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Il latino classico, come è facile capire, è
abbastanza conosciuto, avendo, tra l’altro, numerosi testi che
ce ne danno informazioni. A parte le differenze con altre lingue
indoeuropee, la struttura del latino si risolve grammaticalmente
in una del tipo SOV (soggetto-oggetto-verbo). L’alfabeto
latino presenta, tuttavia, delle differenze sorprendenti, che ci
testimoniano l’evoluzione da essa subita nel corso del tempo.
L’alfabeto e la grafia del latino hanno una derivazione dal
greco occidentale, che derivava da quello fenicio, molto più
semplice, come, d’altra parte, quello etrusco e quello venetico.
Esso era:
A B C D E F (G) H I (K) L M N O P Q R S T V X
(Y) (Z)
Nell’elenco le lettere tra parentesi stanno
ad indicare una aggregazione avvenuta successivamente alla
lingua iniziale. La lettera G, ad esempio, venne creata a metà
del III secolo a.C. , con una trasformazione del segno C. Fino
ad allora ci si era serviti della pronuncia, con "C." per
Gaius e "Cn." per Gnaeus. Le ultime due lettere,
invece, furono introdotte alla fine della Repubblica romana, con
il contatto avvenuto tra cultura latina e cultura greca. In
quest’ultima erano presenti i due fonemi, che vennero aggiunti
successivamente. Le lettere 'J' e 'U', che non appaiono
nell’elenco, furono unite in epoca medioevale (sistematicamente
da Pierre de la Ramée). Da rilevare che l’italiano,
differentemente di quello che si pensa, ha una pronuncia meno
vicina a quella latina originale, come invece capita con altre
di tipo romanze (dove prevale la cosiddetta pronuntiatio
restituta),
essendo derivata, la nostra, dalla pronuncia consolidata
nella Chiesa cattolica. In realtà, la pronuncia ecclesiastica fu
mutuata dal latino volgare italiano, ed è per questo che le due
lingue hanno molti punti in comune. L’esatta fonetica latina
perdurò per parecchio tempo anche in Italia, eclissandosi, però,
con l’affermazione dell’italiano. D’altra parte si può pensare
che le diverse fonetiche possano avere coesistito tra loro nel
tempo, o nella differenza dei luoghi, oppure delle classi
sociali che le utilizzavano.
Il mestiere di traduttore
Nonostante vi siano degli studiosi che sostengono
l'intraducibilità delle lingue, la traduzione di un testo cerca
di traslare dalla lingua di origine alla lingua di destinazione.
Ma non è così semplice, perché va rispettato, il più possibile,
sia il significato che lo stile dello scritto. Le ulteriori
differenze che possono esistere tra diverse lingue, rendono il
compito assai difficoltoso. In più, quando si parla di “stile”,
nel termine va anche compreso: il ritmo, il registro, il suono o
la metrica. La traduzione, quindi, è anche un processo di
adattamento. A volte si fa ricorso a note esplicative o a
perifrasi, non essendo possibile la traduzione letterale. Ciò
avviene soprattutto con le parole che rimano o si somigliano
nella lingua originale (ma non in quella del traduttore), con
giochi di parole o con antichi proverbi. Esiste anche il
raffronto tra le due diverse culture, che falsa spesso la
traduzione, pura e semplice, di una parola o di un concetto.
Infine, poiché bisognerebbe tradurre dal testo originale, nel
caso di testi antichi, ci si trova spesso di fronte a
"traduzioni di traduzioni", dove si corre il rischio di perdere
il significato e l’efficacia stessa della traduzione.
Proprio per la difficoltà che comporta il mestiere del
traduttore (mai realmente sottolineato), sono sorte diverse
teorie sulla traduzione.
Peeter Torop teorizza che “la cultura... provoca
immancabilmente il confronto e la giustapposizione”, con
possibili alterazioni. Michail Bachtin sostiene: “Qualsiasi
comprensione è una correlazione del testo dato con altri testi e
il ripensamento nel nuovo contesto”. Tullio Gregory
ribadisce che l’opera del traduttore spesso è relegata in
secondo piano per il radicato pregiudizio che la sua opera non
abbia originalità artistica. A volte, però, il traduttore ha
anche le qualità dell’artista.
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