Quell’ode alla gelosia
di Gio Bonaventura
Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούειΣαπφώ (Saffo)
Non credevo in questa storia di entraci così. E nell’avverbio “così” poterci contenere tutto quello che non avevo capito per oltre vent’anni. Non avevo capito, veramente, in cosa consistesse quel patto morale di cui parlava il nonno di Marcel. Me lo ha chiesto stamattina anche Lilli, in auto, mentre raggiungevamo la nostra casa fuori città per il fine settimana. Non le ho saputo compiutamente rispondere.
D’inverno veniamo di rado in campagna. È umida per la pioggia sottile e insistente dei giorni scorsi. Stasera davanti al camino acceso – lei bellissima avvolta nel plaid – ho aperto la cartellina di fotocopie. Le ho portate dallo studio, per soddisfare il suo desiderio di conoscere qualcosa di più. Soltanto le prime pagine del diario e qualche lettera. Poche cose che all’epoca del restauro avevo tralasciato, ritenendole di scarsa utilità per realizzare il progetto. A noi architetti interessano rogiti notarili, prove legali di proprietà, stime dei beni assoggettati al catasto, piani regolatori. In sostanza, interessano gli atti formali, molto meno le memorie: tracce di eventi, immagini, sensazioni, pensieri. Ma è in queste memorie che trovi la vera natura della luce e delle ombre.
Quando Lilli ha preso il diario e ha accennato a leggere in metrica greca la citazione da un frammento di Saffo, in apertura dei fogli vergati da Éléonore con scrittura accurata, ho capito. Nel tradurre all’impronta quei versi ho chiarito la realtà e rifuggito ogni oscurità.
Quell’uomo mi pare simile a un dio,
lui che siede di fronte a te
e da vicino ti ascolta
mentre dolcemente parli… e sorridi.
Mi era parso sinora, questo famosissimo frammento, come una trascurabile citazione letteraria “alla moda”. Saffo, la poetessa greca per eccellenza, tanto amata dalle ragazze di un tempo, quanto le ragazze di oggi sono abbagliate da Frida Kahlo, pittrice messicana. L’abbaglio in verità l’avevo preso io, perché qui “alla moda” non c’è proprio niente. Neppure in assonanza con i sei dipinti di Hogarth, ricordati quel pomeriggio nel giardino di Place des Vosges. Credevo che il patto al quale si riferiva il nonno di Marcel fosse legato al prezzo d’acquisto della casa, troppo basso rispetto al suo valore reale. Mi sbagliavo e questo verso illuminante scritto, a ben guardare, a novembre del 1873 – come riporta una data in calce – mi ha fatto comprendere l’errore.
Il diario è della zia di Gaspard, così si chiamava il nonno di Marcel. Quando Gaspard me lo aveva mostrato, togliendolo da una scatola di carabattole, ne ho fatto alcune fotocopie, per curiosità, o meglio per cortesia. Desiderava che accludessi il diario a corredo dei documenti che mi sarebbero occorsi per il progetto, e vi aggiungeva alcune lettere di Vivienne. Per chiarire qualcosa di più a Lilli ho pensato d’iniziare da qui, da una lettera dell’amica di Éléonore, convolata a nozze. L’anno è il 1869, lo stesso in cui si apre il diario. Vivienne è partita con suo marito Émile per una lunga luna di miele. A conti fatti pensano che possa durare intorno a un anno; si prolungherà per meno di sei mesi. In una delle prime lettere i due sposi informano di aver fatto piacevoli escursioni ai laghi di Thun e di Brienz nei dintorni di Berna. A breve, attraverso il passo del Sempione, raggiungeranno l’Italia. Anticipano però che sarà un Grand Tour rapido, in due fasi, perché è loro intenzione spingersi fino a Costantinopoli e soffermarsi in Italia con tutta calma al ritorno. Per questo contano d’imbarcarsi a Napoli, al più tardi nel mese successivo.
Vivienne appare felice, per niente dispiaciuta della durata di questa assenza. La lettera trova riscontro nel diario, perché Éléonore annota con una tristezza che stringe il cuore: «Chère amie, Je suis submerge par une mélancolie que toutes les meilleures raisons ne peuvent atténuer». Dovrebbe fare riflettere per quale motivo Éléonore abbia scelto proprio quella insolita citazione, e l’abbia inserita sulla prima pagina del diario a quattro anni dalle nozze. Non lo ha fatto a caso, perché ha voluto sottolinearla aggiungendo anche l’ultimo verso del frammento. Un verso interrotto: ἀλλὰ πὰν τόλματον, ma tutto si sopporta.
Il cosiddetto frammento 31 Voigt è uno dei pochi di Saffo sopravvissuti dai tempi antichi, trascritti nel trattato di estetica “Sul sublime”. Per questo è indicata come “Ode del Sublime”. Ricordo ancora la nostra professoressa di greco lasciare inaspettatamente la cattedra per declamarla fra i banchi. Con enfasi maestosa, recitò d’un fiato quella che lei chiamò… “Ode della gelosia”. Rimanemmo tutti ammutoliti.
Non la gelosia – precisò – per l’uomo che siede con la sua sposa al banchetto di nozze. Sembrerebbe, al contrario, che Saffo desideri prendere il posto dello sposo. Ma non è neppure questo il senso, perché sul fatto che quell’uomo, bello come un dio, sia entrato ormai nella vita di quella ragazza lei si è già rassegnata. È tormentata, piuttosto, che lui possa ridurre a nulla le tenerezze che fino a quel momento, Saffo stessa le ha manifestato. Vederla piacevolmente con lui, sapere che si allontanerà per sempre da lei – e non farà eccezione – le fa palpitare il cuore in petto. A guardarla, anche solo un istante, mentre parla dolcemente e sorride, la lingua le si spezza in gola. Più pallida dell’erba. Saffo come Éléonore. >>> Segue >>>
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