In principio c’era il fast-food, poi lo slow, per
ultimo il finger-food. Seguendo una moda esterofila i termini presi in
prestito dalla lingua inglese indicano, in ordine, un pasto veloce, uno
lento e uno da afferrare con le dita. Dalla tradizione riaffiora così la
pratica del cibo di strada, del piacere di consumare in piedi o su sgabelli
posti davanti i banconi, bocconi golosi. Ritorna l’atavico gesto di prendere
il cibo con le mani, sentire il profumo ed il “calore” che emana.
Il cibo di strada si identifica infatti con le
friggitorie, i carrettini ambulanti, i chioschi; uso legato un tempo
soprattutto alle città di mare, ma anche interne, che svolgevano un ruolo
nevralgico negli scambi commerciali.
Città così come Catania e Palermo, Genova e Firenze o
la lontana Singapore, mettono in “piazza” crespelle e panelle,
farinata e lampredotto o saitai, cioè spiedini di legno su cui sono
infilzati pezzi di carne marinata e grigliata.
La profumata focaccia a base di farina di ceci
(farinata) dal porto di Genova approda a quelli della Toscana per giungere
in Sicilia,a Palermo,non più cotta al forno, ma fritta in piccole porzioni .
La panella è una piccola frittella a base di farina di
ceci ed acqua che semplice negli ingredienti, richiede abilità nella
preparazione. Facoltativa è nell’impasto la presenza di un ciuffo di
prezzemolo così come la spolverata di pepe e qualche goccia di succo di
limone.
Pane e panelle, un tempo nel capoluogo siciliano, si
trovavano dal panellaro; la sua bottega ubicata al pianterreno di
vecchi edifici era impregnata dell’odore di olio fritto e rifritto.
Nelle panellerie il lavoro poteva cominciare anche il
pomeriggio del giorno precedente e proseguire quello successivo sin dal
primo mattino. La farina di ceci veniva cotta a lungo in acqua salata e
rimestata con un grande paiolo a “zattera”. Poi veniva fatta raffreddare,
coperta da una mappina e si attendeva il momento giusto per confezionare le
panelle, evitando che l’impasto si indurisse troppo.
Si usavano particolari formelle di legno, di forma
rettangolare, circolare oppure a semicerchio che avevano la particolarità di
possedere un rilievo floreale. Una sorta di cartina al tornasole che provava
l’immediatezza della preparazione, poiché tale incisione si rendeva visibile
solo sopra una panella fritta da poco. Arredo tipico della panelleria era il
piano inclinato forato, uno sgocciolatoio sul quale venivano riversate le
panelle gonfie di vapore per eliminare l’olio superfluo, prima di essere
gustate così o dentro tipiche pagnottelle calde di forno.
Nella panelleria si consumavano anche minuscole
crocchette di patate, dette cazzilli; in rapporto alla stagione broccoli,
cardi, carciofi… rigorosamente fritti in pastella. Potevano essere aggiunti
persino anelletti al forno, sarde a”beccafico”, frittura di calamari,
melanzane alla parmigiana, a “quaglia”, trippa, pasta con le sarde e quanto
di più buono offrisse la tradizione.
Per strada si incontrava anche il poliparo ovvero il
venditore di polpo, il venditore di frittole, i banchi con la griglia sulla
quale era cotta la “stigghiola”, stecca fatta con interiora di
vitello intrecciata con verdi gambi di cipolla. La sua lunga cottura
richiede notevole abilità e va consumata bollente con sale e limone. La
stigghiola può essere consumata anche bollita, in tal caso prende il nome di
quarume cioè caldure; il quarumaro acquista i visceri del vitello che,
puliti con acqua e sale, subiscono una prebollitura prima di passare a
quella del brodo con i tipici aromi di carota, cipolla, sedano e pomodoro.
Bollito è servito anche il “musso”, la parte del
vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle, i genitali; i vari
pezzi lessati vengono serviti freddi tagliati e cosparsi di limone, su un
piano inclinato coperto di larghe foglie di broccolo.
Si tratta, è evidente, di una gastronomia popolare
adatta ad un forte palato,ma pregnante di storia,un patrimonio culturale da
salvaguardare. In questa ottica, si è svolto infatti ad Arezzo il 29 aprile
un convegno internazionale sul cibo di strada, organizzato dalla Università
di Siena per cogliere al meglio non solo l’esperienza gustativa di questa
cucina, ma anche il suo intrinseco valore sociale.
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