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Publio Virgilio Marone nasce nel piccolo villaggio di Andes
(individuato nell’odierno borgo di Pietole) vicino Mantova,
il 15 di ottobre del
70 a.C. Suo padre, Stimicone, era un piccolo
proprietario terriero che aveva fatto fortuna con l’apicultura,
e sua madre, Polla Magio, era la figlia di un ricco mercante.
Virgilio iniziò gli studi a Cremona, per continuarli poi a
Milano ed
infine a Roma.
Studiò
lettere greche e latine ma anche matematica e medicina, tanto da
divenire veterinario per cavalli. A Roma ultimò i suoi studi di
oratoria ed eloquenza presso Epidio, docente rinomato
in quell'epoca, per
divenire avvocato, mestiere che apriva la strada alla fortuna
politica. Virgilio era, però, timido e
riservato, tanto che
perse la sua prima causa perché non riuscì ad aprire bocca
davanti al pubblico. Chiaramente in crisi esistenziale, Virgilio
si trasferì, nel 44 a. C., a Napoli, dove studiò filosofia alla
scuola di Sirone e Filodemo, filosofi epicureisti. A Napoli
conobbe sia importanti politici che letterati, del calibro di
Orazio. Ma in quegl’anni molti furono gli accadimenti storici
che finirono per coinvolgere indirettamente il poeta: dalla
guerra tra Cesare e Pompeo, l’uccisione del vittorioso Cesare da
parte di Bruto e Cassio, la guerra di questi ultimi con
Ottaviano e Marco
Antonio,
conclusasi
con la battaglia
di Filippi (42 a.C.) e la successiva distribuzione delle
terre ai veterani dello scontro. Le terre del padre, infatti,
vennero confiscate e l’intera famiglia, sul lastrico, si rifugiò
a Napoli presso Virgilio. Con le Bucoliche iniziò la sua
fortuna. Il successo riscosso dall’opera lo portò a conoscere
Mecenate, che lo fece entrare nel suo circolo. Iniziò a
frequentare i possedimenti di questi in Campania e in Sicilia,
e, sempre attraverso Mecenate, conobbe lo stesso Augusto,
divenendo diffusore delle sue idee. Ormai giunto al centro
dell’Impero, Virgilio ne divenne il vate. Ma, dopo un viaggio in
Grecia, al suo ritorno, per un colpo di sole (così riportano i
suoi biografi) morì, improvvisamente, a Brindisi,
il 21 settembre del 19 a.C.
La sua più importante opera, l’Eneide, rimase priva delle
necessarie revisioni e
ritocchi finali. Sembra che alcuni passi, ad esempio, i rapporti
matrimoniali tra Venere e Vulcano (del libro VII), non
convincessero più Virgilio, oltre a versi non completati e, si
suppone, la stessa fine del libro, che oggi ci sembra troppo
brusca. Nel suo testamento,però,
Virgilio raccomandava di distruggere l’opera se non
ultimata, ma i suoi amici,
Tucca e Vario, consegnarono il manoscritto ad Augusto, che fu di
parere contrario, facendolo pubblicare con modifiche di scarsa
entità.
Vi fu chi, nel
XV secolo, tentò di completare il romanzo nella parte
conclusiva. Due furono i tentativi: quello di Pier Candido
Decembrio, che non fu portato a termine, e quello di Maffeo
Vegio, poeta, che realizzò una parte finale, la quale, nelle
edizioni cinquecentesche dell’Eneide, veniva aggiunta con il
nome di Supplementum.
. La salma di Virgilio fu portata a Napoli e tumulata sulla
collina di
Posillipo, nel sepolcro da lui stesso ideato con
proporzioni pitagoriche.
Nel medioevo l’urna fu trafugata, come vedremo in seguito.
Rimane l’incisione sul marmo col celebre epitaffio:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini
pascua, rura, duces.
"Mi generò Mantova, la Calabria (la Puglia) mi rapì: ora mi
custodisce Partenope (Napoli); cantai i pascoli (le Bucoliche),
i campi (le Georgiche), i duci (l'Eneide)."
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