Alexandra Chavarria Arnau – Medioevo Fantastico. L’invenzione di uno stile

Atti del ciclo di Conferenze “Medioevo fantastico. L’invenzione di uno stile nell’architettura tra fine ’800 e inizio ’900”. Il tema è trattato da due archeologi e cinque storici dell’architettura che ne analizzano le origini e lo sviluppo in alcune città (Padova, Verona, Milano, Siena e Napoli) e in relazione ai personaggi che ne furono i protagonisti (Pietro Selvatico, Camillo Boito, Luca Beltrami, Alfredo d’Andrade oltre ad altri meno noti).

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IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del volume



Trento: Fede Galizia. Mirabile pittoressa

Non sono molte le pittrici che hanno lasciato un segno nella storia dell’arte ma tra Cinque e Seicento alcune raggiunsero fama e successo. Accanto a Sofonisba Anguissola e Artemisia Gentileschi spicca anche Fede Galizia, pittrice di origine trentina, che sarà celebrata al Castello del Buonconsiglio, dal 3 luglio al 24 ottobre 2021, con la prima mostra monografica a lei dedicata.

03 Luglio 2021 – 24 Ottobre 2022
Trento, Castello del Buonconsiglio

FEDE GALIZIA. Mirabile pittoressa

a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa

Fede Galizia, Giuditta e Oloferne, 1596 ca, olio su tela,
Courtesy of Ringling Museum of Art Sarasota, Usa

Documentata a Milano a partire almeno dal 1587, vive prevalentemente nella città lombarda fino alla morte, avvenuta dopo il 1630. Il trasferimento – da Trento a Milano – della famiglia Galizia, di origini cremonesi, deve essere avvenuto sulla scorta del poliedrico padre, Nunzio, artista pure lui, impegnato nel mondo della miniatura, dei costumi, degli accessori, ma anche in quello della cartografia. Fede – un nome programmatico per l’Europa della Controriforma – ottiene un successo straordinario tra i committenti dell’epoca, tanto che opere sue raggiungono, prima del 1593, tramite la mediazione di Giuseppe Arcimboldi, la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo.
Gli studi novecenteschi, soprattutto italiani ma non solo, hanno dato particolare risalto all’attività di Fede come autrice di nature morte, alle origini di questo fortunato genere. Sembra giunto il momento di ripensare nel suo complesso il profilo dell’artista, che realizzò soprattutto ritratti ma anche pale d’altare, destinati a sedi tutt’altro che locali (Napoli, per esempio). A tutt’oggi non esiste un repertorio completo delle numerose testimonianze letterarie che celebrano, in versi e in prosa, le doti di Fede Galizia, da intrecciare con un completo regesto documentario, che sarà approntato per l’occasione. La mostra, curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, aspira a rispondere, tramite la presentazione delle opere dell’artista e adeguati confronti, alla domanda: perché Fede Galizia piaceva tanto? Quali sono le ragioni del suo successo nell’epoca in cui visse? Quanto ha pesato, in questo, il suo essere donna? Come cambia l’apprezzamento di un’opera d’arte tra il lungo crepuscolo del Rinascimento e il mondo di oggi?
In mostra un’ottantina di opere tra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi. Oltre a opere di Fede Galizia, Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, ci saranno lavori di Arcimboldi, Bartholomeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi, provenienti dai più importanti musei italiani, come la Pinacoteca di Brera e il Castello Sforzesco di Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia Carrara di Bergamo, Palazzo Rosso di Genova, la Fondazione Cini di Venezia, la Galleria Borghese di Roma, oltre ad alcuni prestiti internazionali: dal Muzeum Narodowe di Varsavia, dal Ringling Museum of Art di Sarasota, dal Palacio Real de la Granja di San Ildefonso, oltre che da alcuni collezionisti privati.

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IMMAGINE DI APERTURAFede Galizia, Ritratto di Paolo Morigia, Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Art Nouveau – “Il delirio… il delirio della bruttezza!”

di Sergio Bertolami

24 – l’ideale sociale di Henry van de Velde.

Dicono bene i critici, che parlano di Henry van de Velde, l’esposizione fatta nel negozio di Bing il 26 dicembre 1895 e l’esposizione del 1897 a Dresda, «contribuirono fortemente alla diffusione delle sue idee e alla sua fama in Europa tenuta viva anche dalla forza del suo esempio, dalla sua continua preoccupazione didattica e di sollecitazione culturale che egli esercitò con i suoi scritti, con la sua attività di propaganda delle idee, le sue conferenze, le sue lezioni» (Lara Vinca Masini). Eppure, come sappiamo, per van de Velde questo inizio fu alquanto turbolento. Auguste Rodin lo insultò verbalmente fuori del negozio, Edmond de Goncourt lo fece per iscritto sul suo Journal. Tali improperi rendono perfettamente un momento di passaggio come questo, perché siamo dinanzi a personaggi illustri della storia dell’arte, colti però in un flash che ritrae un presente dissociato, tra il passato illustre dell’arte francese che dettava all’Europa le proprie influenze e un futuro internazionale tutto da scrivere. A ben considerare, quanti frenavano l’innovazione non erano soltanto i denigrati conservatori, ma anche gli innovatori di ieri che faticavano a comprendere gli innovatori di oggi. Perciò, prendiamo atto dell’irritazione di Edmond de Goncourte e leggiamo per intero quanto aveva da dire: «Lunedì 30 dicembre. – Exposition Bing. Non sono contrario all’idea della mostra in quanto tale, ma solo all’evento del giorno, l’esposizione di oggi. Cosa? Il nostro paese, che ha prodotto mobili civettuoli e paffuti per il comfort del XVIII secolo, è minacciato da mobili duri e spigolosi che sembrano fatti per abitanti delle caverne e palafitticoli ignoranti. La Francia sarebbe condannata a forme premiate in un concorso di bruttezza. Condannata cioè a coppe dalla forma di bacche, finestre e cassettiere improntate allo stile “oblò di una nave”, a schienali di divani, di poltrone, di sedie, che si richiamano alle rigide piattezze di fogli di lamiera e con rivestimenti tessili dove uccelli, color cacca d’oca, volano sul risciacquo blu di una saponata, condannata a specchiere da bagno e altri mobili imparentati coi lavandini di un dentista, nei dintorni di un obitorio. E un parigino dovrebbe mangiare in questa sala da pranzo, al centro di boiserie finto mogano decorate con questi arabeschi in polvere d’oro, accanto a un siffatto camino che sembra un radiatore per scaldare gli asciugamani di uno stabilimento balneare; e un parigino dovrebbe dormire in questa camera da letto, tra queste due sedie di gusto terrificante, in questo letto che altro non è che un materasso adagiato su di una lastra tombale? Davvero, saremmo snazionalizzati, sottomessi moralmente da una occupazione peggiore della guerra [franco-prussiana], in questo tempo in cui non c’è più posto in Francia che per la letteratura moscovita, scandinava, italiana, e forse presto per quella portoghese, in questo tempo in cui sembra anche non esserci più posto in Francia che per i mobili anglosassoni oppure olandesi. Non quello, il futuro mobile francese, quello no! No! Uscendo da un’esposizione di tal genere, come non potevo fare a meno di ripetere ad alta voce per la strada: «Il delirio… il delirio della bruttezza!». Tanto che, un giovane, avvicinandosi, mi disse: «State parlando con me, signore?».

Volume del Journal di Edmond de Goncourt
nel quale compare il brano su Henry van de Velde

Sul marciapiede di fronte al negozio di Bing, poi sul Journal, Edmond de Goncourt imprecò che il più ridicolo degli espositori, van de Velde, aveva progettato i suoi mobili applicando uno “stile yacht”. «Inconsciamente c’era del vero in questa osservazione – commentò anni dopo, in risposta, lo stesso van de Velde nell’autobiografia – De Goncourt ha riconosciuto l’essenza del “design razionale” che legava i miei mobili alle navi». Una relazione davvero sorprendente, anticipatrice di almeno un quarto di secolo. Henry Van de Velde era a tutti gli effetti un precursore, piuttosto che un innovatore. Al tavolo verde dell’arte, non faceva il suo gioco con singolare maestria, usava direttamente un nuovo mazzo di carte. In breve, il verdetto generale fu devastante, ma l’arte nuova s’impose ugualmente; ma quale arte nuova? Negli articoli apparsi sulle riviste qualche critico imparziale riconobbe l’importanza della mostra, come Gabriel Mourey che su The Studio, il mensile d’arte inglese più vivace dell’epoca, il 3 gennaio 1896, in un saggio intitolato The Big Event of the Present Art Season, scriveva: «Questi uomini sono alla ricerca di un’arte semplice e profonda; usano un buon metodo per farlo: un infaticabile sforzo. Il loro contributo personale può essere riconosciuto da alcuni dettagli. Ad esempio, se si guardano le stanze progettate da Henry van de Velde, vi si noterà l’equilibrio di tutte le linee del mobile, volute in modo consapevole; si riconoscerà la grazia sottile nella cornice di un vetro o di uno specchio, e si vedrà come le incrostazioni di rame intarsiate nel legno, intorno alla stanza, si traducano in una serie di arabeschi di grande fascino».

Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala da pranzo
Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala fumatori. Lavorazione del legno di mogano, finestra, pannello a mosaico, specchiera e divano. I mosaici e il fregio sono di G. Lemmen da Bruxelles.

Com’era stato concepito il progetto? Lo racconta van de Velde stesso. Un giorno, dopo che la prima pietra della casa Bloemenwerf era stata posta sul terreno in pendenza, si presentarono alla porta due signori sconosciuti. I loro biglietti da visita riportavano il nome di S. Bing e Julius Meier-Graefe. Il primo, lo aveva sentito solo nominare: in quegli anni, nessun “amante del Giappone”, recandosi a Parigi, avrebbe mancato di visitare la galleria di Bing in rue de Provence. Il compagno di viaggio, gli fu presentato come uno scrittore e critico d’arte tedesco. Stavano facendo un giro, oltremanica e in vari paesi del continente, per rintracciare segni di rinascita dell’artigianato: da Bruxelles intendevano recarsi in Inghilterra, poi in Olanda e da lì in Danimarca, Germania e Austria. Quella mattina Bing e Meier-Graefe avevano visitato a lungo la Kunsthaus, una Maison d’Art allestita a Bruxelles nella precedente casa di Edmond Picard. L’idea che ventilavano era che necessitasse fornire agli sforzi individuali degli artisti e degli artigiani un sostegno commerciale, tale da garantire una maggiore risposta del pubblico. Della casa di van de Velde apprezzavano le pareti appena tappezzate con la carta da parati “Dahlia”, l’effetto armonioso del suo rosso amaranto, del verde e del blu indaco, in sintonia con il colore del legno di cedro dei mobili. Conoscevano van de Velde dai suoi articoli e mostrarono una cartella di ritagli sull’argomento, tuttavia, Bing, stava ben attento a non rivelare che il suo tour europeo potesse farlo decidere a realizzare una Maison d’Art del genere. Lo fece qualche settimana più tardi, quando fu van de Velde a raggiungerlo a Parigi nel suo piccolo studio in rue Vézelay. «Senza ulteriori preamboli – commentava van de Velde – mi informò della decisione di convertire la sua galleria in rue de Provence in una casa per L’Art Nouveau. La visita alla Kunsthaus di Bruxelles, gli aveva fatto una grande impressione e credeva nel futuro di tali imprese. Il suo tour lo aveva convinto che fosse imminente una rinascita dell’artigianato e che gli artisti che aveva visitato nei vari Paesi erano decisi a rompere con l’imitazione degli stili un tempo consueta». Decisero di avviare insieme l’iniziativa, ma dai primi incontri operativi emerse la preoccupazione che la mostra avrebbe provocato critiche e ostilità. La stampa a pagamento avrebbe spinto il pubblico a credere in una operazione antipatriottica, condotta da ribelli, per lo più stranieri, determinati a strappare alla Francia una proprietà culturale inalienabile. Non solo idealmente, ma anche materialmente, suscitando timori che sarebbe stata messa in crisi l’indiscutibile superiorità dell’industria artistica francese.

Mostra di arti applicate Dresda, 1897, sala relax

Henry van de Velde cominciò a pensare di avere accettato piuttosto incautamente l’incarico di Bing. Per una serie di ragioni. Anzitutto era chiaro il fatto di trovarsi in prima linea in una battaglia contro «i mobili e le suppellettili delle dimore in cui si nascondeva la società francese». La seconda ragione nasceva dai tempi di consegna molto stretti, dovendo installare a Parigi tanti arredi e complementi in date stabilite. Difficile oltretutto era ottenere specifici materiali dall’estero. Gli veniva richiesto di realizzare un salotto in legno di limone, una grande sala da pranzo in legno di cedro, una sala fumatori in paddock del Congo, una sala più grande rotonda con mobili e pannelli da parete coordinati. A tutto ciò si aggiungevano apparecchi d’illuminazione, carte da parati, tessuti e tappeti, ideati da altri artisti, ma da comporre in modo armonioso. La terza ragione aveva carattere progettuale: «Per quanto mi riguardava direttamente, ho avuto anche qui il mio problema. Quello che avevo creato fino ad allora era sempre stato destinato a stanze esistenti e a clienti di cui conoscevo gusti ed esigenze. In caso di dubbio, avrei potuto discuterne con loro. Lavorare per clienti sconosciuti e per stanze immaginarie mi risultava estraneo. Questa volta, al contrario, avrei dovuto progettare intere stanze basate su vari mobili tutti ideati da me. Alla fine, mi sono abituato a queste condizioni insolite, ma solo lentamente e con difficoltà, temendo sempre di non essere in grado di consegnare ciò che in quel momento si stava chiarendo nella mia mente con insolita fretta». Tali preoccupazioni furono, comunque, tutte superate; ma quando la presentazione ebbe luogo, van de Velde già a sfogliare il catalogo si accorse del problema maggiore: la mancanza di unità e di contesto, rispetto a quanto Bing e Meier-Graefe immaginavano come Art Nouveau. Van de Velde prese a domandarsi come si fosse mai potuta allestire una mostra senza un programma definito, se non quello della novità fine a sé stessa: «In quale altro modo si sarebbero potute presentare sotto lo stesso termine collettivo le mie creazioni e quelle di Carabin, i vetri di Tiffany, Powell e Köpping, i candelieri di Benson ed Eckmann? Per avere un’idea dei principi del tutto oscuri di Bing, basti ricordare che accanto alle mie stanze, i visitatori potevano ammirare una camera da letto progettata da Maurice Denis, i cui mobili erano altrettanto assurdi quanto la poltrona del famoso scultore Carabin […] Se Bing avesse riconosciuto i principi fondamentali e gli obiettivi morali a cui tendevo con tutte le mie forze, avrebbe sicuramente rifiutato il mio lavoro. L’idea di fondere la morale con il design artistico, di fare ritorno a forme semplici e vere non poteva significare nulla per lui». Insomma, quella di Bing era una Maison d’art nouveau ou de nouveautés artistiques? Esponeva i risultati di una creatività innovativa o semplicemente una serie di nuovi pezzi d’arte?

Laboratorio della ‘Société van de Velde’ a Ixelles, nel 1899, sulla destra l’architetto mentre esamina un disegno di progetto

Queste osservazioni non erano peregrine: coglievano quantomeno il desiderio di Bing di scoprire una “nuova eleganza” più orientata al virtuosismo pittorico di Boldini o Gandara, alle fantasie orafe di Lalique. Differente era invece l’impronta di van de Velde e il suo percorso futuro lo dimostrerà compiutamente. Poche settimane dopo l’apertura della scandalosa mostra in rue de Provence, una delegazione guidata dal direttore generale dei musei di Dresda, Woldemar von Seidlitz, visitò la galleria di Bing e chiese di reinstallate nel Palazzo delle Esposizioni di Dresda le quattro stanze realizzate dal designer belga, in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte del 1897. Inoltre, si chiedeva di realizzare una grande “sala relax” per i visitatori. Dopo appena tre settimane dall’inaugurazione dell’Esposizione, van de Velde divenne talmente famoso in tutta la Germania da essere sommerso di incarichi progettuali. Il crescente numero di commesse tedesche superò rapidamente, per importanza e valore monetario, le commesse belghe. Per converso, si profilarono all’orizzonte problemi organizzativi ed economici che avrebbero portato a cambiamenti radicali. Il più importante fu sicuramente la nascita della Société van de Velde, per fare fronte al lavoro esecutivo. Il barone Eberhard von Bodenhausen – del comitato editoriale di Pan, la rivista di cui Meier-Graefe era direttore – e il pittore berlinese Curt Herrmann, decisero di investire i propri capitali, consentendo di allestire nel sobborgo di Ixelles a Bruxelles moderni laboratori per la produzione di mobili, lampadari e altri arredi. La nuova attività e le relazioni strette con varie Maison d’Art di Parigi, Berlino e L’Aia, permisero a van de Velde di esporre e vendere i propri prodotti e di accettare numerose commissioni di arredi, ma anche di tessuti, gioielli e copertine di libri. Prova ne sia che la direzione della Secessione di Monaco gli mise a disposizione due sale da arredare completamente. Questo dette all’osannato artista l’opportunità di avere il suo primo contatto con amici d’arte nel Sud della Germania. Una opportunità eccezionale, perché all’epoca Monaco, come s’è detto, era un centro artistico molto apprezzato in tutta Europa. Né Dresda, né Düsseldorf, per non parlare di Berlino, potevano competere con Monaco.

Annuncio della ‘Société van de Velde’ in ‘Arte decorativa’, 1898

Il segreto di van de Velde era la continua meticolosità: «Per avere un’idea della risposta che aveva generato la mia partecipazione al dipartimento di arti e mestieri della Secessione del 1898, mi sono mescolato alla folla nell’Hofbräuhaus dopo l’apertura. Mi resi conto di aver combattuto una battaglia, un’altra battaglia dopo le battaglie di Parigi e Dresda. Il pubblico aveva ricevuto uno shock». Tuttavia, a Monaco le parole taglienti che aveva usato Edmond de Goncourt non furono affatto pronunciate, non ci fu alcuna rivolta come a Parigi, anzi non ci fu proprio nessuna reazione improvvisa. Ciò che faceva piuttosto impressione era l’apatia dei visitatori, ai quali senz’altro piaceva parlare d’arte, ma senza provare emozioni. Ne discutevano in birreria. «A Monaco la gente amava l’arte come la birra», ironizzava l’architetto. Davanti ad un boccale s’intrattenevano conversazioni piacevoli con rinomati pittori o scultori, con drammaturghi, attori, cantanti o compositori. Letteratura e poesia, invece, erano di casa nei caffè.

Elisabeth Förster-Nietzsche, sulla scrivania copertine di libri di Henry van de Velde

Alla luce dei fatti, si può dire che finalmente van de Velde aveva quadrato il cerchio della sua professione. Se a Parigi l’intellighenzia lo snobbava, in Germania il suo lavoro di designer divenne noto attraverso articoli su periodici d’arredamento come Innen-Dekoration, rivista illustrata di arti e mestieri per la decorazione d’interni. Nel 1899 si lasciò “rapire” dalla Germania e decise di stabilirsi a Weimar, in una casa in Cranachstrasse, nella zona residenziale di Silberblick, a poche centinaia di metri dalla villa di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del suo filosofo più amato. «Ricordo gli ultimi tre anni del XIX secolo come un periodo di eterna felicità, come una sola primavera o un’estate luminosa, con aiuole meravigliosamente fiorite, che mia moglie accudiva con amore, quando non si dedicava alla nostra piccola Nele o ad altri lavoretti di famiglia. La vedo ancora nei suoi bellissimi vestiti da giardino fatti di rari tessuti esotici, che lei stessa aveva realizzato con i miei disegni ideati per lei».

Maria Sèthe, moglie di Henry van de Velde, con la loro piccola Nele nel giardino della casa Bloemenwerf

Maria arredò anche il nuovo appartamento con i piccoli mobili trasferiti da casa Bloemenwerf. Van de Velde, invece, su mandato del giovane Granduca Wilhelm Ernst, come consulente artistico si dedicò a infondere la “cultura del prodotto” alle imprese artigiane e industriali del Paese. Continuò anche il suo lavoro educativo, alla Scuola di Arti applicate granducale sassone (Grossherzoglich-Sächsische Kunstgewerbeschule Weimar) da lui stesso fondata nel 1908 e inizialmente sostenuta dal Granduca per poi passare allo Stato. «Ho chiamato questo istituto “Seminario di arti e mestieri” perché ero convinto di poter raccogliere e distribuire lì i semi, che poi sarebbero germogliati».

Scuola d’Arte di Weimar, 1904, progettata da Henry van de Velde

Van de Velde fu il direttore della Scuola fino alla chiusura, nel 1915, anno in cui pur in ottimi rapporti dovette lasciare la Germania per via della guerra, in quanto belga. Suggerì che l’architetto Walter Gropius gli succedesse. Torneremo a parlarne, perché dopo il 1919 la Scuola di Arti e Mestieri si fuse con l’Accademia d’Arte di Weimar, per dare vita al celebrato Bauhaus. In qualche modo si concretizzavano le parole con cui si era chiuso il primo numero de L’art décoratif del 1898, interamente dedicato alla sua figura e alla sua opera: «Seguiranno altri atelier di tessitura, ricamo e altre industrie domestiche, dove la macchina prenderà la sua indispensabile parte al lavoro. Il senso meccanico penetra oggi in tutte le opere di Van de Velde e garantisce che nelle sue mani l’arte non rimarrà, come avviene oggi, a beneficio di un piccolo numero di persone di buon gusto, ma che penetrerà fra la moltitudine, diffondendo verità e bellezza. Allora si realizzerà l’ideale sociale di Van de Velde, davanti al quale, secondo le sue stesse parole, un uomo vale tanto di più se il suo lavoro porta frutti o benefici a tanti altri di più».

Henry van de Velde nel 1904

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

La casa di Giacomo Balla? È un’opera d’arte totale

Per la prima volta è finalmente possibile visitare l’abitazione romana dell’artista, rimasta chiusa dal 1994 dopo la scomparsa delle due figlie. Le visite, per gruppi di 8 persone, si svolgeranno nei weekend dal 25 giugno al 21 novembre.

RIVISTA STUDIO

La casa di Giacomo Balla? È un’opera d’arte totale

A Giacomo Balla interessava esprimere il movimento, la luce e la velocità, mentre lo affascinavano molto meno il progresso industriale, la violenza e la guerra, al contrario di gran parte dei suoi compagni futuristi. Una visione dell’arte tutta personale, che possiamo comprendere meglio visitando la sua casa, da giugno aperta al pubblico per la prima volta.



THE CONVERSATION

La sezione aurea potrebbe davvero essere nata in Africa?

Il design rimane una professione in gran parte bianca, con i neri ancora ampiamente sotto-rappresentati. Questo potrebbe essere attribuito al fatto che i principi prevalenti del design, fino a qualche anno fa, sembravano essere vicini alle tradizioni occidentali, con presunte origini nell’antica Grecia e nelle scuole tedesche, russe e olandesi, considerate come i modelli del settore. Una “estetica nera” sembrava improbabile. Ma cosa succederebbe a scoprire che un’estetica africana è profondamente radicata nel design occidentale? Non da oggi, ma da sempre!



AEON

Il Ratto di Europa di Tiziano (circa 1559-62). 
Per gentile concessione dell’Isabella Stewart Gardner Museum, Boston

Dovremmo
censurare l’arte?

Abbattere dipinti sessisti o monumenti razzisti solleva tanti problemi quanti ne risolve. C’è un modo migliore per combattere l’odio? Non è un discorso semplice. In verità, la censura è sempre piena di problemi, in generale, per non parlare poi della censura artistica, che è molto più complessa.  Quindi abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per segnalare la nostra inquietudine, il nostro disgusto e l’indignazione per l’arte che perpetua l’ingiustizia sociale. Scopriremo come fare? Leggiamo.



LITERARY HUB

Perché così tanti romanzieri scrivono di scrittori?

David Laskin si sofferma su di un inflessibile paradosso letterario. Fare di uno scrittore il protagonista del proprio romanzo. Perché? Semplice: c’è qualcosa di irresistibile nel vedere uno scrittore esaltato, deriso, punito, perplesso, frustrato, insultato e vendicato sulla pagina.

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Autori vari – Officina di idee

Un’antologia di racconti inediti che nascono dal concorso Officina di idee promosso dalla Biblioteca di Cles.
I racconti hanno ispirato la fantasia di alcuni percorsi artistici: ecco perché tra le pagine si scorgeranno delle immagini, frutto di laboratori di pittura, disegno e fotografia. Alcuni racconti sono tradotti in lingua straniera.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Seguiamo troppe notizie: un problema che riguarda lettori e media

Il rischio di sovraesposizione a un flusso di notizie continuo esiste già da prima che la diffusione del Covid 19 condizionasse in modo radicale la vita delle persone. Tuttavia la tendenza a cercare compulsivamente informazioni per rimanere costantemente aggiornati sui fatti è un fenomeno che ci riguarda sempre più da vicino. Il Post ci spiega perché. 

IL POST

Seguiamo troppe notizie: un problema che riguarda lettori e media

Alcuni esperti e psicologi statunitensi hanno cominciato a parlare di doomscrolling per definire la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie – perlopiù drammatiche e deprimenti – sugli smartphone o sui computer, occupando parti della giornata che prima della pandemia erano destinate ad altre attività… 



THE GUARDIAN

A caccia di libri tra le rovine: come i bibliotecari ribelli della Siria hanno trovato speranza

In una città assediata dal regime di Assad, un piccolo gruppo di rivoluzionari ha trovato una nuova missione: costruire una biblioteca con i libri salvati dalle macerie. Per chi è bloccato in città, i libri hanno offerto una fuga fantasiosa dagli orrori della guerra.



MINIMA & MORALIA

L’intelligenza di Minari

Minari è un film drammatico americano del 2020, scritto e diretto da Lee Isaac Chung. Rappresenta una versione semi-autobiografica dell’educazione infantile dello stesso Chung. La trama segue una famiglia di immigrati sudcoreani che si trasferisce dalla California all’Arkansas, in un loro nuovo appezzamento di terreno agricolo, che il capofamiglia spera di coltivare, producendo ortaggi coreani da vendere nei supermercati di Dallas. Cosa significa Minari? “Il minari è qualcosa di meraviglioso. È magico, va nel kimchi, nella minestra, nello stufato. È una specie di prezzemolo che cresce dappertutto ed è per tutti. Poveri e ricchi possono mangiarlo”. Lo spiega così, ai nipotini, Soon-ja, la stramba nonna coreana del film Minari.



LITERARY HUB

SWISHER SWEETS

di LAURA NEWMAN

Un titolo sarcastico? Swisher Sweets è uno dei produttori di sigari più famosi al mondo. Ma non è di questo che parla la storia, se è vero che la Newman ha fondato il “Comitato per l’eroina”, un gruppo che produce e gestisce spot pubblicitari per educare i genitori sulle droghe a cui i loro figli hanno maggiori probabilità di essere esposti. La storia che leggerete è stata finalista al Virginia Woolf Award for Short Fiction di LitMag, ed è estratta dall’ultima raccolta di racconti di Laura Newman The Franklin Avenue Rookery for Wayward Babies , su persone comuni che lottano contro eventi straordinari. 

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

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Blake Pierce – La moglie perfetta (Un emozionante thriller psicologico)

L’apprendista in profilazione criminale (e neo sposa) Jessie Hunt, 29 anni, scopre torbidi segreti che stanno annidati nella sua nuova cittadina di provincia. Quando viene ritrovato un cadavere, Jessie si trova incastrata trai suoi nuovi amici, i segreti di suo marito, il carico di lavoro del suo serial killer… e i segreti del suo stesso oscuro passato.

In LA MOGLIE PERFETTA (Un emozionante thriller psicologico di Jessie Hunt—Libro Uno), l’apprendista in profilazione criminale Jessie Hunt è sicura di essersi finalmente lasciata alle spalle la parte oscura della propria infanzia. Lei e suo marito Kyle si sono appena trasferiti da un angusto appartamento di periferia a Los Angeles a una villa a Westport Beach. La promozione di Kyle li ha riempiti di soldi. E Jessie è a pochi passi dall’ottenere la sua laurea specialistica in psicologia forense, l’ultimo step per diventare una criminal profiler.
Ma subito dopo il loro arrivo, Jessie inizia a notare una serie di strani sviluppi. I vicini – e la loro ragazza alla pari – sembrano avere tutti dei segreti da nascondere. Il misterioso yacht club di cui Kyle vuole disperatamente fare parte è pieno di uomini infedeli, e ha delle sue regole problematiche. E il noto serial killer rinchiuso all’ospedale psichiatrico dove Jessie sta completando i suoi studi sembra sapere più della sua vita di quanto sia normale. O sicuro.
Mentre il suo mondo inizia a dispiegarsi, Jessie comincia a mettere in discussione tutto ciò che la circonda, inclusa la sua stessa salute mentale. Ha davvero messo allo scoperto un’inquietante cospirazione in una soleggiata e agiata cittadina di mare della California meridionale? L’assassino seriale che sta studiando conosce davvero in qualche modo l’origine dei suoi incubi privati?
O il suo torturato passato è finalmente tornato a fare i conti con lei?
Un thriller psicologico emozionante e frenetico con personaggi indimenticabili e pieno di suspense da batticuore, LA MOGLIE PERFETTA è il libro #1 di un’affascinante nuova serie che vi farà leggere fino a notte fonda.

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Che cos’è la biodiversità e perché dovremmo preoccuparcene

Quando si parla di cambiamenti climatici, disuguaglianze sociali, crisi sanitaria e distribuzione delle risorse, grandi dibattiti scientifici e sociali di questo secolo, si conclude spesso con: “…e poi c’è anche il problema della biodiversità”, senza specificare esattamente quale sia il problema, e soprattutto cosa sia la biodiversità…

IL TASCABILE

Che cos’è la biodiversità e perché dovremmo preoccuparcene

A scuola impariamo che la biodiversità è il numero delle specie in una data area. La nostra impostazione culturale ci porta a pensare che col termine “specie” si intendono prevalentemente quelle animali, e per animali si intendono i mammiferi di taglia medio–grande, quelli che vediamo negli zoo. Se chiedessimo a un amico di elencare le specie presenti nella savana africana, è estremamente probabile che risponderebbe “zebre, leoni, giraffe”, e non verrebbe neanche sfiorato dall’idea di menzionare gli alberi, l’erba, i licheni, gli insetti o i nematodi parassiti che albergano dentro zebre, leoni e giraffe.



THE NEW YORKER

Perché i film amano i libri per bambini?

Si potrebbe pensare che ogni nuovo film per bambini sia stato realizzato con riferimento ai testi classici, invece emergono ancora, incessantemente, sempre nuovi adattamenti. L’anno scorso abbiamo preso visione di una nuova versione del racconto “Il giardino segreto”, così come l’interpretazione opportunamente sinistra di Matteo Garrone su “Pinocchio”. Ma ci sono tante altre storie riadattate.



LOS ANGELES TIMES

Lezioni di mamme e nonne in tre nuovi libri sulla cucina cinese

Negli ultimi due mesi sono stati pubblicati tre fantastici libri di cucina che contestualizzano cosa significa cucinare cibi cinesi, ma da una prospettiva diversa, quella di una seconda generazione. Presi insieme, questi libri, forniscono un’istantanea di come gli autori descrivano in dettaglio l’assimilazione nella cultura occidentale pur mantenendo i collegamenti con le culture e le tradizioni delle generazioni passate.



LITERARY HUB

“TIARA”

di BOLU BABALOLA

Il racconto è tratto dalla raccolta di Bolu Babalola, Love in Color , una rivisitazione della storia e della mitologia. Babalola è uno scrittore di libri e sceneggiature. Scrive soprattutto storie di donne dinamiche con voci distinte che amano e sono amate con audacia.

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Ravera, Bonvicini, Longo, Pascale – Cammin scrivendo: scrittori sulla Via Francigena

La Via Francigena nel Lazio è un cammino di pellegrini, un itinerario culturale che porta alla Capitale. Abbiamo voluto raccontarla attraverso lo sguardo attento e la capacità evocativa di scrittori e poeti, maratoneti della suggestione, fondisti della riflessione, incantatori dell’attimo. E lo abbiamo fatto invitando tre di loro a vivere la Via nel giugno 2014, affiancando Sergio Valzania e altri giornalisti-camminatori italiani e non che hanno percorso l’intero tratto laziale raccontandolo ogni giorno al pubblico radiofonico di Rai Radio1 e RaiWebRadio.

Lidia Ravera, Caterina Bonvicini, Francesco Longo, Antonio Pascale

Una riflessione di Lidia Ravera sul senso del camminare e i racconti di viaggio di Caterina Bonvicini, Francesco Longo e Antonio Pascale su quanto vissuto sotto il profilo fisico, emotivo, culturale ed enogastronomico, caratterizzano, quindi, le pagine di questo ebook, realizzato dall’Associazione Civita nell’ambito del progetto «La bisaccia del pellegrino: Francigena 2014, l’Europa a piedi verso Roma», promosso dalla stessa Associazione e RadioRai per valorizzare la Francigena da Aosta a Roma attraverso un programma radiofonico itinerante e le produzioni agroalimentari tradizionali locali riferibili al cibo «pellegrino».

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



ARTE È – 20 anni di Merano Arte

8 curatori che hanno collaborato con l’istituzione altoatesina presentano le opere di 18 artisti in grado di riflettere su temi sociali di grande attualità come il ruolo delle donne nella società, la migrazione, la digitalizzazione, la giustizia sociale, la pianificazione territoriale.

Letizia Werth, Hand wird nur von Hand gewaschen, Wandmalerei, 750 x 218 cm (Detail), 2021,  Letizia Werth

KUNST MERAN MERANO ARTE
Dal 17 luglio al 24 ottobre 2021

ARTE È.
20 Jahre Kunst Meran
20 anni di Merano Arte

Dal 17 luglio al 24 ottobre 2021, Kunst Meran Merano Arte celebra i suoi 25 anni di fondazione e i 20 anni di attività della Kunsthaus nell’attuale sede sotto i portici, con la mostra ARTE È.

Si tratta di un progetto, ideato da Ursula Schnitzer, sviluppato in collaborazione con Martina Oberprantacher, che vede protagonisti 8 curatori e critici – Valerio Dehò, Luigi Fassi, Sabine Gamper, Günther Oberhollenzer, Andreas Kofler, Anne Schloen, Magdalene Schmidt e Susanne Waiz – che hanno avuto esperienze lavorative e di ricerca con l’istituzione meranese, contribuendo a plasmare la sua attività espositiva, e che propongono le opere di 18 artistiQuayola, Ludovic Nkoth, Claudia Barcheri, Barbara Gamper, Maria CM Hilber, Selene Magnolia, Maria Walcher, Letizia Werth, Christian Bazant-Hegemark, Hannes Egger, Oliver Laric, Roberta Lima, Rosmarie Lukasser, Bernd Oppl, Simone Salvatore Melis, Erika Hock, Zora Kreuzer, Ludwig Thalheimer – in grado di riflettere su temi come il ruolo delle donne nella società, la migrazione, la digitalizzazione, la giustizia sociale, la pianificazione territoriale.

ARTE È si presenta come un coro a più voci che si costruisce attorno al fulcro rappresentato dalla frase “Le opere d’arte sono suggerimenti per esperienze future”, formulata dal teorico dei media e filosofo della comunicazione ceco, ma naturalizzato brasiliano, Vilém Flusser (1920-1991). Di origine ebrea, Vilém Flusser fuggì alle persecuzioni naziste in Cecoslovacchia, emigrando in Brasile assieme alla moglie Edith. Ritornato in Europa, alla metà degli anni settanta trovò ispirazione nella realtà di Merano, città termale dal carattere internazionale, con il suo multilinguismo, la sua storia caratterizzata da alterne vicissitudini e la sua collocazione geografica, situata al centro di una regione che, proprio in questi anni – dopo gli sconvolgimenti portati da due guerre mondiali e due regimi totalitari – raggiunse un modello esemplare di autonomia.

Per Flusser, il soggiorno meranese ricoprì un ruolo fondamentale per lo sviluppo delle successive teorie degli anni ’70 e ’80. Le contrapposizioni tra paese e città e tra montagna e pianura hanno assunto un’importanza crescente in relazione al binomio, centrale nel suo pensiero tra dialogo e discorso. Numerosi aspetti della sua impostazione teorica trovano un corrispettivo nelle questioni poste dalle mostre tematiche a Merano Arte: ad esempio, il dibattito sull’arte contemporanea o la concezione di sé e del proprio operato in qualità di associazione artistica.

Il percorso espositivo, suddiviso in sette sezioni, si apre con il focus, curato da Sabine Gamper, su tematiche legate alla cura e alla solidarietà, individuale come collettiva, verso i nostri simili e il nostro ambiente. La curatrice e le artiste affrontano, da una prospettiva femminista, i concetti di caring e sharing in qualità di categorie che necessitano di un urgente ripensamento in un futuro post-pandemico. Claudia Barcheri (1985) realizza oggetti lamellari in gesso dalla forma organica che richiamano animali corallini o funghi che, nonostante un’apparente fragilità, hanno una forza esplosiva. Barbara Gamper (1981) utilizza testi, oggetti e performance per affrontare il concetto di “appropriazione”, ponendo domande su condizioni, dinamiche di potere e privilegi nel mondo dell’arte e nella società. La scrittrice e artista Maria CM Hilber (1984) documenta, attraverso il ritratto filmico di una ballerina e attivista del movimento DisAbility, come il potenziale sviluppo della società potrebbe risiedere nella messa in discussione delle norme attraverso cui vengono trattate le persone ritenute più deboli. Maria Walcher (1984) si sofferma sul mestiere del lustrascarpe per mostrare la sottovalutazione sociale e l’invisibilità del lavoro di cura, mentre Letizia Werth (1974) parte dall’esempio del lavaggio dei vestiti per rendere visibili, nella sua pittura su parete, problemi globali della nostra società dei consumi. L’attivista e fotografa Selene Magnolia (1989) cattura con la sua macchina fotografica il salvataggio di un gruppo di donne nigeriane nel Mediterraneo.

A questa sezione si collega quella di Luigi Fassi, con una selezione di lavori dell’artista camerunese Ludovic Nkoth (1994), la cui pittura è uno strumento di scrittura del presente che si avvale di elementi eterogenei tra loro, come la geografia, la cronaca, le memorie personali, per registrare i rivolgimenti del mondo attuale a partire dalla sua biografia e dal suo muoversi fra due mondi. Sono le acque del Mediterraneo a essere protagoniste delle tele più recenti di Nkoth, dove corpi di giovani uomini e donne migranti appiano travolti da un elemento naturale, il mare, che pone una sfida alla loro sopravvivenza.

Anche la sezione curata da Susanne Waiz si concentra sulla società guardando allo spazio che definisce, come ad esempio quello cittadino, costituito da quartieri operai e ville residenziali, zone migliori e peggiori. L’edilizia popolare e i progetti di riqualificazione urbana testimoniano la costante ricerca di un miglioramento della qualità della vita e dello spazio abitativo. Parallelamente, in tutto il mondo continua ad aumentare il numero dei senzatetto e, anche nelle città europee con la più alta qualità della vita, migliaia di persone sono costrette a vivere “sotto i ponti”. La speculazione nel settore immobiliare promuove la diseguaglianza tra persone e mina convenzioni sociali ottenute con fatica.

Ludwig Thalheimer (1961) registra aspetti che spesso sfuggono allo sguardo, come alloggi improvvisati e ben mimetizzati, abitati da persone che durante la fuga hanno perso il proprio posto nella società. Le immagini sono accompagnate da interviste che riflettono la relazione che sussiste tra la speculazione immobiliare e la realtà dei senzatetto a partire dall’esempio di Vienna, intesa come caso esemplificativo di una città europea da un punto di vista di pianificazione urbanistica, culturale e sociale.

Andreas Kofler e Magdalene Schmidt affrontano, in qualità di team curatoriale, l’architettura nella regione altoatesina e le modalità attraverso cui viene presentata. Con il loro contributo esaminano il ruolo ricoperto da Merano Arte, per il quale il dialogo e il discorso sull’architettura nella regione alpina è stato uno dei temi centrali della propria ricerca che ha contribuito a un vivace dibattito, anche in relazione al turismo.

A partire da un confronto con la fondatrice ed ex direttrice di Merano Arte, Herta Wolf Torggler, lo sguardo rivolto al passato dell’istituzione si concentra su alcuni elementi d’archivio esposti come in una Wunderkammer, che mostrerà le tematiche e i dibattiti legati all’incontro tra l’architettura e il grande pubblico. Un altro contributo è incentrato invece sulla ricerca delle posizioni di una generazione più giovane di architetti. Questo ampio spettro di possibilità è affrontato attraverso una selezione – svolta in collaborazione con “Turris Babel”, la rivista della Fondazione Architettura Alto Adige – di tesi di laurea degli ultimi dieci anni dedicate all’Alto Adige. Tra esse figurano anche alcuni “frammenti architettonici” realizzati da Simone Salvatore Melis (1996) nell’ambito della tesi di laurea in design e arte presso la Libera Università di Bolzano dal titolo Anche i monumenti muoiono.

Zora Kreuzer, The Sun Is Shining Tonight, 2020, B-Part Exhibition Berlin, Foto Andreas Schimanski

Anne Schloen indaga il valore sensoriale dell’opera d’arte attraverso i contributi di Zora Kreuzer (1986) ed Erika Hock (1981). Dal loro punto di vista, le opere d’arte, oltre a essere “suggerimenti per esperienze future”, possono essere anche possibilità di esperienze uniche. I visitatori e le visitatrici potranno così essere toccati e sollecitati da queste esperienze in un modo finora a loro sconosciuto e la loro percezione estetica potrà esserne rafforzata. Zora Kreuzer ha sviluppato un lavoro luminoso a parete site-specific per l’ambiente centrale della Kunsthaus, permettendo così una nuova visione dell’architettura dell’edificio. Erika Hock propone, invece, un’installazione di oggetti sulle pareti e nello spazio che confonde i confini tra arte, architettura e design e crea un collegamento sensoriale tra l’esperienza dell’oggetto e quella dell’immagine.

La sezione curata da Günther Oberhollenzer ruota attorno alla questione di quali forme espressive nuove e orientate al futuro stiano emergendo nell’arte del XXI secolo. L’interesse è rivolto in particolare al dialogo tra mondo analogico e digitale, all’ampliamento dei media artistici offerto dalle nuove possibilità tecnologiche nonché alla questione della percezione e dell’autorialità.

Rosmarie Lukasser (1981) guarda agli effetti delle reti digitali sulla percezione che le persone hanno di sé e degli altri attraverso fragili entità umano-artificiali in terracotta, ripiegate nel proprio mondo. Christian Bazant-Hegemark (1978) coniuga disegni digitali e analogici che rappresentano persone in un indefinito stato di attesa. Oliver Laric (1981) riproduce una famosa scultura attraverso elaborati processi di stampa 3D, mettendo in discussione la distinzione tra copia e originale. Bernd Oppl (1980) crea modelli architettonici e opere video che sfidano e ingannano la nostra percezione. Roberta Lima (1974) si avvicina, con un’installazione performativa, al “Wood Wide Web”, il sistema di comunicazione presente in natura. Infine, Hannes Egger (1981) crea degli inviti all’azione rivolti al pubblico, che potrà così interagire con le opere.

Anche nella pratica artistica di Quayola (1982), invitato da Valerio Dehò, il punto centrale è l’indagine sulle nuove tecnologie e sulle loro possibilità. Nella sezione “Futuro infinito”, l’uomo e la macchina hanno smesso di competere, l’arte si fa con quello che si vuole e con quello che anche l’industria propone. Quayola libera la sua arte da un presunto abbraccio mortale tra tecnologia e caducità. Ammira l’arte del passato, la rispetta al punto da farne una nuova però differente perché prodotta in un sempre diverso spazio-tempo. Quayola, che è un biologo, usa il digitale come un microscopio elettronico, entra nella struttura del paesaggio, lo confronta con la rappresentazione artistica rigenerandola come se fosse la prima volta che guardiamo le stesse cose di sempre.

Direzione del progetto: Martina Oberprantacher, Ursula Schnitzer
Durata della mostra:  17 luglio – 24 ottobre 2021
Luogo: KUNST MERAN MERANO ARTE portici 163 39012 Meran

IMMAGINE DI APERTURA – Erika Hock, Salon Tactile II, 2020, Installationsansicht Museum für Konkrete Kunst, Ingolstadt pulverbeschichtete Schienen, bedruckte Fadenvorhänge, Holz, Lack