Un pranzo
cinquecentesco.
Dal chiostro fiorito, dove s’intravedono
macchie di glicini, penetra nella sala in penombra il profumo
dei gelsomini. L’uscita del libro “Domina nocturna” viene
festeggiata in una confortevole sala da pranzo. Pareti rosa antico, pavimenti
bordeaux, tende, pendenti, voiles.
Gli stessi tovagliati deliziosi, in rasatello damascato, i pizzi e i merletti che ricoprono
ripiani e vetrine illuminate, si richiamano nell’intenzione più
all’eleganza classica che non alla cultura rustica e
primitiva dei tempi di Pellegrina.
«E’ vero. Nonostante abbiamo voluto
proporre ai convitati un pranzo cinquecentesco» commenta il
professore «senza dubbio, qualsiasi ristorante avessimo scelto
saremmo stati molto lontani da una taverna del Cinquecento».
«Ha notato com’è davvero impossibile
trovare un consommé di pollo in un ristorante odierno?», interviene Rosa Manuli,
che ha curato il particolare menu della serata.
«Potremmo rivolgerci a donna Paula, la
moglie del pollivendolo che soffia il marito a Pellegrina»,
replico confidenzialmente.
«Fuori di battuta» spiega il professore «vi
posso dire che nei documenti siciliani troviamo la prima
menzione di polli verso la fine del secolo XV. Uno di questi
riguardava il pasto degli ufficiali di una galea. Altri due,
intorno al 1570, a Palermo, si riferivano alla casa di un ricco
mercante genovese e ad un ospedale… ».
«Cosa possiamo dedurre? ».
Il professore sorride, perché
immancabilmente, anche a tavola, riesce a trovare un richiamo ai
suoi interessi di studioso.
«Se ne deduce… che i polli d’allevamento
erano rari, pertanto destinati ad una cerchia ristretta. E’
comprensibile se consideriamo l’uso ben più frequente di
cacciagione… Ricorda Trasselli che persino quando si
menzionavano i piumacci da letto, ovvero guanciali e coperte
imbottiti, non sempre si faceva riferimento alle piume dei polli
».
«Il nostro Messer Minicu – uno dei
personaggi che compaiono citati nel processo – vendeva quindi in
città ed in provincia ad una clientela ristretta e selezionata,
che desiderava una carne più delicata della selvaggina».
«Era richiesta non solo dai signori, ma
acquistata anche per i bambini, gli anziani, gli ammalati…».
«Quale piatto avremmo ordinato in un
“ristorante” dell’epoca, al posto del pollo?», domando divertita
da questa conversazione surreale.
«A differenza delle case dei signori, cui
ci siamo ispirati per il nostro menu, nelle locande e taverne
avremmo trovato alimenti semplici: pane, olive, formaggio, tonno
salato, sardine in salamoia. Era possibile reperirli anche negli
spacci, dove si commerciavano quasi esclusivamente sementi e
foraggi. Difficilmente avremmo potuto assaggiare, invece, degli
ottimi maccheroni, già noti in epoca normanna. Naturalmente
intendo parlare della pasta secca, utilizzata specialmente come
articolo d’esportazione di lusso e che viaggiava per nave,
confezionata in barili…
Gli atti notarili non parlano invece delle
tagliatelle, oppure della lagana, citata già da Orazio, fogli
sottili di pasta generalmente fritta o lessata, da cui derivano
le nostre lasagne. Il motivo è semplice, perché la pasta fresca
era preparata esclusivamente in casa e non era esportata.
I documenti del
processo oggi conservati a Madrid.
Oggigiorno si sente discutere sempre più
frequentemente di cultura del cibo, ma spesso si fa riferimento
al Settecento o all’Ottocento: tempi ben più recenti che non
quelli di Pellegrina ».
«Professore, i colori di questi piatti,
non ricordano, per caso, quelli delle sete tessute da Nardo
Vitello? Sono rimasta sorpresa dalla quantità di tinte e di
toni. Color acquamarina, cremisino, paonazzo, avvinato, color
muschio, incarnato, cerasa, color ponzò, color melanzana… ».
«A proposito di melanzane…», fa notare il
professore, mostrando il piatto dei contorni, dai toni ricchi di
sfumature propri delle verdure di stagione, «sappiamo che erano
conosciute almeno per indicare un colore, ma non è facile
incontrarle nelle descrizioni di orti o giardini.
La vita
quotidiana in quel tempo, come si può osservare, era ben
differente dalla nostra. Escamare – il garzone che prestava servizio
a casa di Pellegrina e nella bottega di suo marito – benché
ricevesse vitto e bevande da Nardo Vitello, doveva accontentarsi
di pancotto condito con un po’ d’olio, di un minestrone di
cavoli oppure di fave e ceci, nel quale ammorbidire del pane
raffermo».
«Minestre calde, di fagioli e lenticchie…
».
«Le lenticchie non compaiono ancora e
quanto ai fagioli si trovano nominati nel 1517 riguardo un orto
di Palermo. Credo piuttosto che altri alimenti, oggi divenuti
desueti, come le lumache, avessero una funzione predominante. La
selvaggina era invece molto diffusa, così il pesce limitatamente
alle zone costiere. D’altra parte cacciare e pescare spesso era
una libera attività, e ciò permetteva così di rinforzare la
razione quotidiana di verdure.
Fra i pesci conservati, spicca il merluzzo
salato dei marinai del Nord, lo stoccafisso, il famoso
pescestocco alla messinese… ed anche le sue interiora, come i
ventruzzi. Non dimentichiamo poi i frutti del bosco, dalle
castagne alle pere selvatiche, roba che bastava raccogliere…
Poi c’erano i prodotti della pastorizia,
come i formaggi, o quelli dei latifondi cerealicoli. Mi viene in
mente Mariano Bonincontro da Palermo, un poeta burlesco
dell’inizio del Cinquecento, che fa l’elogio dell’intelligenza
di un contadino arricchito, cresciuto a tumi e cuccìa. La tuma
è quel formaggio fresco non salato, che ancora oggi gustiamo; la
cuccìa è una zuppa meno usuale, fatta di frumento, farro… un
piatto d’origine pastorale. Mia madre la cucina ancora nella
ricorrenza di Santa Lucia ».
«Professore, la prego, non mi confonda.
Sono tentata di proporle un nuovo tema di ricerca…
sull’alimentazione nel Cinquecento ».
«Potrebbe essere un buono spunto, chissà… è
un’idea che io e mia moglie vagheggiamo da tempo».
Sorseggia pacatamente un bianco profumato,
ottenuto da uve Insolia e Chardonnay, poi il professore
riprende: «Quelle sete erano davvero eccezionali, non solo per i
colori naturali, nel senso che richiamavano la natura, ma
soprattutto per lo sviluppo che hanno permesso alla città di
Messina. C’è da chiedersi infatti per quale motivo Nardo e
Pellegrina preferirono proprio Messina ad altre città, quando
per debiti scapparono da Napoli».
«Il libro lo spiega ampiamente, perché
quello della seta mi pare possa considerarsi il motore
principale della nostra storia: seta e magia, un intreccio senza
dubbio interessante».
«In verità, penso che l’intreccio
principale del mio libro sia quello che scaturisce da deduzioni
e controdeduzioni, per giungere a leggere fra le righe del
processo. Chi ha dimestichezza con biblioteche ed archivi,
maneggia libri e documenti, sa bene che sovente, su molti
argomenti, le prove scritte sono pressoché inesistenti… perché
su talune faccende nessuno ha mai scritto una parola. Al
contrario, quando sono disponibili sono enormemente
frammentarie. In entrambi i casi, bisogna intravedere,
ipotizzare, e ci si trova ad attivare collegamenti intuitivi fra
testimonianze eterogenee… ».
«Quella di Pellegrina è dunque una “storia
dimenticata dalla storia”».
«In qualche modo ha ragione lei.
Fortunatamente Carlo Alberto Garufi ha riportato alla luce i
documenti del suo processo, seppelliti nell’Archivio di Simancas
ed oggi conservati a Madrid.
Allora – prima di ascoltare anche gli amici che hanno ritenuto
di intervenire a questa presentazione di “Domina nocturna” –
vale ricordare Marc Bloch, quando afferma che i documenti non
saltano fuori per effetto di chissà quale imperscrutabile volere
degli dei. La loro presenza o la loro assenza, in un fondo
archivistico, dipendono da cause umane che occorrerebbe
analizzare, perché di volta in volta è messa in gioco la
trasmissione della memoria attraverso le generazioni. Buon
appetito».
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