Se Émile fosse bello come un dio, non lo so, ma era attorniato da due “giovani donzelle” dall’apparenza gioiosa. Éléonore e Vivienne. Quale fosse l’una o l’altra, neppure questo so, perché lasciai incurante la fotografia sgualcita nella scatola che il nonno di Marcel estrasse dalla valigia. Domenica a colazione mi avrebbe fatto piacere mostrarla a Lilli, quando mi ha riproposto la medesima domanda della sera precedente: in cosa consistesse quel patto morale di cui parlava il nonno di Marcel.

«Rammagliare memorie e mantenerle vive», ho risposto io, alla mia maniera considerata sempre troppo ermetica. Se avessi usato il termine ripristinare anziché rammagliare, sarei risultato altrettanto oscuro. Ma è facile da comprendere: come una volta si preferiva rammagliare un golfino scucito, Gaspard era convinto che mi sarebbe stato possibile ripristinare la casa in cui aveva trascorso le stagioni migliori della propria esistenza e, prima di lui, sua zia Éléonore. Quella stessa casa che nei giorni scorsi Marcel ha definito “Une boîte en bois”, una scatola di legno, quasi contenesse un tesoro da custodire gelosamente. Come quella scatola di legno e cuoio estratta dalla valigia.

Cosa conteneva quella scatola? I ricordi felici di una ragazza, che per il progetto a me non interessavano affatto. Un pezzetto di ematite rilucente, un ventaglio di carta, un ritaglio di raso bleu ricordo di un abito realizzato o forse no, quelli che un tempo erano fiori secchi ora ridotti in minuzzoli, un ritratto fotografico di una adolescente firmato Émile Defonds e altre “portraits cartes de visite” di amici e parenti. Una scatola sicuramente preziosa per quel mazzetto di lettere indirizzate a Vivienne e soprattutto per quel diario che a distanza di tempo restituisce i sentimenti di Éléonore. Un miscuglio d’impressioni, un ribollire di emozioni. Lei avverte da subito le insidie che, al ritorno dal viaggio di nozze, potrebbero strapparle Vivienne definitivamente. Perché va detto che Vivienne era originaria del Berry. Nei pressi di Bourges i suoi genitori possedevano un palazzotto ripetutamente rimaneggiato e ingrandito a poco a poco che ricordava un antico château.

Nulla che potesse sedurre lo sguardo. Un edificio principale con torri angolari, una corte interna sempre umida e il residuo dell’antico fossato utilizzato come orto per verdure da cucina. Quale prolungamento del vecchio fabbricato, poco dopo il suo matrimonio, il papà di Vivienne edificò un corpo aggiunto per gli appartamenti privati. Il salone, la sala da pranzo, il bigliardo e lo studio del padrone di casa erano nel vecchio corpo principale. Mentre nel nuovo corpo erano allocate le camere, che si aprivano su corridoi irregolari non sempre a livello per tutta la lunghezza. Per cui erano interrotti continuamente da scalini, che esigevano una certa attenzione soprattutto di sera.

La descrizione si evince qua e là nelle lettere tra Vivienne e la famiglia, perché sua mamma – come tutte le mamme del mondo – insisteva che la giovane coppia si stabilisse da loro. Lo spazio adeguato a ospitare l’intera famiglia non mancava: compresi eventuali bambini, se ne avessero avuti. Prevedeva, inoltre, che l’occupazione lavorativa di Émile non gli avrebbe consentito di trascorrere lunghi periodi con Vivienne, lasciandola spesso sola. «Que voulez-vous qu’elle fasse dans une maison, son mari absent?», rispondeva ansiosa alle obiezioni del marito, che era di tutt’altro avviso. Lui ribatteva che si sarebbe occupata delle faccende domestiche, che sarebbe stata una moglie affettuosa e responsabile. Né più ne meno di quello che facevano loro da giovani, quando gli affari lo chiamavano sovente fuori del podere: «Vivienne serait heureuse ici, près de nous, et ça rassurerait son mari. Mais elle ne se sentirait pas vraiment chez elle». Non si sentirà affatto a casa sua.

Stralcio questi brani e li lascio in francese, perché rendono bene il senso – direi il tono – dei confronti familiari. Spesso i più tristi esempi di un’esistenza priva di un proprio tetto, oscilla tra un’adolescenza prolungata e un’età adulta non pienamente assunta. «Pensi davvero, mia cara, che facciamo sposare i nostri figli solo per il nostro bene? Non è una novità che spesso i matrimoni non durino a lungo. Émile è un bravo ragazzo, lavora duro e possiede per giunta delle ambizioni, che non sono affatto un male. Vivienne l’ama. Ma non sappiamo se l’amore durerà con le difficoltà della vita».

Questo e altro ancora affermava il padre di Vivienne, discutendo pacatamente con sua moglie. Éléonore non poteva che essere convinta. Le due amiche ne parlavano nei giorni prossimi alle nozze, appartandosi su di un piccolo poggio, all’ombra d’un castagno. Il poggio era un ritaglio defilato di terra, aperto al paesaggio, parte della dote di Éléonore. Non le fu quindi difficile immaginare quella che sarebbe stata la soluzione migliore per evitare che Vivienne si trasferisse a Bourges o a Parigi. Regalare all’amica il terreno per fabbricare la casa dove vivere con suo marito. Qui di sicuro lei non l’avrebbe lasciata sola. Chi l’avrebbe costruita? Émile, chi altro? Perché – non l’avevo ancora scritto – la sua occupazione lavorativa era quella di architetto. La soluzione che fa quadrare il cerchio. Solo ora l’ho afferrata. Quella casa sarebbe stata una scatola per contenere la felicità dei tre amici: l’amore di Vivienne per Émile, e quello di Éléonore per Vivienne. >>> Segue >>>