Nato da famiglia agiata a Mantova nel 1462,
Pietro Pomponazzi non ebbe problemi di studio. Si laureò,
infatti, all’Università di Padova nel 1487
come Magister Artium, dopo avere frequentato
corsi di metafisica (con il domenicano Francesco Securo
da Nardò), medicina (con Pietro Riccobonella)
e filosofia naturale (con Pietro Trapolino).
Successivamente, con la cattedra di filosofia
naturale, insegnò nello stesso ateneo. Nel 1496 si
legò al principe di Carpi, Alberto III Pio, insegnando
alla sua corte. Ne condivise il destino, fino a seguirlo nel suo
esilio a Ferrara, dove rimase fino al 1499. La sua carriera
di professore universitario e la sua vita stessa, tra il 1499 e
il 1512, si svolgono in maniera alquanto agitata, a causa delle
vicende militari legate alla Lega di Cambrai. In questo periodo,
dopo avere chiuso il suo studio di Padova nel
1509, inizia un “eremitaggio” tra Ferrara, Padova, di nuovo
Ferrara, poi a Mantova, fino ad approdare nel 1512, appunto,
all’Università di Bologna. Nello stesso periodo si sposa due
volte (con Cornelia Dondi, prima, e Ludovica di Montagnana,
dopo), rimanendo vedovo per entrambe.
Tuttavia, è proprio a Bologna che egli pubblica i suoi trattati
filosofici più importanti: il Tractatus de immortalitate
animae (1516), il De fato e il De
incantationibus, giunti fino a noi, grazie agli
appunti dei suoi studenti.
Nel Tractatus de immortalitate
animae egli sostiene che, oggettivamente, l’immortalità
dell’anima non è dimostrabile razionalmente. La tesi, eretica
per quei tempi, scatena furibonde polemiche, tanto che viene
realmente denunciato per eresia dall’agostiniano Ambrogio
Fiandino. Salvato ad opera del cardinale Pietro Bembo, finisce
per essere condannato da papa Leone X, che gli ordinò piena
ritrattazione. Pomponazzi preferì difendersi con la
pubblicazione di due opere: l’ Apologia del 1518 e con il
Defensorium adversus Augustinum Niphum del 1519. In
questi trattati egli cerca di spiegare che esistono sul tema due
verità: una di fede e una di ragione.
Il periodo, alquanto travagliato, gli
impedì di pubblicare due opere composte nel 1520: : il De
naturalium effectuum causis sive de incantationibus e i
Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione
(saranno pubblicate postume nel 1556 e nel 1557 a
Basilea). Con i tre pezzi, il De nutritione et
augmentatione (nel 1521), il De partibus animalium
(sempre nel 1521) e il De sensu (nel 1524), evitò
diplomaticamente ogni ulteriore accusa o polemica.
L’infelice periodo si concluse nel 1525 con la sua morte, per
calcoli renali. I suoi studenti sospettarono, per contro, il
suicidio (aveva fatto testamento l’anno prima).
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