Quando Marcel parla di Proust e della Recherche bisogna trattenerlo, ma quando parla della sua maison de campagne, e di quello che faremo insieme, diventa un ragazzino e mi fa davvero credere che tutto sia possibile. Per lui è come un puzzle dove alla fine tutto quadra. Per questo nei suoi ragionamenti ha tirato fuori «un vieux puzzle chinois qu’on appelle le Tangram». E dice di fare affidamento sulla mia immaginazione di architetto, che implicherebbe, secondo lui, una capacità a percepire intuitivamente come ci siano sempre soluzioni molteplici che vale solo provare. In effetti gli devo dare ragione.

La leggenda narra dell’imperatore Tan al quale sfuggì di mano una piastrella quadrata di terracotta che si frantumò in sette pezzi. Tan provò a ricomporre la piastrella e nel farlo si rese conto che con quei sette pezzi era possibile creare anche molteplici altre forme, bastava soltanto giocare di fantasia. Del tutto coerente col suo assunto di partenza, Marcel ha perciò ascoltato con interesse l’idea che gli ho prospettato, visto che fra tanti architetti che esercitano a Parigi chiede proprio il mio intervento.

Gli ho chiarito di avere già sperimentata una soluzione “quasi analoga”: ho sottolineato “approchant”. Alludo all’arredamento delle due filiali di un’importante Galleria d’Arte. Ne ho seguito in Italia la realizzazione dei componenti, concepiti su mio disegno. È stato un colpo d’occhio vedere montare pezzo dopo pezzo vetrine, teche di cristallo, boiserie, lambris, plafonds en bois, nel laboratorio di falegnameria, ancora prima che arrivassero a Londra o ad Amsterdam. Ci muovevamo materialmente negli spazi, mettendo a punto ogni dettaglio. Quello che però ho voluto evidenziare a Marcel è il merito del personale qualificato delle due filiali, che ha saputo portare a buon fine l’allestimento conclusivo. Secondo le mie indicazioni.

«Nel caso della maison de campagne, caro Marcel – gli ho detto – non sarà altrettanto semplice». In virtù della delicatezza del progetto dovrò seguire buona parte dell’evolversi del cantiere direttamente a Parigi. Potremmo, però, rendere meno assidua la mia presenza, se riuscissimo a trovare il giusto raccordo con un collega che voglia collaborare, dividendo lavoro e responsabilità. Per questo ho pensato di rivolgermi a un amico dell’École nationale supérieure d’architecture, che non mancherà certo di darmi quantomeno un’indicazione. Non c’è stato bisogno neppure di concludere, perché Marcel entusiasta della proposta, con una battuta di spirito, ha replicato che questa, a proposito delle tessere del Tangram, è la soluzione “ponte”.  Ne esistono tante altre ancora, magari per soddisfare la soluzione “casa”. Non si riferiva alla casa di suo nonno, ma alla mia, perché si augura che, in futuro, io decida di prendere casa proprio a Parigi.

«Mi sembra difficile prevedere in che senso intendi!», ho risposto laconicamente. Già, in che senso? Che significa prendere casa? Quale casa? Una casa temporanea o una casa per la vita? Come dire, lasciare alla città in cui vivo il suo quietismo di un’apatia esasperante, per approdare a Parigi? E perché poi Parigi, e non Vienna o Berlino, insomma un’altra capitale europea? Non sarebbe meglio tornarmene tranquillamente a Roma, da dove sono venuto? Tutto questo, però, l’ho sottaciuto, mostrando il solito sorriso stampato sulle labbra. Marcel è un uomo di mondo. Sorride anche lui. Elegante nel portamento, ma ancora di più nel suo fraseggiare raffinato, frutto di lunghe e appassionate letture. Con le sue osservazioni, di tanto in tanto, accenna a qualcos’altro da cogliere prontamente.  E in questo mi ha ricordato suo nonno.

Ho incontrato suo nonno per la prima volta a Place des Vosges, dove mi aveva dato appuntamento Arianne, la mamma di Marcel. Non avrei mancato di riconoscerlo, nel caso avesse tardato. Sedeva dopo pranzo, alcune volte per l’intero pomeriggio, all’interno del giardino. Quasi sempre sulla panchina che aldilà della recinzione fronteggia l’hôtel de Rohan-Guémené. A Parigi tutti sanno essere al civico 6 la casa di Victor Hugo. Le mani sul suo bastone da passeggio, l’anziano signore osservava con aria soddisfatta il gioco dei bambini e le mamme discorrere accanto alle carrozzelle dei piccoli. Mi sono presentato e non nascondo di averlo fatto con impacciata ed esitante timidezza, perché in qualche modo incuteva soggezione.

Mi accomodai sulla panchina al suo fianco. Senza preamboli, chiese se conoscevo chi aveva abitato alle nostre spalle. Al mio cenno assertivo, prese a dilungarsi su Notre-Dame de Paris, lo storico romanzo di Victor Hugo. Sembrava non volere concludere mai e venire al punto per spiegarmi il motivo di quell’incontro. Quando finalmente smise di parlare, dopo un attimo di silenzio, pensieroso soggiunse: «Qualcuno mi dice che dovrei venderla quella vecchia casa di Cleir e dividere il ricavato tra figli e nipoti, ma è un bene di famiglia e non la venderò mai». Poi, quasi saltando di palo in frasca, mi fece una domanda: se conoscevo John Lane di Hillingdon.

Che strano trabocchetto, ho pensato. E perché mai John Lane? Ho risposto se stava riferendosi al fortunato acquirente del ciclo pittorico Marriage à-la-mode di William Hogarth. Non mi sbagliavo. Lane – spiegai – sborsò soltanto 126 sterline anziché le 500 e più richieste dal pittore, come base d’asta, per cedere i sei dipinti originali da cui aveva tratto le litografie dal prezzo più contenuto. Hogarth, benché deluso dall’affare andato a male, rispettò i termini della compravendita. Pregò soltanto Lane di non rivendere le opere senza comunicarglielo anticipatamente. Il signor Lane – puntualizzò il nonno di Marcel, interrompendomi – tenne gelosamente i sei dipinti finché visse, nonostante le numerose offerte d’acquisto. Aveva contratto col pittore un patto morale e Lane l’onorò per tutta la vita. >>> Segue >>>