Timballo, pasticcio, sformato, sartù, nomi dagli etimi
diversi, pietanze dalle impercettibili varianti, ma sempre ricche e
sontuose.
Il timballo, piatto in grado di sedurre i palati più
esigenti ,è caratterizzato da una sfoglia di pasta che lo avvolge ed è
farcito da cibi già cotti (pasta, riso, carni, verdure) e passato in forno
nell’apposito recipiente.
Il suo nome sta ad indicare un antico strumento a
percussione, il tamburo o timpano, su cui è tesa una membrana e per
analogia uno stampo di forma cilindrica. Il termine deriva dal francese
timbale a sua volta dallo spagnolo atabal di origine araba. In Sicilia, del
resto l’impronta araba pervade tutta la cucina e l’utilizzo di pasticci
imbottiti di carne era già noto ai tempi degli conquistatori islamici.
Imperioso nell’aspetto, opulento per la quantità e la
ricercatezza degli ingredienti, rigoroso per la forma che ricalca geometrie
e decori di stampi appositamente creati per la sua realizzazione, è comune
tanto alla cucina baronale quanto a quella popolare. La gente umile vuole
infatti emulare le tavole dei nobili, in occasione di ricorrenze, eventi
speciali o festività religiose come il Natale.
L’involucro esterno di questo contenitore commestibile,
può essere dolce o salato,di pasta frolla, di pasta brisée, aromatizzato
spesso con cannella, scorza di limone o con altre essenze. Tale involucro
può essere sostituito da altri alimenti che svolgono il ruolo di “fasciare”,
come fette di melanzane fritte e verdure affini, crespelle o del semplice
pangrattato che, aderendo perfettamente alle pareti unte della teglia, crea
un consistente strato esterno.
La visione del timballo, il cui decorativismo attinge
alla pasticceria, intesa nel senso più ampio del termine come arte del
plasmare, induce la mente e il palato del commensale a esperienze gustative
uniche, in grado di stimolare ed attivare tutti i sensi.
Infinite sono le ricette di questa preparazione, il cui
ripieno non impone limiti alla fantasia. Il timballo della tradizione è
quello di maccheroni, dalle svariate forme e consistenze: corti o lunghi,
secchi o freschi (cioè lavorati a mano) lisci o rigati. Ziti, mezzemaniche,
fettuccine, lasagne…e persino il riso, cereale di antica tradizione
siciliana, oggi desueto. Le verdure, le carni tra le quali quelle di gallina
contenente le uova non nate, animelle e rigaglie (frattaglie).
Il timballo eleva i maccheroni, associati spesso alla
schiettezza e alla semplicità del popolo, a piatto di prestigio, infatti la
sua fama a partire dal secolo XVII travalica le Alpi, innalzandolo a piatto
nobiliare e facendogli assumere un ruolo di primaria importanza nella
letteratura gastronomica francese e italiana. Il famoso cuoco Antonin Carême
celebra il timballo di maccheroni tanto da renderlo una preparazione di
prestigio per l’Italia del Risorgimento e per la Francia dell’Impero e della
Restaurazione.
L’interscambio tra le due culture gastronomiche, già
nel Rinascimento aveva visto il prevalere della cucina italiana e in
particolare toscana in Francia grazie a Caterina dei Medici, famosa, nello
specifico, per aver introdotto l’uso di elaborati pasticci di carne. Nel 600
e nel 700, i ruoli si invertono, l’egemonia spetta alla cucina francese che,
ingentilisce ed armonizza l’uso dei prodotti, controllando il dosaggio delle
spezie, equilibrando contrasti fra dolce e salato e introducendo nuove
tecniche di cottura. La superiorità di questa cucina contribuisce alla
istituzione di un gergo specifico tuttora presente nel lessico abituale
della gastronomia siciliana: monsù da monsieur, ragù da ragoût, gattò da
gateaux…
Il sartù, affine al timballo ed al pasticcio,
etimologicamente deriva anche dal francese surtout che indica una
decorazione da centrotavola.
L’idea di creare un timballo di pasta è tuttavia tipica
dell’Italia meridionale, Napoli e Sicilia in particolare. E’ in Sicilia,
proprio nell’isola del sole, che padre Labat, tra i primi viaggiatori del
grand tour, scopre per la prima volta all’inizio del XVIII sec. un pasticcio
di maccheroni: ”Non avevo mai visto pâtè di maccheroni. I maccheroni erano
stati cotti in un brodo di latte di mandorle, di cannella, della vera uvetta
di Corinto, dei pistacchi del Levante, delle scorze di limoni, i salamini
più delicati e guarniti con pasta di Genova”.
Dal prototipo di un timballo che evoca retaggi arabi e
rinascimentali, passiamo a quello più aristocratico e più famoso della
letteratura italiana, un “torreggiante timballo di maccheroni”: Don
Fabrizio, principe di Salina, lo offre ai suoi ospiti, per celebrare
l’importanza e la solennità del primo pranzo a Donnafugata, feudo e località
di villeggiatura della famiglia.
La superficie dorata di questo “trionfo di gola”
rappresenta una premessa ai tesori che vi si celano all’interno. Primo fra
tutti il tartufo, fungo ipogeo, che pur essendo presente nel sottobosco
della Sicilia, non rientra nella sua tradizione culinaria: forse perché di
dimensioni più modeste rispetto a quelli noti del Piemonte e dell’Umbria,
forse per il suo aroma meno intenso o forse semplicemente perché i cuochi
siciliani preferivano esaltare i loro piatti con i profumi del Mediterraneo.
La demi-glace,il fondo bruno, è un ulteriore elogio
alla professionalità e all’abilità dei monsù. I tempi di cottura prolungati,
la varietà delle carni e delle verdure utilizzate, le operazioni scandite ad
intervalli di tempo regolare, fra le quali la schiumatura, la filtrazione,
la sgrassatura ne fanno un autentico boccone da re. Una portata che non
tutte le bocche sono in grado di apprezzare ed infatti soltanto il
Principe,autentico Gattopardo, si accorge di quanto la demi-glace sia
carica:“…l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare
fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di
zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della
sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello
squarciava la crosta:ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si
scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di
prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei
maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color
camoscio”.
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