Storie plurali di un territorio… per un Mediterraneo regione, non frontiera – 2/5

di Giuseppe Campione

2. Le città e le stanze del territorio, nella metafora di L.B. Alberti, scene locali dai contorni incerti e sovrapposti, che “nel loro montaggio complessivo, si catalizzeranno nei luoghi di maggiore dinamismo”, e allora la regione del nostro possibile approccio saranno connessione, relazione, in una maglia di gravitazioni e di gerarchie, saranno sistema. (G. Campione, La composizione visiva del luogo, Rubbettino, 2005).

Ma come si costruiscono le ‘città leggenda’ per un immaginario catalogo? Dalle grandi epopee letterarie eurocentriche dell’Ottocento alla filmografia contemporanea, la ‘narrazione’ della città e l’edificazione dei suoi ‘miti’ divengono le reali strategie di marketing urbano e, al tempo stesso, in modo più o meno consapevole, influiscono sui modi della città di intervenire su se stessa, come operazioni di trasformazione e cosmesi: la città prospera alimentando la propria leggenda, e il progetto architettonico – realizzato – diventa strumento della città per restare, rinnovandosi, comunque in modo percepibile all’altezza del proprio mito. Il ‘percorrere’ la città, il ‘camminare’, il ‘pedalare’, divengono in questo contesto non più solo strumenti di lettura, ma di vera e propria ‘scrittura’ delle narrazioni urbane o metropolitane.

Fattore in controtendenza, di livellamento e tendenziale omologazione percettiva delle diverse emergenti specificità di ogni mito, uno spazio pubblico che oscilla fra indebita metastasi del ‘pianeta degli slums’ e luogo globale dell’insicurezza e della paura. Ma anche la paura è un potente mezzo di narrazione: il discorso sulla città, ciò che la città narra, diviene allora “discorso della paura, esso stesso capace di contribuire, fino alla concretezza dell’intervento fisico, alla costruzione e al mantenimento del mito. In questo caso però è lo stesso mito ad omologarsi: le ‘geografie della paura’ contemporanee disegnano – e costruiscono – città che, a partire dalla loro unicità e differenza, in contesti fra loro dissimili e remoti, tendono a replicare i medesimi ‘antidoti’ rassicuranti.

Cinema, arti visive e letteratura sviluppano il “tema della città”, come, in maniera altrettanto massiccia, la pubblicità e tutte quelle immagini e discorsi che ogni giorno ri-creano le “città del mito”. In certi casi, la mappa mentale delle città può dirsi addirittura creata dall’insieme dei discorsi e delle rappresentazioni che si sono succedute e integrate componendo un’immagine che a volte oscilla tra lo stereotipo e il ritratto sfaccettato. Così ad esempio riflette Italo Calvino: Prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni d’altre persone d’ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i libri, una città di cui ci si appropria leggendo.
Augè (“Per inventare un nuovo futuro”, La Repubblica,1 febbraio 2005) ci riporta a quella che Lyotard chiamava la fine delle grandi narrative, un momento che corrisponde alla perdita delle illusioni: dai miti d’origine che sono spariti da tempo ai miti escatologici del futuro. Nel postmoderno spariranno anch’essi. Diamo per scontato, ad esempio, che le consuete rappresentazioni dell’integrazione mediterranea si fondino su presupposti decaduti: che le regole del gioco territoriale siano mutate e che serva ridefinire le specificità delle regioni rivierasche e dei loro possibili rapporti, nella traccia di denominatori comuni tra e nella varietà che si cela in ogni classificazione fatta dall’esterno, celandone la loro coessenzialità alla rappresentazione che partoriamo. Che il mondo mediterraneo, si riprendano le complesse definizioni, sia vario all’infinito, induce però a cercarne significato operativo ai nostri fini di geografi intenti a ridefinire le opportunità di connessione.

Una concezione suggerita dalle forme, confermata da strutture territoriali comunque fondate su baie riparate, lembi costieri di pianura, promontori difendibili anche se appoggiate a masse continentali. Fino all’estremo lembo di cultura greco-mediterranea verso nord, in fondo all’Adriatico, su una costa senza rocce, nel fango rimodellato in arcipelago della laguna, da dove Vincenzo Coronelli descriverà il mondo come un generale arcipelago, un Isolario che copriva i cinque continenti. Una concezione che affascina oggi per la sua efficacia nel dar conto di un mondo frammentato sì, ma connesso come non mai (G.Zanetto ( pro man.) e Campione, 2007, cit.).
Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico ha abbattuto (o, meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi, più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. Nella simultaneità, che sostituisce la velocità del moderno, il piccolo globo azzurro simbolo della rete globale rappresenta un mondo in cui non hanno senso le avanguardie, in cui il confine tra cultura ed economia è dissolto, in cui è decaduto il mosaico di aree omogenee garantite dal costo di superamento dell’attrito della distanza.

Ma che territorio costruisce la simultaneità della rete, dato che in esso la competizione ha infiniti partner e tutti possono sottrarsi ai monopoli ed al conformismo locali? E, ci sembra, finiscano col disegnare un paesaggio urbano diffuso che si squaderna in un territorio allargato? Territorio che non si ramifica necessariamente in conurbazioni lineari, né in sovrapposizioni sostanzialmente degradanti il tessuto urbano, ma denota rarefazioni insediative molteplici, in un processo di cariocinesi.
Il mondo contemporaneo così, ci ricorda Guarrasi (La città incompleta, Palumbo, Palermo, 2002), può essere considerato come un sistema territoriale complesso, articolato appunto in complessi regionali: ognuno di questi complessi manifesta a sua volta un certo grado di differenziazione interna derivante da vincoli storico-ambientali, la cui azione si sviluppa nel lungo periodo. Una tipologia di situazioni territoriali aperte, collocate nell’intersezione di uno spazio relazionale, con le sue relazioni verticali, orizzontali, complesse, per utilizzare Dematteis (Progetto implicito, Franco Angeli, Milano,1995). Un territorio urbano pensato al plurale, perciò, dove si accumulano, si sedimentano storie plurali. Nella polifonica dissonanza e nella programmatica incompletezza dell’agire umano: Un evento che accade, che sta accadendo e che si disloca perturbando, disordinando, secondo i canoni decostruttivi di Derrida (Come non essere postmoderni, Medusa, Milano,2002). Un evento come storia, dice ancora Augé (id.), come perturbazione del sistema proprio per il carattere eretico di ogni utopia. Così eventi emergono dalla ormai stentata omogeneità degli stati nazionali e lo stato sussiste solo in quanto efficiente sostegno in un libero trascorrere di capitali e tecnologie che li trova intenti a fluidificarne il mercato anziché segregarlo e proteggerlo.

E’ nelle keywords di Gottmann sulla teoria geografica che troviamo un definirsi dell’iconografia, l’insieme dei simboli cioè in cui crede la gente, anche, e perché no?, in un modo acritico che però si è sedimentato nel tempo, come un qualcosa (una forza?) che può determinare l’organizzazione degli spazi. Un elemento perciò discriminante o cloisonant, proprio perché esprime, in cospicua misura, “la caratteristica dei gruppi sociali a trovare identità religiosa, nazionale, culturale attraverso la costruzione di un set definito di credenze, di idee e di icone, a scala locale”.
A guardare quel che succede oggi, ci ricorda il Gottmann, la realtà non è così semplice; “alla liberazione dai vecchi ceppi -dalle minacce ancestrali a tutte le promesse della globalizzazione- risponde il risveglio dei nazionalismi, dei regionalismi, degli interessi locali, dei vecchi istinti tribali. La vera compartimentazione dello spazio non è nella geografia della materia” (“Geographie politique”, in Encyclopédie de la Pléiade, Géographie Générale, Gallimard, Paris, 1992). Comunque se è in ragione di questi fattori “à la fois matériels et spirituels”, diciamo culturali, che si determina le cloisonnement politique du monde, l’iconographie “permette di selezionare tra i fattori culturali quelli che condizionano i fenomeni di cloisonnement, i regionalismi”, creando altresì “la chiave del dialogo tra geografia culturale e geografia politica. Da questo dialogo ne verranno ulteriormente evidenziate appartenenze, identità radicate, idee ereditate, miti, linguaggi, simboli, icone.

Tuttavia la dissoluzione dell’ordine territoriale tradizionale non produce necessariamente le informi distese tipiche delle urbanizzazioni del terzo mondo, non dissolve i luoghi, non sostituisce con solidarietà di rete gli organismi locali: se pur può essere così, non è necessariamente essere così. Se gli standard comunicativi si fanno globali e implicanti una gamma vastissima di attività (fino alla omologazione in poltiglie culturali sincretiste scambiate per tollerante integrazione), resta pur vero che nessun attore economico è competitivo se con lui non compete il suo territorio: dai servizi pubblici alla solidarietà sociale all’identità etnica, alla semplicità, chiarezza e rispettabilità delle regole, dalla qualità e disponibilità di energia e acqua, dalla sicurezza personale al livello di tecnologia ed efficienza delle altre imprese tutto ciò fa spesso il differenziale di competitività.

Più direttamente soggetto al controllo diretto dei suoi membri, dotato della forza delle strutture spontanee (cioè rodate da infinite azioni di correzione ed aggiustamento e condivise dai suoi attori), il territorio consolidato (giustamente inteso come la forma tipica della regione geografica come frutto possibile e raro) compete e viene confermato se non addirittura consolidato dai processi di omologazione dei mercati. La coincidenza di economia, cultura e società nello stesso territorio è uno strumento formidabile di competitività.

La possibilità di rapide ed efficienti connessioni a tutto campo mina le strutture territoriali artificiose e coatte, premia quelle spontanee; la possibilità di connessione con qualunque luogo non lede l’utilità delle connessioni col vicino con l’obiettivo di costruire territori efficienti. Cadute le grandi cortine tra blocchi, le grandi aree limitrofe trovano ravvivati interessi di integrazione, di tessitura di trame territoriali fondate sulla reciproca specializzazione e scambio.

Parte prima
Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
Parte quinta

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