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All’indomani della caduta della fortezza di Gaeta, il partito legittimista iniziò a costituirsi per tentare di riportare in auge il vecchio governo, appoggiati dai Borbone di Napoli (esuli a Roma), dai Borbone di Spagna, dalla nobiltà legittimista e da una parte del clero. Iniziarono a costituirsi formazioni irregolari di ex soldati borbonici, coscritti che rifiutavano di arruolarsi nel nuovo esercito, contadini, banditi di professione e briganti stagionali (quando non lavoravano nei campi). I territori in cui agivano erano posti nel mezzogiorno continentale: soprattutto Calabria, fra Irpinia e Lucania e nelle aree prossime ai territori pontifici. Diversi erano i capi, il più famoso, forse, fu Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture.
Si iniziò a registrare sollevazioni diffuse nel territorio, il rovesciamento dei comitati insurrezionali a favore delle municipalità legittimiste. A Napoli, la propaganda del comitato borbonico, riuscì, perfino, a creare una manifestazione di piazza a favore dei Borboni. Nel mese di aprile fu scoperto e sventato un complotto anti-unitario: furono arrestate oltre seicento persone, tra questi 466 ufficiali e soldati del vecchio esercito.
Il timore che queste formazioni sparse nel territorio trovassero un coordinamento tra di loro (anche grazie ad una regìa di Francesco II) spinsero il governo unitario ad inviare a Napoli, nell'agosto del 1861, il generale Enrico Cialdini, dotato di poteri eccezionali per affrontare e risolvere  l'emergenza. Questi richiamò in servizio soldati del disciolto esercito meridionale di Garibaldi, e iniziò punendo il clero e i nobili legittimisti.
Giunto con circa ventiduemila uomini, il piccolo esercito a disposizione di Cialdini, nel dicembre del 1861, crebbe a cinquantamila unità e, nel periodo 1862-66, arrivò sino a 105.000 soldati. Nella confusione creata localmente da piccole bande, l'obiettivo strategico per Cialdini diveniva quello di  ristabilire il controllo delle vie di comunicazioni e dei centri abitati. Già agli inizi il generale agì con pugno di ferro e spietatezza sulle piccole rivolte: arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, azioni mirate a piccoli villaggi, il tutto con fucilazioni sommarie e incendi di interi centri abitati, la moltiplicazione delle taglie e la pratica delle deportazioni, nonché gli eccidi di massa (Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861).
La legge Pica, emanata nell'agosto 1863, alquanto dubbia, non fece altro che aumentare a dismisura i poteri a disposizione del generale. Si affidava ai tribunali militari non solo i briganti, ma anche parenti e congiunti. Con l’arrivo di nuove truppe, Cialdini potè operare contro i gruppi più grandi, organizzati e meglio capeggiati. Difatti furono annientate le truppe militari di Crocco e quelle pugliesi al comando di Pasquale Romano nella zona di Bari e di Michele Caruso nella zona di Foggia. Con tale azione, Cialdini cancellò qualsiasi presupposto  mirato alla sollevazione generale o all’organizzazione militare dei guerriglieri delle province meridionali. Col tempo si affievoliva ogni volontà insurrezionale, l'appoggio popolare andava scemando. Nel 1867, anche Francesco II di Borbone sciolse il governo in esilio. Le ultime grandi bande con cavalleria furono debellate nel 1869. A gennaio del 1870 furono abolite le zone militari nel sud: finiva ufficialmente il periodo del brigantaggio.
Iniziava quello dell’'emigrazione di massa verso gli Stati Uniti e l’Amarica del sud, sia dalle zone meridionali, che dalle zone depresse del nord Italia.

Lo stesso Garibaldi, deluso, nel 1868, in una lettera ad Adelaide Cairoli, scrisse: "Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".


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