Roma: webinar – Le sfide dell’Iran contemporaneo

Le sfide dell’Iran contemporaneo
04/06/2021 -16:00 –18:00
Webinar su piattaforma zoom.
Per partecipare scrivere – entro il 2 giugno – a:

info@vision-gt.eu

Partecipano:

  • Prof. Pejman Abdolmohammadi – Università di Trento
  • Amb. Alberto Bradanini – già ambasciatore Iran, saggista
  • Prof. Giampiero Cama – Università di Genova
  • Prof. Carlo Giovanni Cereti – La Sapienza Università di Roma
  • Dr. Tiberio Graziani – Vision & Global Trends

Nel corso del webinar sarà presentato il volume “Contemporary Domestic and Foreign Policies of Iran” di P. Abdolmohammadi (Università di Trento) e G. Cama (Università di Genova)

Il webinar è organizzato da Vision & Global Trends -International Institute for Global Analyses
in collaborazione con: 
Scuola di Studi Internazionali (Università di Trento)
•Dipartimento di Scienze Politiche (Università di Genova)

Storia del negozio che ha identificato l’Art Nouveau in Italia

di Sergio Bertolami

19 – Arthur Lasenby Liberty seguace di William Morris

Le trasformazioni artistiche o letterarie sono quasi sempre lente, mai lineari, né assolute. Neppure sotto il profilo temporale, per cui leggere su qualche testo che lo Stile Liberty ebbe inizio nel 1890 dovrebbe far sorgere qualche comprensibile dubbio. Questo perché, se il termine Liberty fu usato in Italia in riferimento ai magazzini londinesi di Arthur Lasenby Liberty, occorrerebbe considerare anche che tali magazzini furono aperti nel 1875. Ancora prima di Liberty, fu William Morris a ideare the Firm nel 1861, influenzato dalle idee di Augustus Pugin e John Ruskin che occorresse contrastare il pressappochismo dell’industria nascente e tornare all’artigianato e al lavoro manuale degli artisti medievali. Non erano che influssi di un radicato romanticismo. Riflettiamo, però, che erano anche gli anni in cui si cominciavano a brevettare le prime “carrozze a vapore”, quelle che noi chiamiamo automobili, per farle circolare sulle strade comuni e non solo su strade ferrate. Al contrario William Morris avrebbe voluto piantare una bella frenata all’industria nascente. Fondò la confraternita dei Preraffaelliti e con alcuni di questi – Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall ­– aprì la sua impresa per produrre artigianalmente carte da parati, tessuti chintz (quelli che in Francia s’imporranno col nome di toile de Jouy), tappeti, piuttosto che mobili, vetri o metalli. Il tutto con la speranza di ripristinare la decorazione, quale una delle belle arti. Nondimeno, a ben riflettere, l’opera di Morris non si identificò in tutto e per tutto con la storia della sua ditta commerciale. Più che da imprenditore, in quanto critico d’arte, pubblicista, pittore, decoratore e grafico, fu il tenace assertore di alcune idee che ritroveremo sempre più mature nel corso della prima metà del Novecento. Fra tutte: la diffusione di manufatti semplici e corretti in un mercato in evoluzione soggetto invece alla routine meccanicistica del tempo, la distinzione degli elementi strutturali e dei materiali, una produzione che premiasse le competenze tecniche ed estetiche degli artigiani manifatturieri. Sono questi alcuni dei principi ideali, che ritroveremo nella coscienza critica della moderna rivoluzione artistica, della quale sto provando ad accennare sommariamente il percorso.

Uno dei cataloghi della società di William Morris
The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra

Arthur Lasenby Liberty non era lontano dalle idee di William Morris e dal suo movimento delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri); ma, differentemente da lui, non demonizzava affatto la meccanizzazione in ascesa. Questo fu l’elemento che lo portò al successo, perché non aveva soltanto gusto, ma anche il fiuto negli affari. Non appena i porti giapponesi ripresero a commerciare con l’Occidente, dal 1853, in Europa si diffuse una considerevole varietà di prodotti fino ad allora conosciuti da pochi estimatori. Tra questi, sete, porcellane, ventagli e kimono, stampe da blocchi di legno in stile Ukiyo-e. «Il desiderio di possedere oggetti giapponesi – scriveva Christopher Dresser, tra i maggiori interpreti del movimento di Morris – si diffuse con l’apertura dell’Esposizione Internazionale del 1862, e di lì a breve i nostri commercianti iniziarono ad interessarsi alla produzione di questi strani oggetti come articoli commerciali». Nel 1874, dopo oltre una decina d’anni di servizio presso la Farmer & Rogers, al rifiuto di essere nominato partner della fiorente attività alla quale aveva contribuito, Arthur Lasenby Liberty decise di aprire un esercizio commerciale in proprio. Si fece prestare poco più di 2.000 sterline dal futuro suocero e affittò solo mezzo negozio al n° 218 di Regent Street, nel nascente West End di Londra. Il negozietto del trentaduenne Liberty mostrava già dall’insegna East India House (Casa dell’India orientale) che vi si vendevano articoli d’importazione, come sete d’arredamento, tappezzerie, oggetti decorativi e d’arte, provenienti dalle Indie, dal Giappone e dall’Estremo Oriente. Non passarono che diciotto mesi, per essere in grado di rimborsare il prestito e acquisire pure la seconda metà del magazzino di Regent Street. Fu così anche per gli anni successivi, perché man mano che l’attività cresceva, continuò ad acquistate e aggiungere, di proprietà in proprietà, anche i locali attigui. Le idee non mancavano. Sostenitore di un design conveniente in quanto a prezzo, ma distintivo per la qualità, non solo importava articoli, ma si rivolgeva anche a piccoli industriali per produrre mobili, articoli per la casa e tessuti pregiati. Strinse accordi per commercializzare tessuti prodotti in serie limitate, abbattendo i prezzi di vendita rispetto a quelli tradizionalmente fatti a mano. Per questo motivo, Liberty prese a pubblicare, dal 1881, cataloghi che presentavano sete pregevoli per varietà di colore, stampa e peso. I Liberty Art Fabrics divennero largamente ricercati ed imitati. I coloranti all’anilina, usati nella filiera industriale, in questi tessuti d’arte artigianali furono scartati a favore dei coloranti naturali; furono, inoltre, enfatizzate la classicità dei disegni e l’irregolarità della tessitura, che evidenziavano la produzione artigianale. Le sete Mysore di Liberty, per esempio, erano tessute a mano in India, prima di essere tinte e stampate a mano in Inghilterra, e infine promosse come «riproduzioni esatte di antiche stampe indiane».

Arthur Lasenby Liberty ritratto da Arthur Hacker (1913)

Nel 1884 Liberty introdusse il reparto “costume”, diretto da Edward William Godwin, rinomato architetto e fondatore della The Costume Society. Insieme crearono capi di abbigliamento per sfidare la concorrenziale moda parigina. L’anno successivo acquisì anche i locali di Regent Street al n°142-144 per soddisfare la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu riorganizzato per dare vita al Bazar Orientale, con ampia esposizione di oggetti d’arredo decorativi. Il negozio divenne il ritrovo di Londra dove incontrarsi per fare gli acquisti alla moda, il luogo in cui vedere ed essere visti, dove s’incontravano uomini e donne dal gusto raffinato ed anche personaggi importanti. Qualificavano il negozio, all’attenzione del pubblico, scrittori di grido come Oscar Wilde o artisti ammirati come il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, alla ricerca di sete per drappeggiare le modelle dei suoi dipinti. A novembre del 1885, Liberty – con l’evidente obiettivo di promuovere il suo settore di oggetti d’antiquariato e curiosità orientali – mise in scena un “villaggio vivente” con quarantacinque abitanti fatti venire da un vero villaggio indiano. «Saranno impegnati solo per quattro ore di lavoro al giorno, e dovranno esibirsi in tutte le attrazioni di Londra» precisava The Times of India. Agli uomini erano offerte 75 rupie al mese, 25 alle donne, per sei mesi di presentazioni nel villaggio allestito da Liberty, con la possibilità di un rinnovo dei contratti, un pubblico di alta qualità – persino la regina Vittoria – e l’aspettativa di ricevere mance da parte degli spettatori. Fu il primo dei bellissimi set giapponesi, francesi, inglesi, messi in scena nel corso degli anni. l’Illustrated London News elogiava: «Presenta in un piccolo spazio una varietà di industrie indù tipiche, ed è popolata da quarantacinque indigeni provenienti da diversi distretti dell’India, di diverse caste e credo. Entrando nel villaggio, le cui case sono rappresentazioni accurate dell’architettura indiana, lo sguardo viene catturato dai colori variegati e brillanti dei tessuti e dei costumi orientali». Una mescolanza di culture indiane che lasciavano le pagine dei periodici illustrati per comparire, grazie a personaggi in carne e ossa, nel negozio del signor Liberty: ballerini, acrobati, musicisti, lottatori, prestigiatori, soprattutto filatori di seta, tessitori, intagliatori di legno di sandalo, ricamatori, orafi e argentieri. Un artigiano costruiva davanti agli spettatori il suo sitar, un grande liuto indiano da suonarsi con un plettro. «Una delle occupazioni più interessanti – descriveva ancora l’Illustrated London News – è quella del vasaio, che, con la sua ruota di tipo antico e le sue dita, plasma una varietà di articoli di bella simmetria, anche se di semplice carattere».

East India House, negozio di Arthur Lasenby Liberty su Regent Street

A partire dagli anni Novanta, Liberty incentivò il lavoro di artisti e artigiani come Christopher Dresser, Rex Silver, Frederickl James Patridge, Richard Lethaby. Fra questi, Birmingham William Hassler e il famoso Archibald Knox erano specializzati argentieri. Le influenze degli stili suscitati dalle Arts and Crafts non tardarono ad imporsi e a svilupparsi. È, infatti, tra le fila di questo movimento che troviamo i primi artisti Art Nouveau. Fra di loro si svilupperà quell’interesse per la natura, quel gusto floreale, che contraddistinse ovunque gli artisti dell’Art Nouveau. Non meraviglia, dunque, se persino oltre Oceano il New York Mail decantava: «Vaghi per le numerose stanze del loro grande magazzino come in un sogno incantato». Un sogno che si riverberò in Italia quando nel 1902 aprì i battenti la grande Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino. La Mostra «antesignana sempre di ogni idea di Libertà e Progresso» fu espressamente progettata in chiave moderna. Il suo scopo era esplicito sin dalle notifiche iniziali: «Saranno ammessi solo prodotti originali che mostrano una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma. Non saranno accettate mere imitazioni di stili passati, né prodotti industriali non ispirati da un senso artistico». Alla Esposizione d’Arte Decorativa si aggiunsero altre mostre particolari. Una Esposizione Internazionale di Automobili: la FIAT era stata fondata tre anni prima ed esponeva, fra l’altro, un’automobile che percorse i 847 chilometri della linea Torino-Firenze-Roma in un tempo eccezionale: 21,30 ore consecutive. Una Mostra di Fotografie artistiche e l’Esposizione Quadriennale di Belle Arti. Tutte queste Esposizioni, come specificava il catalogo, trovarono posto nello stesso recinto situato nel vastissimo Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po.

Manifesto dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902), di Leonardo Bistolfi

Nella stessa pagina di apertura del catalogo è possibile leggere: «Spiriti rivoluzionari, menti di poeti, male si adattano gli Artisti alle viete forme che li obbligano a copiare, mentre in essi innato è l’istinto del creare. E non mancava certo ragione alla loro aspirazione. Ogni età ebbe il suo stile, manifestazione e prova della civiltà che rappresenta, così abbiamo lo stile Egiziano, il Greco, il Cristianesimo, il Rinascimento, il Barocco ed il Napoleonico, rappresentanti tutti una evoluzione del pensiero adatto a civiltà dei tempi in cui si esplicava e veniva creato. A ragione dunque essi anelavano dare un’impronta propria allo stile dell’età presente. Spontaneamente, dalle più variate regioni, innumeri Artisti esplicavano il loro pensiero rappresentandolo con lavori che diedero certo segno che i tempi erano maturi per una ardita innovazione». Per incoraggiare questa grande rivoluzione moderna, il compito di allestire una Esposizione unitaria fu affidato al «bravissimo D’Aronco, architetto del Sultano di Turchia». Raimondo D’Aronco, che aveva sempre alternato la progettazione con l’insegnamento – prima all’Accademia di Carrara, poi a Cuneo, a Palermo, e infine all’Università di Messina – dal 1893 lavorava in Turchia, dove, in seguito al terremoto di Istanbul del 1894, fu architetto-capo per la ricostruzione della città. Con i padiglioni per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, contribuì alla diffusione della popolarità dell’Art Nouveau in Italia. Del suo lavoro, scrive Pieter van Wesemael (in Architecture of Instruction and Delight) che nella storia delle Esposizioni universali, l’unica mostra dedicata esclusivamente a un solo stile artistico fu proprio quella di Torino, segnando il successo dell’Art Nouveau in Italia. O meglio dell’arte Liberty come da noi fu chiamata quest’Arte Nuova.

Guida dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

Naturalmente nel catalogo della Mostra torinese non si parla di un’arte la cui risonanza deve ancora esplodere fra il largo pubblico. Né si fa il nome di Arthur Lasenby Liberty, giacché non si elencano gli espositori commerciali, ma soltanto i padiglioni nazionali e la rassegna delle opere d’arte ufficiali. Proviamo a dare un’occhiata, scoprendo quali erano gli interessi del tempo, i personaggi in vista, le opere poste all’attenzione. Comprenderemo che ogni epoca ha i propri miti, allora come oggi: «A sinistra l’ingresso alle altre sale della Mostra inglese. Esaminiamo in questa prima sala i disegni, libri, giornali illustrati, caricature, ecc., di Walter Crane.
La seconda sala, intitolata alla The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra, è divisa in dieci ambienti, cinque per parte.
Notiamo nel primo ambiente a destra una lampada da parete per elettricità. Il pavone che vi vediamo è in argento smaltato, e due scrivanie di Ashbee e di Guild. I quadri sono di Southalt.
Nel primo ambiente di sinistra osserviamo un paravento sul quale R. Moton-Nance dipinse le tre caravelle di Cristoforo Colombo. Vi si trova pure una vetrina con gioielli smaltati, bottiglie e coppe di cristallo inciso di Jaïmes Powel.
Nel terzo ambiente, a sinistra, sta esposto un arazzo, le Quattro Stagioni, di William Morris; questo lavoro venne incominciato nel 1834 e terminato nel 1896. Nel terzo ambiente, a destra, la Essec and C. Y. di Westminster espone tappezzerie. Vi è pure il disegno per grande arazzo, dipinto da Brangwyn.
Nel quarto ambiente a sinistra troviamo vetrine con lavori in cuoio (rilegature di libri) e con la mostra di composizioni tipografiche della Libreria Hacou e Richelts di Londra.
Nella corsia della sala osserviamo una vetrina con Lavori decorativi in metallo della ditta W. A. S. Benson e C. di Londra.
Una statua in bronzo di W. R. Colton, rappresentante un trovatore di mummie.
Nella terza sala, a sinistra, esaminiamo due quadri: La nascita di Venere ed I conquistatori del mondo, entrambi di Walter Grane; a destra esamineremo vari progetti-disegni per vetrate a colori e tappezzerie. Nell’ultima sala Walter Grane espone Studi di fiori, acquerelli e disegni».

Tavole fotografiche sull’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay