La cultura umanistica del quattrocento italiano,
fondata sul razionalismo (proprio dei pensatori, dei poeti e
degli artisti), riparte, in ambito teatrale, con la riscoperta
del Teatro Classico, e con esso può rinascere il teatro laico
e colto. L’Arte del teatro, torna a far parte della vita
pubblica. Nelle corti italiane e poi europee si recitano gli
antichi testi prima in latino e poi in volgare. Nello spazio
tra un atto e il successivo, nasce l’intermezzo musicale di
argomento mitologico. Da esso si svilupperà il melodramma e il
teatro d'opera. Vengono composti, sempre ispirandosi agli
autori greci e latini, i primi copioni. Tra gli autori
citiamo: Ariosto, Tasso, Guerini, Bibbiena e Machiavelli.
Il Teatro, con il ripensamento della scena, e studiando
Vitruvio, diedero vita alla prospettiva scenica (con
Baldassare Peruzzi). Un allievo del Bramante, Serlio, ideò le
tre scene archetipo: per la tragedia, per la commedia e per
l'azione satiresca, ognuna con le sue caratteristiche
tipologiche. Lo splendore del teatro di corte, sempre più
ricco e stupefacente, attirò artisti e uomini di cultura, come
Vasari, Raffaello e Giulio Romano. E’ risaputo che Leonardo da
Vinci progettò macchine sceniche per gli "Olimpi"
(divertissement in maschera).
Nel ‘500 si edificano i primi teatri, dopo il buio medievale,
come il Teatro Olimpico di Palladio a Vicenza (1579-80)
Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre
1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è considerato l’ultimo grande
umanista. Nonostante il tramonto dell’Umanesimo, egli continua
ad impersonificare “l'uomo nuovo che si pone al centro del
mondo”, demiurgo della vita e della realtà fantastica. Famoso
e influente al suo tempo, egli rinnova superando i canoni
epocali. L’ottava applicata dall’Ariosto nei suoi testi,
chiamata "ottava d'oro", rappresenta un canone d’eccellenza
della letteratura fino all’illuminismo. Nacque da famiglia
nobile ferrarese: il padre era inserito nella corte del duca
Ercole I d'Este ed era comandante militare degli Estensi a
Reggio Emilia, la madre Daria Malaguzzi Valeri, era una
nobildonna di Reggio Emilia. Fu avviato dal padre verso gli
studi di legge a Ferrara, ma li abbandonò per seguire studi
umanistici presso il monaco agostiniano Gregorio Da Spoleto.
Morto il padre nel 1500, l’Ariosto, essendo il primo di
dieci figli, dovette assumersi il compito di amministrare la
famigli. Ottenne notevoli incarichi di tipo politico e
militare, e per tutta la vita gli furono offerti e rivestì
posti d’ preminenza. Ad esempio nel 1522 Alfonso d’Este lo
incaricò del governo della Garfagnana, appena annessa al
Ducato di Ferrara. Il suo più grande desiderio da
“sedentario”, come egli si definiva, fu quello di dedicarsi
alla letteratura. La sua più importante opera è, senz’altro,
l’Orlando Furioso,
che iniziò a scrivere nel 1505 e pubblicò nel 1516. Nel 1525,
fermatosi a Ferrara, si dedicò alla composizione e alla messa
in scena di alcune commedie e all'ampliamento dell'Orlando
Furioso. L’opera, come le altre che compose, non è un
poema di corte, ma è la prima opera letteraria ad essere
pensata e finalizzata alla pubblicazione tipografica, tale da
raggiungere un pubblico decisamente più vasto. Rappresenta,
quindi, la prima grande opera di letteratura moderna nella
cultura occidentale.
Di nobili origini Torquato Tasso (Sorrento, 11 marzo 1544 – Roma,
25 aprile 1595) deve la sua fama soprattutto all’opera
Gerusalemme liberata
e alla sua stessa vita, che ne ha fatto un eroe romantico,
variamente usato da numerosi autori nella prima metà
dell’Ottocento. Il suo stile si confronterà con quello del suo
contemporaneo Ludovico Ariosto: tanto
coerente ed educativo (ma meno
appassionante) il primo,
quanto fantastico e piacevole, ma confuso, quello del
secondo.
Poiché il
padre fu esiliato dal Regno di Napoli (nel 1554), il Tasso da
giovane visitò diverse città e corti: Roma, Urbino (nel 1557)
e Venezia (nel 1559). Qui iniziò la stesura del suo primo
poema, il Gierusalemme, all’età di quindici anni.
Successivamente svolse i suoi studi a Padova e a Bologna
(diritto, poi letteratura e filosofia). A Padova si iscrisse
all'Accademia degli Eterei ed in seguito a quella degli
Infiammati. In occasione delle nozze del duca Alfonso II,
il Tasso si recò a Ferrara, nel 1565, dove dimorò felicemente
per diverso tempo. Conobbe artisti come Battista Guarini,
Giovan Battista Pigna e altri intellettuali e letterati. Era
ben accetto nella corte ferrarese per le sue qualità poetiche
e per l'eleganza mondana. Il periodo fu fecondo di opere:
riprese l’opera giovanile sviluppandola e dandogli il nuovo
titolo Gottifredo.
Nel 1575 realizzò il
Discorso sull'Arte Poetica, e, dopo aver sottoposto
al giudizio di esperti il suo Gottifredo, alle
critiche sollevate rispose scrivendo, nel 1576, Allegoria.
Sembra essere tutto perfetto, ma la salute psichica del poeta
inizia un doloroso cammino. Vere e proprie manie di
persecuzione, insicurezze, paranoie, gli complicano la vita.
Quando, nel 1579, alle terze nozze di Alfonso II con
Margherita Gonzaga, dà in violente escandescenze, il suo
destino è segnato: viene segregato nell'Ospedale Sant'Anna.
Nella celebre cella, detta poi "del Tasso", passa sette anni
della sua vita. Nonostante, però, il quadro clinico rimanga
scuro, Tasso continua a scrivere: nel 1580 dà alle stampe il
dramma pastorale Aminta,
sempre nello stesso anno (senza la sua autorizzazione), viene pubblicata
a Venezia la prima parte del Gottifredo,
organizzato in 14 canti. Spinto dal successo riscosso, Tasso,
nel 1581, pubblica a Ferrara la Gerusalemme liberata.
La malattia
mentale che lo caratterizza, ma la perfezione dei suoi
scritti, fa nascere un sospetto e poi una leggenda sul suo
conto, secondo la quale egli veniva rinchiuso
nell’Ospedale senza essere veramente pazzo. La realtà era che
il duca lo aveva imprigionato a causa di una relazione segreta
con sua sorella. Il Tasso, autore di drammi epici, diventa
l’eroe della sua stessa vita. La popolarità che si diffuse sul
suo nome e sulle sue vicende, portò Goethe a scrivere nel 1790
il dramma Torquato Tasso.
Durante il periodo romantico, la sua figura venne idealizzata: il genio,
misconosciuto e oppresso, viene elevato a simbolo dello
scontro tra individuo e società. Giacomo Leopardi lo considerò
sempre come un
fratello spirituale, e lo citò spesso nelle sue opere,
tanto da dedicargli il Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio famigliare (contenuto nelle Operette morali).
Tra gli altri, ammirati dalla storia e dalla personalità del
Tasso, possiamo citare Jacopo Cabianca (poeta vicentino del
XIX secolo) che compose, appunto, Il Torquato Tasso, un
poema in dodici canti a lui ispirato.
Per il teatro,
Torquato Tasso scrisse una favola pastorale L'Aminta,
nel 1573, che fu poi pubblicata nel 1580 circa. Dell’opera il
grande critico ottocentesco
Francesco De Sanctis scrisse: ”L'Aminta non è
un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali
e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione
drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le
tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in
Italia. ... Essa è in fondo una novella allargata a commedia,
di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione
italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo, la
cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due
protagonisti, Virginia e il principe di Salerno. Gli
avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità,
appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e
capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti
alla narrazione ... L'Aminta è un'azione fuori del
teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni
e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e ricca di cori, il cui
concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei
piace, ei lice". Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti
idillici, anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano
descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale,
piena di grazia e delicatezza, che rende voluttuosa anche la
lacrima. Semplicità molta è nell'ordito, e anche nello stile,
che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza, con una
sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è
perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà
un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto
concetti. È un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un
raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di
perfezione, e certo non ci è opera d'arte così finemente
lavorata.”
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