Tutte
le innumerevoli scienze e
discipline che studiano il
comportamento sociale e culturale
dell’uomo, rientrano nella
definizione più generale di
scienze demo-etno-antropologiche.
All’interno di questo grande
contenitore si contano diverse
branche: l’antropologia culturale
e sociale, l’etnologia, il
folclore e la sociologia. Tale
termine, tuttavia, è molto usato
in Italia, ma nel mondo anglofono
non vi è una perfetta traduzione
scientifica.
Molte
branche scientifiche ebbero inizio
dal Seicento in poi. Ma è
dall’illuminismo settecentesco,
con la centralità della figura
umana, che si originano le
discipline che studiano l’attività
sociale e culturale di esso. Ad
esempio: la giurisprudenza, la
storia, la filologia e la
sociologia. Tra gli studiosi che
se ne occuparono, possiamo citare:
Thomas Hobbes, Jean-Jacques
Rousseau, Ugo Grozioe Samuel
Pufendorf. Più tardi, Wilhelm
Dilthey, introdusse il concetto di
cultura, basilare per le
discipline correlate.
Tuttavia, le vere analisi sul
mondo umano arrivarono
nell’Ottocento. L’espansione
coloniale nel resto del mondo
(Africa, Asia, America e
Australia), comportò degli
interrogativi sulle etnie
“conquistate”. Con la raccolta di
dati sulla geografia, sulla
diversa flora e fauna, iniziò
anche lo studio della cultura, del
linguaggio, dell’oggettistica e
della fisiologia delle lontane
popolazioni, praticamente
sconosciute. . L’ottica con cui
si giudicavano le altre culture
etniche era allora quella
evoluzionista. Se la società
industriale dell’Ottocento era
giudicata come lo stadio culturale
più avanzato (in un unico tipo di
evoluzione), le altre società
etniche erano commisurate con
questa. Facile giudicarle
arretrate. Ma poiché la propria
organizzazione sociale era la
modernità, le altre erano viste in
una scala che partiva dall’uomo
primitivo e arrivava all’ottocento
europeo. Negli altri continenti vi
erano, perciò, culture più o meno
primitive. Gli altri popoli erano
collocati in questo unico cammino.
Per assurdo, gli antropologi
evoluzionisti studiavano questi
fossili, per conoscere i primordi
della propria cultura. Tuttavia,
questi antropologi non avevano un
esperienza diretta delle altre
popolazioni. A farlo erano
esploratori, missionari e
ufficiali coloniali. I loro
rapporti di viaggio finivano sui
tavolini degli antropologi, che
“studiavano” le varie etnie seduti
in poltrona. Quindi, del tutto
teoricamente. Negli Stati Uniti,
il primo antropologo maggiormente
pratico fu Lewis Henry Morgan, che
analizzò la cultura dei nativi
americani, ma sempre in ottica
evoluzionista. Ciononostante
l’evoluzionismo non era l’unica
teoria imperante. L’alternativa
era rappresentata dal
diffusionismo. Questo sosteneva
che la cultura etnica poteva
allargarsi e spostarsi
geograficamente, creando il
concetto di area culturale,
tutt’ora molto utilizzato. Questa
teoria ebbe molta presa sugli
studiosi austro-tedeschi, non
mancando, però, esponenti
britannici e statunitensi.
Nel
Novecento sino ad oggi
Agli inizi del nuovo
secolo la teoria più diffusa era
ancora quella evoluzionista. Andò
sviluppandosi parallelamente una
teoria che si basava sul concetto
di razza. Le persone, ma
soprattutto le etnie si
differenziavano tra loro per
presunte differenze biologiche.
Una vera e propria classificazione
razza per razza. Il medico Cesare
Lombroso giunse a sviluppare un
complesso studio di antropologia
criminale, alla ricerca, basata
sulla fisionomia del volto, di
ottenere la specifica fisionomia
fisica del criminale "tipo".
Ciononostante, la gran parte degli
antropologi non fu convivente con
questa deriva razzista, anzi vi
furono parecchie contestazioni. La
lunga strada intrapresa dalla vera
antropologia si basò inizialmente
su metodi e tecniche specifiche.
Furono adottate le nuove proposte
di contatto come le "interviste
strutturate" o l'"osservazione
partecipata". Piano piano si uscì
dalla mentalità evoluzionista del
“primitivo” per approdare a quella
dell’”altro”. A differenza
dell’Ottocento, il rapporto con le
altre culture provocò un
ripensamento e riflessione sulla
stessa società moderna. Proprio in
questo quadro allargato si cercò
di costruire una vera scienza
oggettiva. All’evoluzionismo
teorico si preferì la ricerca sul
campo per le informazioni e le
relazioni effettive all’interno
dei gruppi sociali sotto analisi.
Alla vigilia della seconda guerra
mondiale si costituirono, in
pratica, le tre principali scuole
di pensiero: l'antropologia
culturale americana,
l'antropologia sociale britannica
e l'etnologia francese. Le
riflessioni anteguerra trovano
compimento successivamente, negli
anni cinquanta e anni sessanta,
in un nuovo atteggiamento,
lo struttural-funzionalismo, che
concepisce la società non statica
ma dinamica, in un continuo
processo di edificazione sociale,
dove l’individuo si relaziona a
questa società sempre in
movimento, divenendone un attore.
Nello stesso periodo, in Francia,
allo struttural-funzionalismo si
affiancano lo strutturalismo di
Lévi-Strauss e l'antropologia
marxista. Lévi-Strauss concepisce
la società come pensiero astratto
creato dalla mente umana in
maniera inconscia, nelle diverse
versioni culturali. L'antropologia
marxista analizza il potere
coloniale e l’antropologia locale,
sia nella società che negli
aspetti produttivi. Lo
strutturalismo diede origine,
negli anni sessanta e settanta,
agli sviluppi successivi, ossia
l'"antropologia cognitiva" e
l'"analisi componenziale".
Ciononostante, negi stessi anni
settanta, antropologi americani,
ma anche europei, contestarono i
modelli principali di studio sul
campo e la stessa formazione del
sapere antropologico. Di
conseguenza negli anni ottanta,
apparvero i primi studi sugli
aspetti del potere e
dell'egemonia. Negli ultimi
due decenni, si è affermata
l'antropologia della complessità,
dove in gioco entrano proprio le
complessità delle società moderne
e globalizzate.
|
|