Epitteto, come Socrate, non si curò mai di
lasciare traccia di se, tanto che il testo Manuale di Epitteto
non è di suo pugno (non scrisse mai nulla), ma di un suo
allievo, Flavio Arriano, che ebbe l’idea di trascrivere le sue
lezioni, così come le insegnava ai discepoli, permettendoci,
così, di conoscere il suo pensiero filosofico. Di lui si sa
poco. Nato a Ierapoli, in Frigia, dovrebbe essere vissuto tra il
50 e il 120 d. C.. Di madre schiava, anche lui lo fu, ma ebbe la
fortuna d’essere comprato da Epafrodito, il ricco e potente
segretario di Nerone, che, portatolo a Roma, gli permise di
entrare in contatto con Gaio Musonio Rufo, celebre filosofo
stoico di quel periodo. Si narra che sia stato zoppo, ma la
notizia potrebbe essere sorta dalla sua stessa condizione di
schiavo. Di certo si sa che in seguito al bando di Domiziano,
che bandì da Roma tutti i filosofi, Epitteto lasciò la capitale
dell’impero per rifugiarsi a Nicopoli, in Epiro, dove si
stabilì. Era, quindi, libero e non più schiavo. Alla fine della
sua vita, per l’importanza raggiunta, divenne amico personale
dell’imperatore Adriano. Marco Aurelio nei suoi scritti parla di
lui con grandissima rispetto. Basato sulla ricerca della
felicità e il suo raggiungimento attraverso la “regola aurea
della felicità”, il manuale di Epitteto ebbe molta fortuna in
epoca cristiana, tanto che Ignazio di Loyola, lo inseriva tra i
suoi “esercizi spirituali”. Il gesuita Matteo Ricci, missionario
in Cina, per diffondere il cristianesimo nel lontano paese,
utilizzò il “Manuale”, parafrasato abbondantemente, e pubblicato
col titolo "Il libro dei 25 paragrafi". Epitteto fu ripreso dai
neoplatonici ed interessò moltissimo Leopardi, di cui è una
delle principali traduzioni. Sostanzialmente il suo pensiero
è riassumibile nella sua frase:
"Dio mi conceda la
serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il
coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza
di capirne la differenza".
Si parte per giungere al
suo pensiero passando attraverso due principi iniziali, che lui
chiama: la ‘Proairesi’ e la 'Diairesi'. Si parte dalla ‘Proairesi’
e, cioè, la nostra peculiare facoltà che, partendo dalla
percezione di un avvenimento, ci fa autori di pensiero, scelta e
azione. E’ una facoltà propria della nostra individualità
rispetto ad ogni altro. Ad essa ne segue la 'Diairesi', e, cioè,
il giudizio personale che ci fa capaci di distinguere, sempre,
quanto è in nostro esclusivo potere cambiare e quanto invece non
lo è. Tra gli individui pochi sono quelli che fanno
correttamente uso della 'Diairesi' e quindi pochi sono quelli
che, trovata la saggezza, ne fanno uso e sono virtuosi. La
maggior parte, invece, dà troppa importanza alla prima capacità,
la ‘Proairesi’, contro la natura delle cose, vivono male e
soffrono di infelicità e di schiavitù delle cose. Essi sono
persuasi che il bene o il male risultino nel
possesso di oggetti materiali e in qualcosa che altri
sono in grado di fare per
noi o contro di noi. Tre sono gli aspetti principali della loro
vita:
Le rappresentazioni che la nostra mente crea degli
avvenimenti quotidiani, ci portano ad un giudizio di loro
positivo o negativo. Questo giudizio spesso è facilmente
proairetico, come se l’intera realtà fosse alla nostra portata
d’azione. Applicando correttamente nella propria opinione la
'Diairesi' la riflessione risulta: è proairetica o
aproairetica? Se gli avvenimenti sono al di fuori delle proprie
capacità personali, da soggettivi possono divenire oggettivi, e
se una cosa è oggettiva entra nella natura delle cose,
imprevedibile e non volontaria. Ciò può essere,
indifferentemente, nel campo degli assensi e dei
dissensi, dei desideri e delle avversioni,
degli impulsi e delle repulsioni. La “regola
aurea della felicità” di Epitteto consiste, sostanzialmente, in
una condizione mentale che si può scegliere per saggezza:
"Ricordati dunque che, se credi che le cose che sono per natura
in uno stato di schiavitù siano libere e che le cose che ti sono
estranee siano tue, sarai ostacolato nell'agire, ti troverai in
uno stato di tristezza e di inquietudine, e rimprovererai dio e
gli uomini. Se al contrario pensi che sia tuo solo ciò che è
tuo, e che ciò che ti è estraneo - come in effetti è - ti sia
estraneo, nessuno potrà più esercitare alcuna costrizione su di
te, nessuno potrà più ostacolarti, non muoverai più rimproveri a
nessuno, non accuserai più nessuno, non farai più nulla contro
la tua volontà, nessuno ti danneggerà, non avrai più nemici,
perché non subirai più alcun danno". (massima 3 del "Manuale" di
Epitteto)
|
|