Tra il Cinquecento e il Seicento si diede molta
importanza al recupero della tragedia greca, e poiché si
riteneva che questa fosse la summa delle arti, si diede
origine al melodramma, cioè ad un nuovo genere musicale.
Inizialmente il melodramma era un insieme di recitazione e
canto vero e proprio (una recitazione intonata, detta
recitar cantando). Gli spettacoli avvenivano, per lo più, all’interno delle corti reali e
aristocratiche, dando inizio a melodrammi di argomento
classico e mitologico. Le rappresentazioni interessarono,
anche se marginalmente, il pubblico popolare, tanto che nel
1637 venne inaugurato a Venezia il primo teatro pubblico.
Attualmente il termine
Melodramma è sinonimo di opera lirica. Agli inizi del
XVIII secolo si diffuse la moda arcadica, anche nel teatro,
ben interpretata, in Italia,
dal Metastasio
(Roma, 3 gennaio 1698 – Vienna, 12 aprile 1782) con la sua
opera. Il rinnovamento del melodramma del tempo di
Metastasio si basa, principalmente, sulla commedia
sentimentale di Cornaille. Nonostante si parli di un
dramma messo in musica, delle 27 opere del Metastasio scritte
in quasi 50 anni di mestiere, solo tre si concludono
tragicamente (Didone Abbandonata, Catone in Utica, Attilio
Regolo), di queste solo Catone in Utica, prevedeva la morte in scena del
protagonista, ma dopo le critiche ricevute, Metastasio si
convinse a mutare il finale: la morte di Catone
venne narrata dalla figlia Marzia. Le sue composizioni
principali sono: “Clemenza di Tito”, “Temistocle” e l’”Attilio
Regolo”. Su Metastasio e sulla sua arte, molto apprezzata,
Foscolo scrisse sul Gazzettino del Bel-mondo:
«...monarca della Tragedia Italiana cantata da Cesari e Catoni
non uomini».
Successivamente all’arcadia arrivò la tempesta illuminista,
che spazzò via antichi usi e intendimenti, rinnovando la
società, per portarla al passo delle scoperte scientifiche e
tecnologiche. Nel teatro si chiese una maggiore pulizia,
rigore ed ordine. Carlo
Goldoni (Venezia, 25 febbraio 1707 – Parigi, 6 febbraio
1793) rinnova la commedia sostituendo il testo scritto
all’improvvisazione della Commedia dell’arte; realizza un
teatro di carattere, con personaggi ben delineati e
approfonditi psicologicamente. Con lui irrompe la semplicità e
la simpatia dei protagonisti, molto spesso, ispirati alle
classi sociali inferiori, ma, soprattutto, alla classe
borghese, che va imponendosi a scapito di quella
aristocratica. Scrisse opere in lingua come "Servitore di
due padroni" "La bottega del caffe" "La locandiera" "Il
ventaglio"; opere in dialetto veneziano come “I Rusteghi”, “Le
Baruffe Chiozzotte”; e il lingua francese come “Il Burbero
Benevolo”. Nella sua enorme produzione aveva come fine
quello del superamento della Commedia dell’Arte. Portò a
recitare i riottosi attori sulla base di un copione e non più
improvvisando la Commedia sul palcoscenico. Per questo fu
molto criticato e, soprattutto, ostacolato dalle inimicizie.
Alla fine della carriera fu costretto ad esulare in Francia, a
Parigi. La sua rivoluzione diede, come nelle sue aspettative,
un livello alla Commedia pari a quello che, ai suoi tempi,
veniva riconosciuto alla tragedia e al melodramma. La sua
opera egli crea la Commedia di Carattere, la commedia a
soggetto, e, con stesure di versi, anche una commedia poetica.
L’attenta osservazione della società e dei suoi simili,
l’espressione verbale, l’ispirazione dalla storia del teatro e
della vita, la concezione morale, spesso non mancava di
inserire piccoli “sermoni” (si definiva un " allegro
predicatore"), l’ambientazione scenica nella realtà, finirono
per dare una fresca attualità, allora come oggi.
Verso il tramonto del secolo si fanno sentire i primi
effetti del Romanticismo, che si svilupperà pienamente nella
prima metà dell’Ottocento. Fa parte di questo periodo
Vittorio Alfieri
(Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803).
Per il suo carattere passionale e libero, si può definire un
precursore delle inquietudini romantiche. Per il suo rigore e
severità, applicato alle tragedie, rientra nella zona classica
(sul modello di Seneca a cui si ispira). Nel 1775, dopo
anni di vagabondaggio giovanile in tutta Europa, tornato a
Torino, compone la sua prima tragedia: Antonio e Cleopatra. Il
successo riscosso lo incoraggia a continuare. Nascono drammi
come Antigone,
Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra (le tragedie sono
ventidue). Tutte le sue opere sono scritte in endecasillabi
sciolti, rispettando il concetto di unità aristotelica. Il suo
capolavoro è considerato il “Saul”. Tema principale è il
rapporto tra libertà e potere e alla vittoria dell'individuo
sulla tirannia. Ma le sue personali riflessioni lo portano a
trattare anche sentimenti ed emozioni più intime ed umane e
sulla società in cui vive. La libertà e la ribellione lo
ponevano in piena sintonia con la Rivoluzione Francese.
Spettatore, insieme alla moglie, dei moti rivoluzionari del
1789 a Parigi, Alfieri ne fu subito esaltato. Di getto scrisse
l'ode a Parigi sbastigliato.
Quando, però, nel
1792, dopo l’arresto di Luigi XVI, iniziarono le stragi
giacobine, tornò con la moglie in Toscana e il suo entusiasmo
si trasformò in odio. Rinnegata l’ode favorevole scrisse le
rime del
Misogallo. Si concentrò, tra il 1792 ed il 1796, quasi
volendo cancellare quegli avvenimenti, in una serie di
traduzioni di autori greci: Euripide, Sofocle, Eschilo e
Aristofane. All’arrivo di Napoleone in Italia, l’Alfieri
dovette fuggire per nascondersi in una villa presso Montughi.
I suoi sentimenti anti francesi lo portarono, nel 1801, a
rifiutare persino la nomina a membro dell'Accademia delle
Scienze di Torino. Due anni dopo morì all'età di 54 anni. E’
sepolto nella basilica di Santa Croce. Il
Leopardi nel suo
Zibaldone (1823), scrive di uno spettacolo teatrale a
Bologna dell'Agamennone
di Alfieri: “Destò
vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio
verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del
marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea
gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse.”
|
|