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Dopo il terremoto la popolazione che rientra si troverà a vivere per molti anni in una  città tutta di legno.
 
 
Il terremoto che distrusse Messina
di Sergio Bertolami

 

 

All’indomani del sisma, a popolare Messina, non sono rimaste che quattro-cinquemila persone riparate in ricoveri di fortuna costruiti con materiali di recupero. Il resto della popolazione (poco più di sessantamila senzatetto sui 111.815 abitanti che la città contava) si è allontanato spontaneamente o è stato instradato dai comitati di soccorso verso varie località della penisola. Nel corso del 1909 tuttavia la popolazione tornerà gradualmente ad aumentare, per il rientro dei profughi e per l’immigrazione conseguente alla edificazione della città baraccata.

Il programma di soccorso che il Governo ha stabilito prevede di non protrarre i termini per il riassetto oltre il 30 giugno 1909. In un primo tempo l’opera e le spese previste sembra debbano limitarsi alla costruzione di baracche provvisorie fatte con copertoni di gomma o di cartone-cuoio. Serviranno a riparare per i primi mesi sopravvissuti e soccorritori dalle rigidezze invernali. Ma è con l’istituzione dell’Ufficio Speciale del Genio Civile che, all’incalzare dei provvedimenti dettati dall’emergenza, si sostituisce una visione documentata della realtà di fatto. I ricoveri temporanei vanno sostituiti con soluzioni più stabili soprattutto in previsione di un rientro dei profughi, necessario e inevitabile; bisogna inoltre ricostituire le sedi degli uffici amministrativi e dei servizi pubblici. Prevale l’opinione che tutto ciò vada fatto in modo organico, cosicché la scala delle previsioni temporali si allarga da qualche mese a qual­che anno.

Ridare vita ad una città rasa al 95% non è un problema risolvibile a tempi brevi, soprattutto se si vuole percorrere la strada della ricostruzione stabile del patrimo­nio edilizio. Ciò significherebbe demolizioni e sgombro delle macerie di cui il centro urbano è ricolmo e risistemazione della rete viaria per il trasporto dei materiali pesanti: ma le strade sono sconvolte, ingombre, fangose a causa della stagione piovosa. Manca la manodopera edile, specializzata o meno, giacché manca la popolazione stessa: persino il Genio Militare trova difficoltà a reclutare cottimisti civili per costruire i propri alloggiamenti.

Certo erigere costruzioni in muratura risolverebbe al contempo il duplice problema di fornire con urgenza una abitazione ai superstiti nuclei familiari e di riedificare la città distrutta riattivando così l’attività economica, commerciale e industriale. Ma il Governo ritiene opportuno raggiungere il medesimo obiettivo optando per la costituzione di una città provvisoria, formata da gruppi organici di baraccamenti da trasformare gradualmente nella città stabile. La soluzione permette innanzi tutto di sgravare l’Erario dello Stato da una spesa ben maggiore condividibile all’atto della ricostruzione vera e propria con l’impegno economico dei pri­vati. Sin da ora però occorre aver chiaro l’iter legislativo per risolvere i problemi relativi all’occupazione delle aree, compito che sarà attribuito alla apposita commissione istituita con la L. 12/1/1909 n. 12. Al momento lo strumento cui attenersi è la vecchia legge del 1865 n. 2359 sull’espropriazione dei suoli per pubblica utilità, espropriazione temporanea che l’art. 71 limita a due anni e che in deroga a questo l’art. 3 della legge n. 12 porterà a cinque, da protrarsi anno per anno per il massimo di un altro quinquiennio. A conti fatti dieci anni di respiro e di riflessione.

In quest’ottica la città più che provvisoria andrebbe considerata semistabile; e questo sa