Parma, Fondazione Magnani-Rocca – De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna

Parma, Fondazione Magnani-Rocca
De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna
16 marzo – 30 giugno 2019
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Arnold Böcklin, Prometheus, 1882, olio su tela, 115,5 x 150,5 cm

Nella storia della cultura occidentale, Prometeo è rimasto simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni, così anche come metafora del pensiero, archetipo di un sapere sciolto dai vincoli della falsificazione e dell’ideologia. Prometeo, figura della mitologia greca, è un Titano-eroe, amico dell’umanità e del progresso. A lui sono legati miti antichissimi: ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e subisce la punizione di Zeus che lo incatena a una rupe ai confini del mondo; un’aquila ogni giorno si nutre del suo fegato che però di notte ricresce. A interrompere il crudele castigo interviene Eracle che, ucciso il rapace con una freccia, libera Prometeo dopo trentamila anni. Ha quindi spesso simboleggiato la lotta del progresso e della libertà contro il potere. In tutto lo sviluppo letterario del mito appare evidente la tendenza ad arricchirlo di motivi filosofici, facendo di Prometeo l’incarnazione dello spirito d’iniziativa dell’uomo e del suo ardimento nello sfidare le forze divine.

Se diversi notissimi artisti si sono confrontati col mito di Prometeo – da Rubens a Mattia Preti, fino alla versione déco in bronzo dorato di Paul Manship, simbolo del Rockefeller Center di New York – la più celebre è però quella del grande pittore simbolista Arnold Böcklin. Questo capolavoro, il grande Prometheus del 1882, opera somma della Collezione Barilla di Arte Moderna, viene eccezionalmente esposto al pubblico fino al 9 maggio alla Fondazione Magnani-Rocca, durante il primo periodo della mostra “De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna”. Qui trova per la prima volta dialogo con le due versioni del Prometeo di Giorgio de Chirico e del fratello Alberto Savinio, i Dioscuri dell’arte, di cui il Prometheus di Böcklin rappresenta l’imprescindibile modello.

Del dipinto (realizzato a Firenze, dove Böcklin visse a lungo, citata nella montagna raffigurata nel quadro che riprende il profilo del Monte Morello che sovrasta la conca della città) si coglie al primo sguardo solo un cupo paesaggio di tempesta: onde di un blu profondo si infrangono con violenza contro una ripida scogliera, coperta di una fitta vegetazione, mentre il cielo denso di nubi è squarciato da un fulmine. Solo dopo un’attenta osservazione si riconosce la pur gigantesca sagoma del corpo del Titano, incatenato alla montagna e soggetto alla furia del cielo. Il protagonista della scena non è più l’eroe ribelle, ma la drammatica lotta, impari e senza speranza, dell’uomo contro le forze misteriose e oscure sprigionate dalla natura, che appare demonicamente animata. La figura di Prometeo, la cui consistenza materica sembra assorbita dalla roccia e dalle nuvole, così inerte ed esposta, ci comunica un senso di eroica impotenza e di rassegnazione.

Böcklin è uno dei grandi uomini del nord che sognano le rive mediterranee dove è nata la classicità ellenistica, le pianure abitate dagli dei. La chiarità del sud, dove tra le ombre trasparenti la natura suscita e accoglie presenze mitiche, è un paradiso perduto; Böcklin tenta di ritrovarlo, e scende per questo a Roma. La cultura assimilata a Basilea, dove era nato, non dovette essere estranea a questa ricerca. Basilea era infatti la patria anche dello storico Jacob Burckhardt; e negli anni intorno al 1870 vi abitava Nietzsche, che in alcune conferenze anticipò i tratti fondamentali della Nascita della tragedia, edito nel 1872. Così cominciava quel libro: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”. È lo spirito nordico affascinato dalla Grecia.

Entro quella duplicità Böcklin, anche se sembra stare in bilico, partecipa del secondo termine; è dionisiaco, ebbro, e solo talora riesce forse a unire le due sponde. Ma troppa gioia, troppa solarità sono nel mito greco di Nietzsche, mentre la musa di Böcklin è la malinconia: la strada del mito porta in lui al dramma, al commercio con la morte. Non è classico, Böcklin: la nostalgia del classicismo greco, e quindi il desiderio del suo recupero, sono manifestazioni di spirito romantico. Proprio per la fedeltà alla sua natura nordica, per la profonda malinconia, per la modernizzazione del mito, Böcklin suscita, nella seconda metà del XIX secolo, un ritorno di romanticismo, fonda una grande arte neo-romantica. Di essa è esempio tra i più ricchi di fascino proprio il Prometheus, in un crescendo che vede l’artista realizzare in quello stesso periodo le cinque stesure dell’Isola dei morti, tra il 1880 e il 1886; opere di invenzione assolutamente nuova, che fanno di Böcklin uno tra i massimi pittori dell’Ottocento. È in esse un inno drammatico alla natura, e un rapporto profondo tra la natura e l’episodio che vi si svolge; mostrano così una derivazione dal romanticismo originario tedesco, cioè da Caspar David Friedrich, palese modello del giovane Böcklin per i suoi primi paesaggi. Il centro, fantastico e naturale, di queste opere sta nell’immagine di rocce sul mare: rocce coperte da una folta vegetazione e precipitanti a picco sull’acqua, che contro di esse si frange o che le lambisce quietamente. La terra possente, immobile, eterna, e l’acqua trasparente, immensa, agitata e anch’essa eterna – i due elementi della natura originaria contrapposti e uniti – esprimono la bellezza suprema del loro contrasto e della loro unione.

In Prometheus il mito si palesa, è calato entro la natura, la abita e ne è assimilato. Il gigante è disteso sulle rocce, nel punto supremo, dove la vegetazione si estingue e le nuvole incombono; lontano, quasi irreale, quasi sogno, il grande corpo sembra una proliferazione delle rocce o un addensamento delle nuvole, tanto vi appaiono simili il colore e i giochi delle ombre e delle luci; sembra entrare nella grande armonia naturale del cosmo. Questo paesaggio, spinto così in avanti, senza orizzonte, quasi a contatto con chi osserva, è di grande bellezza, drammaticità e coinvolgimento; non una veduta, ma una terra che ci attira e, nello stesso momento, impaurisce, richiama a sé, con un potere di attrazione prodotto da qualcosa al di là della bellezza. Il martirio di Prometeo sembra quasi nascosto, secondario, eppure crea il mistero del paesaggio, ne acuisce il dramma.

Giorgio de Chirico, grande ammiratore di Böcklin, trasse ispirazione da quest’opera nel suo Prometeo del 1909, prima opera dove il mito si cela tra gli elementi del paesaggio naturale, in cui il pittore inserisce nella roccia la gigantesca sagoma del Titano; come scrisse Maurizio Fagiolo dell’Arco “Il quadro Prometeo vede un’alta roccia coronata dalla tragica figura mitica (come in un quadro famoso di Böcklin) che si scorge a un’attenta analisi dell’immagine”. De Chirico stesso nel suo saggio su Böcklin del 1920 ricorda questa opera: “Nel suo Prometeo interpretò meravigliosamente quell’aspetto della divinità gigante scesa ad abitare la terra, aspetto di cui la prima idea gli venne forse vedendo il quadro di Poussin intitolato Paesaggio siciliano, che trovasi ora al museo di Pietroburgo, e ove si vede in fondo, dietro una valle abitata da ninfe, sopra una roccia alta, il dorso gigantesco di Polifemo che suona la zampogna”. E prosegue su Böcklin “La prima volta che vidi la riproduzione di un suo quadro, ero ancora un bambino”, mentre al soggiorno monacense ha sempre fatto risalire la conoscenza approfondita di Böcklin e di tutti gli altri suoi referenti pittorici e filosofici: Klinger, e poi Nietzsche, Schopenhauer, Weininger.

Anche per Alberto Savinio, Böcklin rappresenta un modello primario. La sua serie sulle città trasparenti, ammassi di rovine galleggianti su una sorta di isola flottante, evocano nell’impatto iconografico la citata serie dell’Isola dei morti dell’artista svizzero. Nel suo Prometeo del 1929, Savinio propone tuttavia una visione diversa da quelle di Böcklin e de Chirico, operando una trasformazione ironica dell’impacciato nudo fotografico ottocentesco che gli era servito come modello, in una figura di dimensione mitica, benché quasi acefala. Sono gli anni in cui primeggiano nella pittura di Savinio i corpi giganteschi di eroi dell’antichità pagana, anomale creature che animano una nuova e straordinaria iconografia di rivisitazione mitica, in ardite torsioni di stampo manierista che rendono improbabile ogni richiamo alla classicità pur nella loro nudità grecizzante. Il Prometeo di Savinio volge malinconicamente la minuta testa ovoidale al cielo dove spicca, come l’epifania di un sogno irrealizzato, la fiaccola prima donata e poi negata agli uomini coi colori e le forme dei giochi agognati nell’infanzia. Alter ego dell’artista solitario, sacerdote e mago: un veggente. Per la prima volta esposte insieme, le due versioni del Prometeo di de Chirico e Savinio si trovano al cospetto del capolavoro del loro maestro, fornendo una rara occasione di lettura e di confronto delle fonti artistiche, ma anche filosofiche, alla base dell’arte dei Dioscuri.

IMMAGINE DI APERTURAAlberto Savinio, I Re Magi, 1929, olio su tela.

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