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Oggi, come ieri, si ripete
il rito del cibo di strada. Sempre presente l’atavico gesto di prendere il cibo con le mani.
 
 
Tradizioni culinarie
di Rosa Maria Manuli

 

 

In principio c’era il fast-food, poi lo slow, per ultimo il finger-food. Seguendo una moda esterofila i termini presi in prestito dalla lingua inglese indicano, in ordine, un pasto veloce, uno lento e uno da afferrare con le dita. Dalla tradizione riaffiora così la pratica del cibo di strada, del piacere di consumare in piedi o su sgabelli posti davanti i banconi, bocconi golosi. Ritorna l’atavico gesto di prendere il cibo con le mani, sentire il profumo ed il “calore” che emana.

Il cibo di strada si identifica infatti con le friggitorie, i carrettini ambulanti, i chioschi; uso legato un tempo soprattutto alle città di mare, ma anche interne, che svolgevano un ruolo nevralgico negli scambi commerciali.

Città così come Catania e Palermo, Genova e Firenze o la lontana Singapore, mettono in  “piazza” crespelle e panelle, farinata e lampredotto o saitai, cioè spiedini di legno su cui sono infilzati pezzi di carne marinata e grigliata.

La profumata focaccia a base di farina di ceci (farinata) dal porto di Genova approda a quelli della Toscana per giungere in Sicilia,a Palermo,non più cotta al forno, ma fritta in piccole porzioni .

La panella è una piccola frittella a base di farina di ceci ed acqua che semplice negli ingredienti, richiede abilità nella preparazione. Facoltativa è nell’impasto la presenza di un ciuffo di prezzemolo così come la spolverata di pepe e qualche goccia di succo di limone.

Pane e panelle, un tempo nel capoluogo siciliano, si trovavano dal panellaro;  la sua bottega ubicata al pianterreno di vecchi edifici era impregnata dell’odore di olio fritto e rifritto.

Nelle panellerie il lavoro poteva cominciare anche il pomeriggio del giorno precedente e proseguire quello successivo sin dal primo mattino. La farina di ceci veniva cotta a lungo in acqua salata e rimestata con un grande paiolo a “zattera”. Poi veniva fatta raffreddare, coperta da una mappina e si attendeva il momento giusto per confezionare le panelle, evitando che l’impasto si indurisse troppo.

Si usavano particolari formelle di legno, di forma rettangolare, circolare oppure a semicerchio che avevano la particolarità di possedere un rilievo floreale. Una sorta di cartina al tornasole che provava l’immediatezza della preparazione, poiché tale incisione si rendeva visibile solo sopra una panella fritta da poco. Arredo tipico della panelleria era il piano inclinato forato, uno sgocciolatoio sul quale venivano riversate le panelle gonfie di vapore per eliminare l’olio superfluo, prima di essere gustate così o dentro tipiche pagnottelle calde di forno.

Nella panelleria si  consumavano anche minuscole crocchette di patate, dette cazzilli; in rapporto alla stagione broccoli, cardi, carciofi… rigorosamente fritti in pastella. Potevano essere aggiunti persino anelletti al forno, sarde a”beccafico”, frittura di calamari, melanzane alla parmigiana, a “quaglia”, trippa, pasta con le sarde e quanto di più buono offrisse la tradizione.

Per strada si incontrava anche il poliparo ovvero il venditore di polpo, il venditore di frittole, i banchi con la griglia sulla quale era cotta  la  “stigghiola”, stecca fatta con interiora di vitello intrecciata con verdi gambi di cipolla. La sua lunga cottura richiede notevole abilità e va consumata bollente con sale e limone. La stigghiola può essere consumata anche bollita, in tal caso prende il nome di quarume cioè caldure; il quarumaro acquista i visceri del vitello che, puliti con acqua e sale, subiscono una prebollitura prima di passare a quella  del brodo con i tipici aromi di carota, cipolla, sedano e pomodoro.

Bollito è servito anche il “musso”, la parte del vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle, i genitali; i vari pezzi lessati vengono serviti freddi tagliati e cosparsi di limone, su un piano inclinato coperto di larghe foglie di broccolo.

Si tratta, è evidente, di una gastronomia popolare adatta ad un forte palato,ma pregnante di storia,un patrimonio culturale da salvaguardare. In questa ottica, si è svolto infatti ad Arezzo il 29 aprile un convegno internazionale sul cibo di strada, organizzato dalla Università di Siena per cogliere al meglio non solo l’esperienza gustativa di questa cucina, ma anche il suo intrinseco valore sociale.

   
 
   
   
 
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