Pierre Corneille, Jean Racine e Jean-Baptiste
Poquelin detto Moliere, sono le tre stelle del teatro classico
seicentesco francese. Con la rappresentazione della “Sophonisbe”
di Jean Mairet la classicità irrompe con la tragedia sulle
tavole del palcoscenico in Francia.
Pierre Corneille
(Rouen, 6 giugno 1606 – Parigi, 1º ottobre 1684), fu un
importante esponente di questo tipo di teatro, (dovuto alla
riscoperta dell’antica storia romana). Ai suoi inizi egli
scrive quasi esclusivamente commedie, che fanno parte del
filone della "commedia eroica". Nella stagione 1635-1636,
scriverà successivamente
L'illusione comica,
ritenuta uno dei suoi capolavori. La sua prima tragedia,
datata 1629, è “Mélite”,
che, rappresentata a Parigi, ottenne grande successo. La messa
in scena dell’opera " Le Cid" dà il via alla grande stagione
dell’autore francese. In onore del Cardinale Richelieu, che lo
aveva inserito nella società dei cinque autori
(1635), produttori di opere teatrali su commissione,
egli scrisse la tragedia “Medea” e, poi, l’" Horace". Tra i suoi titoli maggiori
seguenti abbiamo: "Cinna", " Andromede", " Nicodeme" e "
Psiche'", in cui cantò il tema dell’amore.
Jean Racine
(La
Ferté-Milon, 22 dicembre 1639 – Parigi, 21 aprile 1699),
partecipante, con diritto,
alla grande stagione della tragedia nell'age
classique francese, diviene scrittore teatrale dopo il suo
incontro con Moliere. Diversi sono i copioni, come diversi
sono i temi delle opere che ha scritto. " La thebaide",
composta a soli venticinque anni, " Andromaque", tragedia di
passioni, " Phedre", il suo punto massimo, " Berenice", che si
caratterizza come teatro della Ragione. Sulla tragedia
raciniana Michel Foucault ha scritto: «Nel teatro di Racine
ogni giornata è minacciata da una notte: notte di Troia e dei
massacri, notte dei desideri di Nerone, notte romana di Tito,
notte di Atalia. Sono queste grandi facce di notte, questi
quartieri d'ombra che frequentano il giorno senza lasciarsi
annientare, e non spariranno se non nella nuova notte della
morte. E, a loro volta, queste notte fantastiche sono
ossessionate da una luce che forma come il riflesso infernale
del giorno: incendio di Troia, torce dei pretoriani, luce
pallida del sogno. Nella tragedia classica francese giorno e
notte sono disposti a specchio, si riflettono all'infinito e
danno a questa semplice coppia un'improvvisa profondità che
con un solo movimento avvolge tutta la vita e tutta la morte
dell'uomo». (Michel Foucault, Storia della Follia nell'età
classica, Bur 1976)
Figlio di un tappezziere di
Corte, Jean-Baptiste
Poquelin detto
Moliere (Parigi, 15 gennaio 1622 – Parigi, 17 febbraio
1673), appassionato del teatro, iniziò dalle piccole compagnie
che miseramente girovagavano per la Francia. Nonostante sia
conosciuto come autore, egli iniziò la sua attività come
attore e regista. Conobbe il teatro italiano attraverso la sua
amicizia con il grande Scaramuche, Tiberio Fiorilli (oltre che
attore anche danzatore, acrobata e musicista). La sua gavetta
professionale lo segnò stranamente. Dietro i suoi personaggi
vi sono sempre gli attori che dovranno recitarli,
caratterizzando, con la loro personalità e interpretazione,
ogni battuta che gettava sul foglio. Proprio del testo era la
messa in scena, che sarebbe seguita, con la sua espressivita',
il ritmo, il movimento e la mimica stessa degli attori. Ad
esempio, il personaggio di Bejart nell'Avaro si rifà ad un suo
amico, attore della compagnia, che era zoppo, e che,
probabilmente, avrebbe dovuto interpretarlo. Moliere,
prendeva i soggetti dalla vita stessa, ovunque il suo occhio
attento individuava lo spunto giusto. Egli si impadroniva
delle espressioni, il carattere, le strane fissazioni o
qualunque realtà ironica. Ecco perché i suoi personaggi sono
vivi e concreti, immediatamente memorizzabili. E poiché
lentamente ascendeva nella vita e nelle classi sociali, egli
si ritrovò a distinguere motivi di rappresentazione anche nei
potenti, nella nobiltà, e nei suoi colleghi attori che
frequentavano tali ambienti. Piu' volte si trovò a difendersi
da infuocate accuse che provenivano dalla chiesa e dai vari
nobili, nuovi nobili e colleghi che ne lusingavano
ipocritamente tale nobiltà. Ma Moliere, come si dice, scrisse
solo commedie e libelli di autodifesa?
No, due sono le
motivazioni che stanno alla base della sua opera: la
possibilità di migliorare la società facendo riflettere sul
nostro carattere e il raggiungimento da parte della commedia
dello stesso livello della tragedia, ritenuta allora superiore
(cosa che gli riuscì pienamente). Il fatto che attingesse
ironicamente dalla vita stessa, gli fece notare anche che le
contraddizioni della
società spesso derivavano dal pensiero dei suoi contemporanei
(Moliere conosceva anche gli sviluppi della filosofia e del
pensiero razionale). Correggere i
vizi umani e gli inspiegabili risvolti del carattere mettendo,
quasi uno specchio davanti ai propri spettatori, poteva far
giungere a quella “Catarsi” di cui parlava Aristotele (vedi
personaggi quali, ad esempio, Tartufo, Don Giovanni, e
il Malato Immaginario). Asceso all’alta società, egli si
incontrò (e si scontrò) con i suoi colleghi della tragedia,
stimati solo per questo. I pedanti, stucchevoli e imbalsamati
autori e attori drammatici, che giocavano con i rigidi schemi
della tragedia seicentesca, erano molto spesso più vicini alla
vanità e al patetico, che alla finta grandezza delle opere che
interpretavano. Questo, come già detto, gli procurò inimicizie
e noie, da cui riuscì a difendersi per opera della stima che
gli portava Re Luigi XIV. Con la commedia " L'ecole des
femmes" e con gli atti unici "Critica alla scuola delle
mogli", " La scuola dei mariti" e " Improvvisazione a
Versailles" (ma, in
generale, con l’intera sua opera), Moliere superò e scavalcò
il teatro classico, suo contemporaneo, per giungere ad una
modernità che spiega il successo delle sue commedie ancora ai
giorni nostri.
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