Sopra la mia testa. Sotto i miei piedi – Il problema dello spazio e dell’oggetto nel cinema di La Pietra

Si apre oggi 10 febbraio 2022 il progetto Ovunque a casa propria, primo approfondimento espositivo sulla ricerca cinematografica e sulle sperimentazioni audiovisive di Ugo La Pietra, instancabile sperimentatore della percezione visiva. In mostra anche le videoinstallazioni contemporanee di Lucio La Pietra. Il progetto, a cura di Manuel Canelles, è promosso da Spazio5 artecontemporanea e realizzato in collaborazione con TreviLab, Unibz, Liceo Artistico Pascoli, Bolzano Officine Vispa, Vintola18 Centro di cultura giovanile Cineclub Bolzano, Spazio Macello – Meta, con il sostegno della Ripartizione cultura italiana della Provincia di Bolzano, del Comune di Bolzano e della Libera Università di Bolzano.

Ugo La Pietra
Ovunque a casa propria Film e video 1973/2015

A cura di Manuel Canelles

Inaugurazione 10 febbraio 2022 ore 18.00 Centro Trevi
Via dei Cappuccini 28 – Bolzano

Fino al 20 marzo 2022

Ugo La Pietra. Conversazione con Manuel Canelles
LA MOSTRA

Sopra la mia testa. Sotto i miei piedi
Il problema dello spazio e dell’oggetto nel cinema di La Pietra

Testo critico Manuel Canelles

0.

L’enciclopedia della nostra storia suggerisce di confrontarsi con i diversi significati di spazio, da quello fisico della nostra esperienza a quello del ricordo e della narrazione, dallo spazio fantastico a quello topologico delle matematiche, (1) dove appunto concetti fondamentali come convergenza, limite, continuità trovano la loro migliore formalizzazione (2). L’utilizzo del codice audiovisivo permette a La Pietra di affrontare la componente psicologica delle architetture, il tema della retorica degli elementi imposti e quello della loro memoria. E la parte più profonda di questa si misura nel sottile incontro con le esperienze possibili della spazialità, in una complessa oscillazione tra la dimensione utopica e quella reale del quotidiano. Ha ragione Barthes quando, parlando di fotografia, sostiene che “l’impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento” (3) e che ciò che veramente ci attrae non è sovrapponibile immediatamente a ciò che vediamo ma anzi, si può manifestare in un periodo successivo durante l’incontro misterioso e profondo di queste due spazialità. Nelle sue azioni dettate in forma di proclama – ne discutiamo dopo – La Pietra sembra ricordarci quanto sia opportuno tenere presente il rapporto condizionante dello spazio sull’individuo e dunque progettare spazi non ancora visibili che appartengono alla memoria personale. Non solo, egli scompone l’idea stessa di oggetto, ne modifica l’aspetto percettivo, ne muta il contesto spaziale, conferendo incertezza epistemologica (e destabilizzandone la funzionalità) a elementi la cui modalità di utilizzo il sistema sembra già aver protocollato. Sappiamo che Ugo La Pietra non ama essere definito, le definizioni presuppongono un modello di iscrizione, una firma in calce che il sistema se non impone per lo meno raccomanda, d’altronde il problema della determinatezza del ruolo è già un problema politico; egli preferisce dunque assumere quello di “ricercatore nelle arti visive” ma per comprendere il rapporto tra la nostra esperienza e lo spazio abitabile, egli di fatto riveste il posto anche di mediatore costruendo un punto di osservazione lucido, una vedetta da cui poter scorgere particolari significativi, che permetta al vocabolario semiotico di comprendere le immagini e i segni presenti. La sua ricerca cinematografica è uno studio sul rapporto instabile tra spazio visivo e spazio vissuto; una ricerca del presente orientata verso il futuro che approfondisce la condizione della transitorietà nella fissità del segno permettendo che la visione di fronte ad uno stesso oggetto non sia mai la stessa e non possa mai essere definita.

1.

La Pietra è “un costruttore di modelli, un toolsmaker che negli anni Settanta si trova ad operare alle soglie di quella che è stata definita società dell’informazione, con la sua morfologia a rete e il controllo come dispositivo di potere” (4); egli traduce l’azione in bisogno e lo decodifica attraverso la sinestesia dei linguaggi espressivi in una dimensione di sarcastico sfondamento, di lirica possibilità di protesta. La grandezza contenuta nei suoi lavori cinematografici sta nella capacità di saper cogliere gli stereotipi demagogici della propaganda di potere (industriale, politico, estetico, culturale) lasciando – come un moderno Charlie Chaplin – che la carica parodistica del racconto sgorghi spontaneamente. È però anche un lavoro per sottrazione (anche e soprattutto dalle dinamiche del mondo dell’arte) che per mezzo di una cifra antinomica sembra quasi voler boicottare la propria stessa funzione, ogni fotogramma di un suo film è atto anarchico, un frammento lirico calato nell’occupazione dove gli incontri tra la geografia della mente e lo spazio fisico si incontrano agli angoli di un possibile non ancora realizzato (o che mai lo sarà). Forse La Pietra non realizza film, egli in realtà concepisce un meta-progetto complesso formato da atti teatrali declinati in stasimi antropologici attraverso un procedimento ideativo radicale che fa saltare i tempi e i criteri di riferimento e che al contempo permette al reale di diventare metafisico pur in un costrutto materialista. Nonostante questo egli mantiene l’ancoraggio ai procedimenti formali del cinema, non è in discussione l’utilizzo del linguaggio ma ogni elemento in scena (La Riappropriazione della città; La Grande Occasione) conserva il proprio statuto di macchina senziente, esponendosi a una continua ridefinizione. È una dualità che dà origine a un processo sintetico (e sinestetico) tra la struttura e l’inatteso, aprendo una discussione ontologica riguardo all’identità stessa del fare cinema.

2.

Possiamo capire molte più cose di un sistema se ci concentriamo su modelli di relazione tra le parti piuttosto che sulle parti stesse come entità isolate secondo l’assunto per cui “ogni essere contiene in sé stesso la totalità del mondo intelligibile, di conseguenza, la totalità è ovunque; ciascuno è questa totalità e la totalità è ciascuno. L’uomo, tale qual è ora, ha cessato d’essere la totalità ma non appena cessa d’essere una persona distinta, egli s’eleva e penetra nella totalità del mondo.” (5)

Gli interventi cinematografici di Ugo La Pietra partecipano alla trasformazione del paesaggio, rideterminando la geografia e l’immaginario dei luoghi indagati e percorsi (quasi fossero oggetti disfunzionali) in un rapporto sincretico con l’azione creativa dello spazio urbano/ domestico e la forza del nostro immaginario. L’esperienza di fruizione avviene sotto i nostri occhi come un racconto che risolve se stesso, in una sorta di autoregolazione che si realizza man mano che il sistema si evolve (6) ma allo stesso tempo interviene l’atlante delle nostre esperienze, con presagi, sogni e desideri intermedi. Come non collegare ad esempio le tensioni nel film La Grande Occasione con quelle espresse nel Il desiderio dell’oggetto, serie di schede in cui persone di ogni estrazione sociale forniscono un ritratto fotografico e una foto degli interni della propria casa, enunciando quali sono gli oggetti con cui vorrebbero arredarla? Nel contesto di questi desideri in tensione (e dunque di realtà possibili e ipotetiche) prende forma il racconto orale di La Pietra. L’aedo che pur si diverte a mostrarsi cieco in realtà ci vede benissimo, gioca beffardo con la semantica, isola accuratamente i significanti manipolandone i segnali morfologici (Il Monumentalismo o Spazio reale Spazio virtuale). Il suo cinema è una composizione radicale tra immagine, corpo e parola in una sorta di autoritratto collettivo, un flusso di coscienza iperdidascalico che accompagna il fruitore oltre i codici espressivi utilizzati, quasi in una sorte di trance extralinguistica (La mia memoria; La Grande Occasione; La ricerca della mia identità).

E qui entra in gioco un fenomeno che ha sempre un po’ a che fare con il mondo antico, quando si cita il mito d’altronde stiamo sempre parlando anche di identità e memoria, di archeologia dell’umano, di quelle stratificazioni che poi, scavando, intercettano il mondo della coscienza, l’ecologia profonda non sempre deve scendere a patti con il fenomeno religioso.

O forse semplicemente ognuno timbra il biglietto per sentire ciò di cui ha bisogno e cerca un significato di prossimità. Entriamo nel campo dei desiderio, appunto. Come sostiene Locke, “una persona è la medesima se la medesima coscienza unifica tutti gli stati mentali. Dato che la coscienza è coscienza di esperienze diverse, l’identità personale dipende dalla memoria che permette di ricordarci tutte le esperienze passate unificandole e facendo sì che ciascuno di noi possa riconoscerle come proprie.” (7)

Il progettista agisce in scena con la consapevolezza di essere alla ricerca di qualcosa di vivo e in continua trasformazione, quasi il tentativo di riprodurre ciò che non è più visibile:

la vita ovvero il sé. O forse una perenne nostalgia dell’infanzia perduta. Un gioco molto serio, appunto, dove ritornare all’infanzia corrisponde forse a un cammino a ritroso verso il destrutturale, il non ancora formato, la linfa è forse la stessa delle fiabe epiche da cui viene mutata la struttura circolare o piuttosto una cifra onirica, transeunte, ipnotica.

Un universo più profondo ci attende fuori campo, forse nei fotogrammi scartati della memoria o dei desideri non ancora realizzati (o nemmeno pensati). Si potrebbe facilmente sostenere che La Pietra, nelle narrazioni dei suoi film, espone un continuo emendamento di opposizione, continuando a permettere la continuità del sogno ma evitando che questo al contempo diventi monumento (dunque permanente nel presente), nostalgia (dunque permanente nel passato) o rimpianto (dunque permanente nel non realizzato).

3.

Il cinema diventa dunque “un mezzo indispensabile per analizzare e decodificare l’ambiente, registrare le tracce di un’attività originale, smontare e rimontare i topoi dell’architettura urbana, realizzare indicazioni di comportamento capaci di dar vita alla propria città.” (8) Io aggiungerei: cercando il più possibile di alleggerire tale ambiente da quegli elementi di blocco che storicamente lo definiscono e al contempo problematizzano il concetto stesso di sistema di progettazione, quell’insieme di elementi (oggetti, fenomeni, materiali, strumenti, processi…) ordinati, organicamente classificati e relazionati secondo leggi precise.

Per approfondire questo pensiero, partirei dalle parole dello stesso La Pietra il quale afferma che “la ricognizione su un luogo o un territorio, l’indagine su un comportamento, un individuo o un gruppo sociale possono assumere una dimensione estetica estremamente rilevante in virtù delle sovrapposizioni di diversi fattori sociali e culturali che hanno contribuito a trasformarli.” (9)

Lo schema di comportamento delle forze osservate è più complesso se implica uno scambio reciproco tra l’oggetto e l’ambiente, e si rende manifesto nella condotta motoria della macchina da presa che ritrae un invisibile sé. Ed è infatti in questo contesto che la parola ambiente si carica di significato, la sua etimologia (part. pres di ambire) è intesa al plurale come “luoghi o persone in mezzo ai quali si vive” (10); non solo dunque architettura come luogo abitabile, ma anche (e forse prima di ogni altra cosa) come spazio collettivo, condiviso, comune.

E infatti nonostante i suoi ambienti siano spesso deserti (quasi da genere western) Ugo La Pietra considera sempre la possibilità che l’azione si tras/formi (o per/formi) all’interno di una placenta collettiva. Configurare l’ambiente urbano rendendolo abitabile, d’altronde, è uno dei compiti dell’operatore estetico, del creativo che dovrebbe aiutare le altre persone a riattivare un rapporto con l’ambiente in cui vivono.

È in questo territorio condiviso (e talmente ridefinito da divenire astratto e scomporsi in volumi percettivi soggettivi) il cinema può rivolgersi all’umanità intera attraversando qualsiasi struttura sociale e relazionale. Ugo La Pietra ci accompagna, le sue gambe a ben vedere non sono mai stanche, d’altronde il processo di montaggio e postproduzione è strutturalmente interconnesso al processo dell’acting, anzi quasi senza soluzione di continuità il suo cinema è un progetto a corpo unico che ci spinge verso il luogo dove non potemmo arrivare.

La relazione con lo spettatore è essa stessa atto artistico nel contesto del quale dichiarare la propria responsabilità. Responsabilità la quale ammette sempre un rischio (o forse è l’idea stessa di relazione a presupporre comunque un rischio?) Ugo La Pietra entra in relazione con lo spettatore, agevola l’osservazione di ciò che quest’ultimo non è più abituato a vedere; rende visibile l’invisibile e riparte da quello spazio vuoto privo di risposte generiche, moralistiche e codificate.

4.

Come fruitori dei suoi film siamo chiamati a sospendere l’impulso a teorizzare ed entrare il più possibile nella percezione del fenomeno offerto allo sguardo; il rapporto tra queste spazialità si manifesta senza preconcetti permettendo ai dettagli di confluire nella nostra immaginazione. È il momento in cui può aver luogo quello che Aristotele descrive come è il liberatorio distacco dalle passioni tramite le forti vicende rappresentate sulla scena (11). La predisposizione di un itinerario di fruizione specificatamente realizzato e con esso un’adeguata segnaletica anticipano il passaggio ad un sistema di fruizione collettiva (tratto fondante nella poetica di La Pietra) che di fatto permette al fenomeno della catarsi di oggettivarsi in forma pubblica e sociale trasformandosi – sempre mediante il processo dell’immagine – da atto individuale a processo di purificazione comune. E questo è possibile perché il suo cinema, a parte non essere certo e definibile, è ontologicamente instabile. E negli interstizi di questa precarietà il significante e il significato intercettano microcosmi, spazi quasi impercettibili della vicenda umana spaesata, quella che si carica di un desiderio o che scava sulle ragioni profonde del progettare o (c’è differenza?) dell’abitare. Narrando se stesso come un antieroe spaesato, Ugo La Pietra autodenuncia beffardo il proprio atto creativo. C’è qualcosa di epico in quelle immagini, accade davvero qualcosa di forte sulla scena se quel cowboy con baffi e cappello problematizza burlescamente il tema della libertà personale di fronte alla struttura rigida di un sistema. Poco importa se poi parla di se stesso. Egli aziona ambienti disequilibranti che offrono la possibilità di comprendere (o per lo meno riconsiderare) il nostro approccio alla manifestazione estetica, alla relazione con l’alterità, e ricalibrare quei fenomeni che sottendono all’idea di spazio come attesa, architettura e oggetto come emblemi di ascolto. Senza i quali, ci piace pensare non potrebbe esserci partecipazione. Dunque azione sociale o pensiero politico.

5.

Il suo cinema è dunque una sorta di installazione site specific, protesi e al contempo approfondimento della sua ricerca (Arte nel sociale, 1976/79; Riconversione progettuale / Interventi pubblici per la città di Milano, Paletti e catene, 1979) su spazi possibili ma non ancora progettati, una fotografia di oggetti/attrezzature/arredi che permeano il nostro quotidiano. Egli li riprogetta stravolgendo la loro destinazione. Il tema dello scollamento dell’oggetto (o dell’architettura) dalle gerarchie sociali prefinite è presente anche nel suo cinema; egli non scardina l’identità degli spazi o degli oggetti in esso contenuti ma tenta di promuovere quelle attività che accettano più soluzioni, tutte ugualmente plausibili, offrendo occasioni di confronto tra diversi percorsi alternativi.

Essendo strutturalmente collegato alla sua ricerca visiva, il suo progetto cinematografico è dunque anche un’indagine sull’idea stessa di design e non solo perché il primo impulso all’utilizzo di questo mezzo espressivo è riconducibile al tema della negazione dell’oggetto stesso, al cinema come anti-design, forma di opposizione al sistema industriale e rifiuto della riduzione dell’arte a chirurgia plastica ma anche in quanto i suoi film complicano il concetto stesso di oggetto nello spazio.

Egli si trova ad operare alle soglie di quella che è stata definita società dell’informazione, con la sua morfologia “a rete” e il “controllo” come dispositivo di potere, dunque modifica il sistema dei caratteri che definiscono lo spazio e, aspetto forse più rilevante, che circoscrivono il suo utilizzo. Ci sono ad esempio proprietà della forma che entrano in gioco nella percezione comune, quando si riconosce o non si riconosce un oggetto o un arredo urbano/domestico per quello che è o come appartenente al suo genere.

È evidente in Interventi pubblici per la città di Milano (1979) quando non solo ironizza sulle mancate operazioni di trasformazione dello spazio urbano, ma nella misura in cui forza elementi come “paletti e catene” (descrivendoli come segnali provvisori di un’ipotetica trasformazione della città) offre loro un’occasione per manifestare intimi poteri e di rivolgersi contro l’uomo.

Ma allo stesso tempo – pur nel sarcasmo tecnico del montaggio e della satira del contenuto – egli nel docufilm La casa telematica (1983) propone un riscatto del processo informativo. Da un sistema di recezione continua arelazionale dei dati, imposta dal sistema e acquisita acriticamente dalla massa (impossibile non collegarci ai suoi dispositivi di design esposti alla Fiera di Milano del 1983 (12), può innestarsi una grande trasformazione e un’ipotesi di futuro di libertà. Gli strumenti che noi abbiamo e avremo – dichiara La Pietra – sono strumenti che consentono un’elaborazione e una messa in circuito di messaggi che ognuno di noi potrà liberamente elaborare.

L’architetto e il designer riflettono insieme, l’oggetto è ridefinito in quanto può essere ridefinito in potenza anche il contesto in cui è collocato. Sino a che oggetti come scarpe, paletti, dissuasori, cavi elettrici, segnali, strisce pedonali, semafori, televisori, impianti radio, apparecchiature high-tech… conservano la loro identità?

Non si possono formulare regole o criteri generali poiché il numero e la differenziazione dei livelli di interpretazione dipende dalla posizione assunta dall’osservatore (Per oggi basta!, 1974), il problema posto è spiazzante “perché propone una prospettiva insolita con la quale considerare cose note. O richiede l’esplorazione di trame concettuali estranee alle conoscenze normalmente usate, provocando uno spiazzamento cognitivo che scuote le abitudini di pensiero costituite e obbliga ad una ricerca più creativa, libera e coraggiosa.” (13)

6.

L’antitesi semiologica nel suo lavoro è costante, egli è talmente presente in scena che trascende se stesso. La sua fisicità diventa manifesto ontologico, quasi un progetto di rivista in movimento, che va a ripescare all’intensa attività di ricerca e di divulgazione intorno ai temi del rinnovamento delle discipline artistiche in rapporto alle aspirazioni delle nuove generazioni (14), dirigendo programmi editoriali quali Inpiù, BreraFlash, Fascicolo, Area, Abitare con Arte, Artigianato tra Arte e Design.

Il problema è il rapporto tra pratica artistica, politica, laddove probabilmente solo la prima possiede la reale capacità di intercettare i bisogni invisibili dell’uomo, anticiparne le urgenze e leggere la realtà con occhi non compromessi, anche se talvolta con l’ausilio di pratiche decostruite e non trasferibili.

Il potere della ricerca artistica permette che essa possa sostituirsi (o sovrapporsi) a molte prassi scientifiche sociologiche, risaltando fenomeni collettivi, adottando protocolli di ricerca, intervenendo direttamente sulle emergenze, senza dover attendere permessi, delibere, autorizzazioni. Lo sa bene La Pietra che alla stregua di un direttore di una rivista (o appunto ancor meglio del regista) conduce e scompare come un puntino di un videogioco astratto agli albori del gaming, si posiziona centuplicato tra utopia, sarcasmo e disincanto facendosi portavoce e veicolo di istanze sociali, talvolta politiche, che si pongono l’obiettivo di destabilizzare le coscienze o destrutturare il pensiero collettivo (a volte ci si può semmai domandare se questo perché sociale corrisponda a un perché individuale) ponendo attenzione ai comportamenti delle persone e alle loro relazioni con l’ambiente e con lo spazio.

Ma per scomparire, egli deve abilmente controllare il gioco della trasformazione nello spazio in una dialettica continua sui corpi e sulla possibilità che l’arte possa ritrovare un equilibrio tra il reale e l’ideale. E per fare questo egli deve faticare, spostare continuamente l’attenzione ai bordi di un ipotetico immaginario collettivo e originare un’esperienza che sfida qualsiasi analisi; deve per forza smettere i panni dell’artista, del designer, dell’architetto e del musicista, proponendosi come intermediario tra il mondo omologato e sistemico e l’inverso generativo e antiretorico. Diventa egli stesso spettatore in scena accompagnandoci dietro le quinte dei suoi concept; forse diventiamo anche noi viaggiatori adottando con lui una strategia di passeggio indeterminato che ci porta a muoverci in maniera casuale all’interno di più territori (La Grande Occasione, La riappropriazione della città; La mia memoria). Questo lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno diventa uno studio per l’elaborazione di una cartografia non convenzionale. Il suo corpo/voce diventa ipnotico e si trasforma in un racconto in forma di proclama; ci possiamo ritrovare, paradossalmente, in un regno in cui le parole non esistono.

7.

“Abitare è essere comunque in casa propria, è uno slogan che esprime già un modo concettuale ma molto evocativo il senso dell’abitare che non è soltanto appannaggio dello spazio domestico ma anche dello spazio pubblico. Quindi, c’è una grande differenza tra abitare e usare lo spazio: si usa la camera d’albergo, si abita lo spazio domestico. Abitare vuol dire dare significato, espandere la propria personalità; è in questo senso che ho sviluppato negli anni ambienti, oggetti, segni: per fornire strumenti utili alla riappropriazione dell’ambiente pubblico sia dal punto di vista mentale che fisico.” (15)

Ugo La Pietra chiarifica e definisce il rapporto “individuo-ambiente”, realizzando strumenti di conoscenza e modelli di comprensione tendenti a trasformare il tradizionale rapporto “opera-spettatore”; attiva una relazione con la memoria dei luoghi e con quella degli abitanti, nel tentativo di abbracciare il territorio e costruire linee di pace, istituendo con esso forme di conoscenza e di scambio, evocando un delicato equilibrio tra il lungo tempo della materia degli abitati, delle architetture, dei tracciati di risulta) e quello rapido del pensiero.

Il suo meta/progetto cinematografico è dunque una scomposizione di tracce ed elementi visivi che sembrano assumere (perché intanto sono già diventati personaggi) l’atteggiamento riservato di chi presenta se stesso per la prima volta; sono indizi, segni appartati, sono sottili fuoricampo come se l’immagine del paesaggio domestico e quello urbano proiettasse – attraverso di essi – il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere nell’immediato.

I diversi gradi integrati di utilizzo del paesaggio rendono il processo di risignificazione un dialogo a più voci per cogliere le trasformazioni che attraversano e disegnano i territori, come sono e come potranno essere contribuendo a costruire un paesaggio narrativo, luogo del presente e del futuro.

La ricerca di La Pietra trascina lo spettatore fuori dalla cornice abituale dell’itinerario stabilito; la molteplicità delle spazialità sposta il proprio sguardo oltre il valore intrinseco dei modelli acquisiti e si apre all’azione quotidiana, il mestiere, il gioco, il riposo, il lavoro. Allora in questo senso possiamo affermare – estendendo la linea del pensiero – di essere di fronte al tentativo di rinnovare l’iconografia del paesaggio ma contemporaneamente allacciare l’archetipo della memoria all’utilizzo quotidiano del tempo.

1 Socco C., Lo spazio come paesaggio, in “Versus. Quaderni di studi semiotici”, n.73/74, 1996 2 http://it.wikipedia.org/wiki/Topologia

3 Barthes R. La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, pp. 130, 2003 


4 Ugo La Pietra, I Gradi di Libertà, Galleria Laura Bulian, testo a cura di Marco Scotini, 2016 
 5 Plotino, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano, 1992

6 Harding S. Terra Vivente. Scienza, Intuizione e Gaia, Aboca Edizioni, 2008 

7 Locke J (1632-1704) Trattato sull’intelletto umano. (cap.27) 


8 Mereghetti P., su La riappropriazione della città, 1977 

9 Dal Sasso D., Dialoghi di estetica. Parola a Ugo La Pietra, Artribune Magazine, 2017 (www.artri-

bune.com/arti-visive/2017/01/intervista-ugo-la-pietra/) 
 10 etimo.it Etimologia: ambiente 


11 Aristotele, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Laterza, Bari 1998 

12 La casa telematica, mostra curata da G. Bettetini in collaborazione con A. Grasso, allestimento

di Ugo La Pietra, Fiera di Milan, Aprile 1983 

13 Munari A. Appunti metodologici per i laboratori Giocare con l’arte, Q.2 Gruppo Immagine, 1993


14 http://ugolapietra.com/riviste/
15 Ugo La Pietra, Abitare è essere ovunque a casa propria, Ed. Corraini. 2019

Ugo La Pietra

INFO

Ugo La Pietra
Ovunque a casa propria
A cura di Manuel Canelles

Progetto promosso da
Spazio5 artecontemporanea
In collaborazione con
TreviLab, Unibz, Liceo Artistico Pascoli, Bolzano Officine Vispa,
Vintola18 Centro di cultura giovanile Cineclub Bolzano, Spazio Macello – Meta
Con il sostegno di
Ripartizione cultura italiana della Provincia di Bolzano, Comune di Bolzano, Libera Università di Bolzano Allestimento
Andrea Oradini / Manuel Canelles
Consulenza scientifica
Archivio Ugo La Pietra
Grafica
Sonia Galluzzo
Ufficio Stampa
Roberta Melasecca
Collaborazioni
Lucia Andergassen, Cristina Nicchiotti
Catalogo
Edizioni Archivio Ugo La Pietra
Progetto grafico
Ugo La Pietra, Simona Cesana
Redazione e ricerca iconografica
Simona Cesana

Inaugurazione 10 febbraio 2022
Fino al 20 marzo 2022
Orari:
9.00 – 20.00
Centro Trevi – Via dei Cappuccini, 28 – Bolzano
Tel. +39 0471 300980

Archivio Ugo La Pietra
Via Guercino 7 – Milano
Tel. +39 02 0236552825
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Ufficio Stampa
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IMMAGINE DI APERTURA – Ugo La Pietra. La Grande Occasione (locandina della mostra) Foto Aurelia Raffo

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