L'anima, secondo Aristotele, è l'atto (entelechia)
primo di un corpo che ha la vita in potenza. Essa si
divide in tre parti: vegetativa (dei vegetali, animali e
dell’uomo), sensitiva (degli animali e dell’uomo) e
intellettiva (propria solo dell’uomo). Secondo
la teoria aristotelica, esisterebbero due ulteriori parti
dell’intelletto (concepito, appunto, come anima) l’intelletto
potenziale e l’intelletto attivo o
agente. Il primo è la capacità umana di intendere; il
secondo contiene in atto tutti gli intelligibili, cioè, tutte le
verità proprie dei corpi. E’ l'intelletto attivo che mette in
atto le verità, che nell'intelletto potenziale sono
esclusivamente virtuali. L'intelletto attivo è: separato,
non composto, impassibile, per sua essenza atto…separato, esso è
solo quel che è realmente, e questo solo è immortale ed eterno.
Agli inizi del Cinquecento a Padova vi
erano due interpretazioni della teoria aristotelica,
l’averroistica (da Averroè e maggiormente platonica) e
l’alessandrina (da Alessandro di Afrodisia). La prima credeva
nell’unicità e la trascendenza di ambedue gli intelletti, in
quanto l’intelletto potenziale è proprio di tutti gli uomini e
non dei singoli; la seconda li manteneva separati, anche nel
destino, facendo coincidere, però, l’intelletto attivo con Dio.
Tommaso d'Aquino, nel medioevo, credeva che nell’uomo esistesse
un'unica anima per sua natura immortale (simpliciter),
che, però, riguardo ad alcuni aspetti, essenzialmente materiali,
era mortale (secundum quid). Fu una discussione con il
domenicano Girolamo Raguseo, a spingere Pomponazzi a spingerlo
ad affrontare la questione, dopo che l’amico, rilevando
contraddizioni nella teoria di Tommaso d'Aquino, gli aveva
chiesto di trovare una soluzione sul piano razionale. La
duplicità dell’uomo, mortale ed immortale allo stesso tempo, e
in bilico tra aspetti materiali e sensoriali e aspetti
intellettivi e virtuosi, dava agli uomini una reale opzione di
scelta. “Altri, sommersi nei sensi, sembrano bestie. Altri
ancora, uomini nel vero senso della parola, vivono mediamente
secondo la virtù, senza concedersi completamente né
all'intelletto e né ai piaceri del corpo”. Pomponazzi
sostanzialmente capovolge la teoria di Tommaso d’Aquino. Il
secundum quid non sono gli aspetti materiali
dell’anima, ma quelli immateriali. Egli crede che la parte
principale dell'anima umana sia inseparabilmente legata
al corpo, da cui ne segue l’identico destino di morte. Ma
Pomponazzi si spinge oltre, affermando che solo la fede può
sostenere le ragioni dell’immortalità dell’anima.
Man mano che la sua teoria si sviluppa
secondo legami rigidamente razionali e deterministici, il suo
pensiero si distacca dalle posizioni degli altri filosofi suoi
contemporanei. Per via di logica, se la natura è legata a leggi
ferree e indipendenti dall’uomo, quest’ultimo non può godere del
libero arbitrio. Proprio queste immutabili leggi del creato,
lo portano a sostenere anche la quasi impossibilità dei
miracoli. Egli sostiene: : "se Dio ha creato l'universo ponendo
su di esso leggi fisiche precise, sarebbe paradossale che egli
stesso agisse contro queste leggi utilizzando eventi
sovrannaturali come i miracoli". Procedendo oltre egli arriva
ad una concezione dell'universo deterministica, quando afferma
che è possibile che fenomeni oscuri o stupefacenti abbiano cause
del tutto naturali, come l’influsso dei corpi celesti. Questi
creerebbero fenomeni straordinari secondo forze ancora del tutto
sconosciute, e per questo ritenute misteriose.
I due filosofi italiani Bernardino Telesio e Pietro
Pomponazzi, proprio in virtù di queste concezioni “laiche” e
deterministiche, creano quel substrato su cui poggeranno le
teorie di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, e forse la stessa
realtà sperimentale da applicare sulla natura dei primordi
scientifici dei primi del Seicento. L’incredibile Pomponazzi,
comunque, scrive: “Chi dice che polemizzo per il gusto di
contrastare, mente. In filosofia, chi vuol trovare la verità,
dev'essere eretico".
|
|