratto come il genio del male, non certo come il consueto diavolo caprone della tradizione ecclesiastica. Commentava Nietzsche, a ragione, che la figura seduta, con le gambe unite e la mano a coppa sul mento, rammentava indubbiamente uno dei Dannati nel Giudizio Universale di Michelangelo o Il pensatore di Rodin del 1880. Nonostante i consensi unanimi, Stuck aderì alla Secessione di Monaco del 1892, di cui Bruno Piglhein, il suo scopritore al Glaspalast, fu il primo presidente. Il successivo 1893 fu cruciale per la carriera del giovane pittore. Gli fu concesso il titolo di professore e la prima Mostra della Secessione, sostenuta persino dal Principe reggente Luitpold di Baviera, lo rese partecipe di un clamoroso successo. Ora Stuck credeva che fosse finalmente maturato il tempo per ricevere, col dipinto esposto, il riconoscimento decisivo al quale aspirava. Non si sbagliava affatto, perché è il suo capolavoro assoluto. Da quel momento in poi le porte del successo furono definitivamente aperte. A suo merito, occorre aggiungere che sebbene Stuck abbia aderito alla Secessione, rimase sempre in buoni rapporti con i colleghi del Künstlergenossenschaft.

Franz von Stuck, Il peccato (Die Sünde), 1893 olio su tela, 95×60 cm, Neue Pinakothek, Monaco di Baviera

Dopo un angelo paradisiaco e uno caduto, ora non poteva che rappresentare la caduta dell’uomo di fronte alla figura di una donna fatale, dipinta «per farti impazzire». È questo sotteso erotismo, che Thomas Mann descrive nella novella Gladius Dei quando i passanti di Monaco di Baviera rimanevano attratti da una singolare fotografia esposta in una delle vetrine. Inquadrata in una cornice dorata, riproduceva la tela di uno straordinario artista, capace di fondere erotismo e religione. Nell’idea dello scrittore era una Madonna, moderna e priva di convenzioni, dalla femminilità inebriante. Nell’interpretazione di Stuck erano invece Eva e il serpente, che in un tutt’uno incarnavano il senso del peccato. E, infatti, il Peccato s’intitola questo quadro che ha trascinato folle di ammiratori alla Neue Pinakothek, dove l’opera fu installata subito dopo essere stata acquistata. In uno dei suoi libri migliori, L’anno dei bellissimi inganni, il poeta Hans Carossa descrisse così la profonda impressione che questo famoso lavoro produceva sugli spettatori del tempo, come lui. «La fama del dipinto ci ha spinto attraverso le gallerie; non ci fermammo da nessuna parte e aprimmo gli occhi solo quando finalmente ce lo trovammo di fronte. Era esposto su di uno speciale cavalletto nella sua ampia e monumentale cornice d’oro, […] e ora fissavamo la notte dei capelli e del serpente, che non lasciavano scorgere troppo il pallido corpo femminile. Il viso in ombra con il bianco-bluastro degli occhi scuri inizialmente mi parve passare in second’ordine rispetto alla lucentezza metallica del serpente attorcigliato, con la sua testa malvagia e ben delineata e l’opaca orditura a scacchi del dorso, su cui una delicata linea blu correva come una cucitura. […] Ci sono opere d’arte che rafforzano il nostro senso di comunità, e ce ne sono altre che ci seducono nell’isolamento. La pittura di Stuck apparteneva a quest’ultimo gruppo».

Il dipinto “Il Peccato” nello studio di Franz von Stuck (photograph Stadtmuseum, Munich)

Non stiamo parlando solo di un quadro dalla cornice dorata, ma di una vera e propria installazione imponente, con due colonne doriche che conferiscono sacralità. Quest’aura di venerabilità fu ulteriormente riproposta da Stuck nel suo atelier, quando montò una seconda versione del Peccato come un “altare dell’arte”, dove nell’ordine sottostante pose a sinistra la scultura di una Ballerina (l’eternamente femminile) e a destra un Atleta (la virile mascolinità). Tra le due, la testa di un bambino, a personificare l’innocenza. In seguito, scrive Edwin Becker, Stuck inserì alcune conchiglie Nautilus, che in quanto a simboli erotici non lasciavano nulla all’immaginazione. Il dettaglio piccante era che l’altare stava proprio di fronte alla camera delle modelle, che amava fotografare nella loro nudità.

Amazzone ferita, 1904, firmato in basso a destra: Franz Stuck 1904
Van Gogh Museum, Amsterdam
Voss 264/201, Mendgen p. 44-47, fig. p. 47, battaglia dei sessi n. 36

L’atelier storico di Stuck si trovava all’interno della sontuosa villa che, a soli trentacinque anni, poté edificare al n. 60 della Prinzregentenstraße. Questo dà la misura dell’enorme successo dell’artista. Stuck concepì personalmente la villa nel 1897/98 e, sempre su suo disegno, nel 1914/15 fece aggiungere un nuovo edificio-studio prospiciente il giardino interno, una combinazione di modelli pompeiani con opere d’arte moderna. Nel 1928, poco prima della sua scomparsa, già reputato il “principe pittore degli artisti”, fu insignito honoris causa anche del titolo di architetto dall’Università Tecnica di Monaco. Stuck ideò l’immagine architettonica della villa, ispirandosi al quadro di Böcklin La villa sul mare, e per le decorazioni interne, per i mobili che disegnò appositamente, per le opere d’arte che la impreziosivano, ricevette una medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Così come era stato premiato, sempre con una medaglia d’oro, alla Esposizione Mondiale di Chicago nel 1893, quando aveva fatto conoscere il nuovo corso artistico della Secessione di Monaco. Non erano formali questi premi, ma il riconoscimento di una svolta vera. Basti pensare che il principio fondamentale di questa villa d’artista è l’opera d’arte totale nella quale trovano accordo fra loro l’esistenza, la natura, le arti e l’architettura, la musica e il teatro. Dal 1992 Villa Stuck è diventata il terzo museo della città di Monaco: luogo aperto a tutti i visitatori, con una collezione permanente di opere di Franz von Stuck ed esposizioni temporanee sulle arti applicate del XX secolo, fonte d’ispirazione artistica e opportunità di scambio museale.

Prospetto principale di Villa Stuck

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Virtual Tour: la Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù agli Uffizi

VIRTUAL TOUR

“Ogni anno con la Pasqua i Cristiani celebrano la Resurrezione di Cristo, ovvero il trionfo della Vita sulla Morte, promesso da Gesù nel corso della sua predicazione. È il momento conclusivo dell’intero ciclo della Passione, il più commovente e drammatico del racconto evangelico, una parabola che passa, in una escalation di sofferenza fisica e psicologica, attraverso il tradimento, la tortura, la derisione, la mortificazione e il pubblico ludibrio, infine la morte: l’estremo sacrificio che, secondo laTradizione cristiana, salva l’uomo da tutti i peccati”.

CONTINUA LA LETTURA SEGUENDO L’APPASSIONANTE PERCORSO IN MOSTRA NEL SITO DEGLI UFFIZI

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Van der Weyden, compianto su Cristo morto (Fonte Wikipedia)

Dodici capolavori presenti nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi, realizzati tra il Medioevo e l’Ottocento, raffiguranti i più significativi episodi della Passione e Resurrezione di Cristo. Sono questi i dipinti della selezione utilizzata per celebrare la con una spettacolare mostra virtuale. Li enumeriamo: l’Ultima cena di Leandro Bassano (Palazzo Pitti, Galleria Palatina), l’Ecce Homo di Tiziano, (Palazzo Pitti, Galleria Palatina), l’Ecce Homo di Antonio Ciseri, (Palazzo Pitti, Galleria Arte Moderna), la Crocifissione di Agnolo Gaddi (Galleria degli Uffizi), il Crocifisso con la Maddalena di Luca Signorelli (Galleria degli Uffizi), il Cristo nell’orto degli ulivi di Perugino (Galleria degli Uffizi), la Predella con le Scene della Passione di Luca Signorelli (Galleria degli Uffizi), la Deposizione di Ludovico Cigoli (Galleria Palatina, Palazzo Pitti), la Pietà di San Remigio di Giottino (Galleria degli Uffizi), il Trasporto di Cristo al sepolcro di Antonio Ciseri (Galleria di Arte Moderna), la Deposizione nel Sepolcro di Rogier Van der Weyden (Galleria degli Uffizi), la Resurrezione di Rubens (Galleria Palatina), il Cristo Risorto di Tiziano (Galleria degli Uffizi).

IMMAGINE DI APERTURA – Antonio Ciseri, “Ecce homo”, 1891. Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti – Gallerie degli Uffizi (Fonte Wikipedia)

Piacenza – A palazzo Farnese si alza il velo sulla nuova ‘sezione romana’ dei musei civici

PIACENZA – SABATO 10 APRILE 2021
A PALAZZO FARNESE SI ALZA IL VELO SULLA NUOVA ‘SEZIONE ROMANA’ DEI MUSEI CIVICI

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Fegato di Piacenza – fine II prima metà I sec. a.C. – foto Carlo Vannini

Da sabato 10 aprile 2021, i Musei di Palazzo Farnese a Piacenza si presenteranno ancora più belli.

Dopo l’apertura della collezione di ceramiche, avvenuta nel novembre 2019, nei sotterranei riqualificati di Palazzo Farnese, si alza il velo sulla nuova Sezione Romana del Museo Archeologico, che aggiunge un importante tassello alla conoscenza del passato di Piacenza.

Il progetto di restauro e rifunzionalizzazione dei sotterranei di Palazzo Farnese e l’apertura della nuova sezione archeologica romana sono stati possibili grazie ai fondi europei stanziati dalla Regione Emilia-Romagna nelle linee di finanziamento Por-Fesr 2014 -2020 Asse 5, a cui il Comune di Piacenza ha aggiunto ulteriori proprie risorse; coordinato da un Comitato Scientifico, il progetto è stato realizzato in stretta e costante sinergia con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza.

Sono circa 1200 i reperti che i visitatori potranno apprezzare per la prima volta e attraverso i quali ripercorrere gli eventi che hanno caratterizzato la storia di Placentia romana, dalla sua fondazione nel 218 a.C. sino all’insediamento dei Longobardi nel VI secolo d.C.

Il percorso, suddiviso in quindici sale, secondo un’impostazione tematica e didattica, si apre con un inquadramento territoriale e cronologico dell’epoca, nel quale si dà spazio alle scoperte e alla metodologia archeologica e si conclude con un video che ripercorre le tappe più significative della storia della città.

Diversi sono i temi affrontati: le preesistenze nel territorio piacentino prima della colonizzazione romana; la fondazione, la forma urbis e le istituzioni della nuova città romana; l’economia, i commerci, la produzione e il ruolo del fiume Po; l’edilizia residenziale e la vita quotidiana; i culti e gli edifici religiosi; i monumenti funerari e le necropoli; la fine del mondo romano e il passaggio all’alto-medioevo.

All’interno della Sezione Romana si ritrovano alcune eccellenze, come il celebre Fegato di Piacenza o l’imponente statua panneggiata firmata dallo scultore ateniese Kleoménes, entrambe valorizzate dal nuovo allestimento, oltre ad alcuni importanti reperti inediti in grado di restituire il volto della città e di ricostruire la vita nella Placentia romana.

Tra questi uno straordinario letto funerario, ricostruito in legno e con un rivestimento in osso bovino di gusto ellenistico, che faceva parte degli arredi della tomba rinvenuta nella zona di Cantone del Cristo durante gli scavi per la costruzione di un nuovo reparto dell’ospedale Guglielmo da Saliceto e le Antefisse, ovvero gli elementi decorativi finali delle tegole dei templi, di cultura ellenistico-orientale, rinvenute nel 1947 e nel 2000, che hanno permesso di ricostruire l’apparato ornamentale di un tempio, probabilmente posto nella parte settentrionale di Piacenza colonia romana.

Nella sala dedicata alla domus romana si possono ammirare eleganti mosaici pavimentali e oggetti di uso quotidiano, come frammenti di mobilio e lucerne, strumenti per la scrittura, balsamari per unguenti e profumi, contenitori per il trucco e ornamenti personali, attrezzi per la cura della casa, la filatura e la tessitura, resti dei giochi da tavolo, tra cui una scacchiera del II-III secolo d.C. in terracotta.

Anche i monumenti funebri testimoniano con la loro dimensione e la ricchezza degli apparati il rango dei defunti; ad esempio, è esposta una Sfinge alata, elemento decorativo di un monumento funerario a edicola, sicuramente appartenuto a una famiglia eminente.

Interessanti anche i reperti dell’ultima sala che testimoniano il passaggio della città alla dominazione longobarda, tra cui un tremisse in oro – moneta del tardo impero romano – coniato a Piacenza tra il 712 e il 744 durante il regno di Liutprando.

La nuova Sezione Romana del Museo archeologico di Palazzo Farnese è parte del progetto di Piacenza 2020/21, il calendario di eventi culturali, promosso dal Comune di Piacenza, dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi Piacenza-Bobbio, dalla Camera di Commercio di Piacenza.

IMMAGINE DI APERTURA – Mosaico con cigni e lira, particolare – fine I sec. a C. – inizi I sec. d.C – foto Carlo Vannini

Viviana Saitto – Stanze per fare l’amore. Illusione e seduzione in quattro interni

Viviana Saitto è Architetto, PhD e Assegnista di Ricerca in Architettura di Interni e Exhibition Design presso il Dipartimento di Architettura (DiARC), Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Con questo saggio ci propone quattro noti interni del Novecento che dimostrano come la seduzione sia lo spazio del gioco, dell’illusione e della sfida. La camera per fare l’amore di Ettore Sottsass e gli spazi dedicati al riposo di Casa Devalle di Carlo Mollino a Torino, di Casa Ottolonghi di Carlo Scarpa a Bardolino e di Villa Savoye di Le Corbusier a Poissy, sono progettati per se-ducere, condurre in disparte, sono lo specchio dell’inconscio e del desiderio.

CONTINUA A LEGGERE SU ACADEMIA.EDU (OPPURE SCARICA IL SAGGIO):
Viviana Saitto, “Stanze per fare l’amore. Illusione e seduzione in quattro interni del Novecento”, in Firenze Architettura, n. 1, 2019

IMMAGINE DI APERTURA – Immagine tratta dalla copertina della rivista

Stefano Boccalini: La ragione nelle mani, un progetto che nasce dal rapporto con la Valle Camonica

Ginevra, Maison Tavel/Musée d’Art et d’Histoire
La ragione nelle mani – Una mostra di Stefano Boccalini
dal 1° aprile al 27 giugno 2021
Un progetto del Distretto Culturale della Comunità Montana di Valle Camonica vincitore del bando di arte contemporanea Italian Council e di Art for the World Europa
A cura di Adelina von Fürstenberg

di Stefano Boccalini

La realizzazione del progetto è stata resa possibile grazie al sostegno delle istituzioni che hanno creduto nel mio lavoro, a cominciare dal MiBACT – Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo che, attraverso l’ottava edizione dell’Italian Council, ha individuato La ragione nelle mani tra i progetti da finanziare. Non meno importante è stato il ruolo giocato dalla Comunità Montana di Valle Camonica, che ha cofinanziato il progetto e che, insieme ad ART for The World Europa, ne è stato l’ente proponente.

L’idea del progetto nasce dal rapporto che sto costruendo con la Valle Camonica a partire dal 2013: in quell’anno ero stato invitato nella valle da Giorgio Azzoni, direttore artistico di aperto_art on the border, manifestazione di arte pubblica che mette in rapporto l’arte contemporanea con il territorio camuno, promossa dalla Comunità Montana di Valle Camonica attraverso il Distretto Culturale. Ero stato invitato a partecipare a una residenza per produrre un lavoro che, ispirandosi al tema dell’acqua, riuscisse a legarsi al territorio. La residenza è durata qualche settimana, un tempo che mi ha dato l’opportunità di scoprire un luogo a me non del tutto sconosciuto ma che avevo frequentato fino a quel momento solamente da turista. Questo spostamento di sguardo è stato fondamentale, e negli anni la Valle Camonica è diventata un punto di riferimento per il mio lavoro: qui ho lavorato con varie comunità, con le istituzioni locali e con gli artigiani, con cui ho creato uno stretto rapporto di collaborazione e di scambio che mi ha permesso di produrre numerose opere.

L’energia che si è creata intorno a queste relazioni sta portando all’apertura di un Centro di Comunità per l’arte e l’artigianato della montagna. Ca’Mon, così si chiamerà questo spazio, avrà sede nel vecchio asilo in fase di ristrutturazione a Monno, un piccolo paese dell’alta valle che conta circa cinquecento abitanti. Il progetto nasce anche dal lavoro che aperto_art on the border ha portato avanti negli anni;un lavoro che, rispetto al territorio, focalizza l’attenzione sui saperi artigiani e che è stato possibile grazie alla Comunità Montana, al Comune di Monno e alla Fondazione Cariplo. Ca’Mon, di cui mi è stata affidata la direzione artistica, diventerà un centro di scambio tra saperi intellettuali e saperi manuali: ospiteremo in residenza artisti e più in generale autori e ricercatori, per attivare un confronto con il territorio e il suo patrimonio culturale materiale e immateriale. Ca’Mon non sarà solo questo, il centro diventerà anche un luogo dove le comunità potranno riconoscersi e dove sarà possibile riportare alla luce tutti i temi legati al passato, utili alla costruzione del futuro e momentaneamente messi in disparte, che qui potranno trovare le condizioni per rigenerarsi e assumere nuove forme: si apre la possibilità per un laboratorio permanente di sperimentazione e di ricerca che, a partire da una condizione locale, vuole contrapporre la cultura delle diversità e delle biodiversità all’omologazione cui tende la società contemporanea dominante. In questa logica sono già stati attivati alcuni campi sperimentali di lino e canapa, colture che in passato caratterizzavano il paesaggio della valle e che, lavorate e trasformate, entravano a far parte della quotidianità, esattamente come oggi potrebbero aprire la strada a nuove possibilità di sviluppo. Ca’Mon sarà anche un luogo di formazione, dotato di spazi adibiti a laboratorio dove lavoreranno artigiani, artisti e giovani della valle. L’obiettivo è la trasmissione dei saperi, secondo una logica di condivisione per cui le tradizioni non assumono un senso nostalgico ma diventano la porta di accesso al futuro, un “luogo” di sperimentazione per immaginare nuovi scenari.

Questo è il contesto in cui prende forma La ragione nelle mani, un progetto che si muove su due livelli, quello del linguaggio e quello dei saperi artigianali, attraverso il coinvolgimento della comunità locale. Tutti i sette manufatti che compongono l’opera complessiva intitolata La ragione nelle mani sono stati realizzati in Valle Camonica da quattro artigiani e artigiane, affiancati/e ognuno da due giovani apprendisti/e. Le “allieve” e gli “allievi” – per un totale di otto – sono stati selezionati/e attraverso un bando pubblico, promosso dalla Comunità Montana e rivolto ai giovani della valle interessati a confrontarsi con pratiche artigianali appartenenti alla tradizione camuna: la tessitura dei pezzotti, l’intreccio del legno, il ricamo e l’intaglio del legno.

La signora Gina Melotti di Monno è rimasta una delle ultime persone della valle a mantenere viva la tecnica della tessitura dei pezzotti realizzati con telai manuali, tappeti che si ottenevano riciclando indumenti lisi e non più utilizzabili, tagliati a piccole strisce poi tessute al telaio. In passato, quasi ogni famiglia in paese possedeva un telaio e Monno era rinomato per la qualità della sua produzione.

Amerino Minelli, anche lui abitante di Monno, intaglia sapientemente il legno, una tecnica antica di cui conosce i segreti. Lavorazione caratteristica di molte zone montane, l’intaglio del legno nella Valle Camonica vanta una secolare tradizione che ha lasciato traccia sia nell’ingente patrimonio storico-artistico, nella lavorazione degli altari, delle sculture e delle decorazioni sacre delle chiese barocche sia nella pratica quotidiana di contadini e pastori.

Ancora a Monno, Ester Minelli porta avanti una tradizione che non appartiene soltanto alla valle ma che si può considerare un patrimonio della cultura manuale. Tecnica di ricamo usata soprattutto per ornare tende, vestiti, biancheria per la casa, corredi nuziali, il “punto a intaglio” è un tipo di lavorazione raffinata che richiede precisione, abilità e tempo.

In Valle Camonica sono rimasti in pochi ad intrecciare il legno e una di queste persone è Alessandro Sandrini di Temù, un paese dell’alta valle. Con grande passione, Sandrini continua a realizzare cestini e gerle insieme ad altri oggetti che nel tempo sono diventati parte della sua produzione. Il legno che utilizza maggiormente è il nocciolo, un materiale che garantisce l’elasticità necessaria a questo tipo di lavorazione e che è possibile reperire sul territorio.

Queste forme artigianali, che storicamente ricoprivano una funzione di primaria importanza nel tessuto sociale e culturale della Valle, oggi faticano a resistere ai cambiamenti imposti dalla modernità, sono relegate ai margini e pochi ne conoscono ancora le antiche tecniche. Queste tecniche continuano a sopravvivere ma stentano a creare nuove economie, nuove risorse, quando invece potrebbero offrire l’opportunità a molti giovani di costruire un futuro all’interno delle proprie comunità, investendo sul territorio senza dovere per forza trasferirsi altrove per lavorare. Il senso del recupero delle tradizioni artigianali non risiede nella riproposizione di modelli non più sostenibili ma nel ripartire da quei modelli per acquisire nuove consapevolezze e spostare lo sguardo verso inedite visioni. Ripartire da una condizione locale come possibile modello di sviluppo ci permette di guardare alle “diversità” che il territorio sa esprimere, così come alla ricchezza che la condizione locale stessa offre, uno spazio progettuale dentro il quale costruire nuove forme di lavoro da contrapporre a quel sistema produttivo, omologante, che ci viene perlopiù imposto. 

Viviamo in un’epoca in cui le parole sono diventate un vero e proprio strumento di produzione e di captazione di valore economico e hanno assunto una dimensione sempre più importante all’interno del contesto sociale. Attraverso il loro uso cerco di ridare un peso specifico e un valore collettivo al linguaggio, che per me è il “luogo” dove le diversità assumono un ruolo fondamentale, diventando il mezzo con cui contrapporre al valore economico il valore “del comune”.

La ragione nelle mani ha preso il via con un laboratorio che ho condotto insieme alle operatrici della Cooperativa Sociale il Cardo di Edolo e che ha coinvolto tutti i bambini e le bambine di Monno. A loro ho raccontato il significato di circa cento parole intraducibili che sono presenti in molte lingue, parole che non possono essere tradotte perché non hanno corrispettivi in grado di rispondere alla complessità del loro significato e che possono essere quindi solamente spiegate. Le parafrasi non possono restituire la vera essenza di queste parole, molte delle quali arrivano da lingue minoritarie che a stento resistono all’uniformazione. Nel rischio della loro scomparsa vi è la cancellazione permanente della ricchezza di quella biodiversità linguistica che queste parole intraducibili hanno la capacità di esprimere in modo così efficace. Insieme ai bambini e alle bambine di Monno abbiamo scelto circa venti parole [1] che parlano del rapporto tra essere umano e natura e delle relazioni tra gli esseri umani stessi: abbiamo approfondito queste riflessioni attraverso una serie di attività, toccando vari aspetti della loro creatività. Ho poi sottoposto queste stesse parole allo sguardo degli artigiani e delle artigiane per capire con loro quali potessero essere le più adatte a essere trasformate dalle loro sapienti mani. Ne abbiamo scelte nove ­– anshim, balikwas, dadirri, friluftsliv, gurfa, ohana, orenda, sisu, ubuntu ­– che sono diventate il materiale su cui hanno lavorato insieme ai giovani apprendisti. Si è arrivati così alla realizzazione di un’opera composta da sette manufatti, che sarà presentata in mostra per la prima volta presso il Museo Tavel di Ginevra – dove sarà messa in relazione con la storia di una città che fin dai passati secoli ha mantenuto una particolare attenzione alla dimensione della parola. L’opera, inoltre, entrerà a far parte della collezione della GAMeC – Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. Il risultato di tutto questo lavoro non è rappresentato solamente dalle opere ma anche dal processo che ha portato alla loro costruzione, un processo che ha rimesso in circolo le conoscenze e le pratiche legate alla tradizione della valle con nuove prospettive e consapevolezze.


[1] Anshim, aware, ayurnamat, balikwas, cwtch, dadirri, fargin, friluftsliv, gurfa, hygge, itadakimasu, karelu, lagom, livsnjutare, mepak, naz, niksen, nunchi, ohana, orenda, sisu, ubuntu.

Mani che intagliano il legno

Nove parole scelte

ANSHIM (coreano) – Avere l’anima in pace. Sentirsi in armonia con sé stessi e con il mondo. La sensazione che si prova quando si raggiunge un certo tipo di consapevolezza, quando si sa riconoscere e accettare le proprie emozioni, qualunque esse siano, qualunque stimolo le abbia scatenate.

BALIKWAS (Tagalog, Filippine) – Abbandonare la propria zona di comfort, dubitare delle certezze, cambiare il proprio punto di vista, vedere le cose in modo diverso e nuovo, così si possono raggiungere risultati sorprendenti.

DADIRRI (Ngangiwumirr, lingua aborigena, Australia) – È la quieta contemplazione e l’ascolto profondo della natura e del creato, la pace con sé stessi e con le altre creature. Nella piena coscienza della bellezza che ci circonda, in armonia con i ritmi della giornata, della natura. In sintonia con l’attimo.

FRILUFTSLIV (Norvegese) – È un’esperienza di vera connessione con l’ambiente, grazie alla quale una persona si sente a casa quando è in mezzo alla natura selvatica, anche in luoghi in cui non è mai stata. E’il ritorno al legame biologico originario tra l’uomo e l’ambiente tramite la risintonizzazione con i ritmi naturali, una visione del mondo non antropocentrica.

GURFA (Arabo) – In arabo si chiama gurfa la quantità d’acqua che si può tenere nel palmo di una mano. È una sorta di unità di misura metaforica che indica qualcosa di molto prezioso che è necessario proteggere e conservare.

OHANA (Hawai) – Ohana significa famiglia, famiglia significa che nessuno viene abbandonato o dimenticato, ma per famiglia non si fa riferimento solamente ad un legame di sangue ma anche ai rapporti di amicizia.

ORENDA (Urone, Wyandot popolazioni indigene nordamericane) – È la capacità della volontà umana di cambiare il mondo anche contro un destino avverso, ma è anche una benedizione: permette a chi ne è dotato di sfidare gli eventi avversi e superarli. 

SISU (finlandese) – È una sorta di coraggio quotidiano, di grinta, di determinazione che aiuta ad affrontare le sfide, piccole o grandi, che la vita ci pone. Non è la ricerca della felicità che è un momento effimero, ma la ricerca del benessere.

UBUNTU (Nguni Bantu, lingua dell’africa meridionale) – È un’espressione che indica “benevolenza verso il prossimo”, una regola di vita, basata sul rispetto dell’altro, significa sentirsi parte di una grande comunità. Sono chi sono in virtù di ciò che tutti siamo. Essenzialmente significa: io posso essere io solo attraverso voi e con voi.

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IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica sul significato della parola scelta nell’opera di Stefano Boccalini “La ragione nelle mani – Sisu“, 2020, lana cotta, Pezzotti (tappeti), misure: 60 x 120.