La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.
In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.
Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.
Parte seconda: La città
Vocazione
Ricordo quanti papaveri si vedevano dalla finestra nella campagna, e quelli non me li ero certo sognati. Colori cosí vivi non si sognano e poi ho sempre osservato che di un sogno non si ricordano i particolari inutili. Ma quei papaveri non servivano a niente e spuntavano sul rialto, dentro la finestra, come una cosa vera. Anzi, ricordo che pensavo: «Se tutto questo fosse un sogno, spunterebbe qualcuno in mezzo ai papaveri, succederebbe qualcosa, perché tutto nei sogni ha un significato». Invece, di tanto in tanto che riuscivo a sbirciare fuori della finestra, capivo che nulla vi poteva accadere e trovavo proprio nell’erba e nelle cose un senso incrollabile di fiducia. Era questo, anzi, che mi faceva sorridere.
Questo senso di fiducia mi è abbastanza familiare, e mi prende ogni volta che da un luogo chiuso do un’occhiata al cielo, alle piante, all’aria. È come se per un momento avessi dubitato dell’esistenza delle cose e quello sguardo mi rassicurasse. Un vezzo piuttosto banale. Come pure l’abitudine che ne consegue, di cercare il chiuso per godermi l’istante di liberazione quando metto fuori il naso. Nasce di qua che sono un grande frequentatore di caffè e di osterie, e mi piace sedermi negli angoli in penombra, sotto le finestre.
Ma non ho l’abitudine di ubriacarmi, né tanto meno di prender sonno sui tavolini. Comunque, in quei tempi ogni mia abitudine era saltata in aria e certe volte mi ritrovavo a notte alta in qualche strada dei sobborghi, e camminavo ancora, deciso a far l’alba in piedi. Me ne andavo con ogni sorta di pretesti, e di preferenza in paraggi fuori mano. Certe ore del giorno le centellinavo irrequieto su questo o quell’angolo. A ripensarci oggi, è strano che tanta inquietudine la quale insomma voleva dire che non sapevo piú vivere da solo – e infatti, parte del giorno e della notte non vivevo piú solo – mi sia rimasta in mente come una smania di solitudine, come una sazietà, quasi una nausea della sola presenza che allora cercavo. Ma cosí succede, dicono. A farla breve, ero innamorato; e godevo come potevo il mio amore. Da quella casa uscivo di notte, a mattino avanzato, a metà pomeriggio, nelle ore piú assurde, sazio e contento, e andavo, fin che avevo gambe, per ogni sorta di strade, inquieto per il prossimo incontro, qualche volta assonnato e qualche volta fresco e curioso. Dormivo a tutte le ore, e ad ogni risveglio mi pareva fosse mattino: cosí per me tutto il giorno era un lungo mattino. I caffè e le osterie erano come le tappe di un viaggio che non finiva mai.
Quella volta dei papaveri ero seduto a un tavolo grande sotto la finestra, appoggiato sul gomito, e sapevo che fuori c’era la campagna ma per indolenza non guardavo. Avevo ancora negli occhi la sonnolenza del gran sole sofferto, e un ronzío fatto di mosche e di fatica riempiva la penombra. Altro non si udiva, perché la stanza era deserta, e deserta pareva tutta l’osteria, né, ch’io sappia, mi ero mosso per ordinare qualcosa. Forse mi godevo la dimenticanza in cui tutti mi lasciavano, né so come dall’ingresso ero passato in quella stanza appartata. Se pure c’era un ingresso. Ricordo che tendevo l’orecchio sperando nel lontano frastuono di un tram, e fu l’assenza di questo rumore che mi diede a un tratto un senso leggero di smarrimento e un sospetto – il primo – che, se non udivo nulla, era perché non dovevo e che forse intorno a me qualcosa era cominciato che sarebbe finito chi sa come.
Ma proprio questa sensazione, che dovrebbe supporre uno stato di veglia, si mescolava a un’assurda fiducia – addirittura una tranquillità – che nulla poteva succedermi perché chi stava seduto dall’altra parte del tavolo mi era amico.
Questo è il punto. Niente era accaduto da quando, sapendomi solo in quella stanza d’osteria, non mi ero mosso a chiamare i padroni e avevo anzi cercato di popolare il silenzio col brusío di un tram lontano, ed ecco che ora ragionavo accettando tranquillamente la presenza di un estraneo e costui sapevo persino chi fosse. Cioè, non chi fosse, ma tuttavia qualcosa di piú: le sue disposizioni verso di me, i suoi gesti abituali, il suo modo di tacere e di guardarmi. Credo che non guardai nemmeno con curiosità il mio vicino; perché non si è curiosi di chi si presenta con la stessa inevitabilità con cui un altro noi stesso appare nello specchio. Non era questa la mia inquietudine: la compagnia l’accettavo con tutta naturalezza, ne ero persino lieto. Niente di simile, per esempio, all’ansia che m’invadeva a volte in quei giorni se mi riscuotevo da quella che mi era sempre distesa accanto e mi chiedevo per un attimo chi fosse veramente per me. Ripeto, il mio compagno non m’inquietava: c’era tra noi una confidenza fatta come di un’immensa e vaga massa di ricordi, a me impenetrabile in quel momento, ma pure esistente e comune.
Va bene, dicevo, essere qui con lui; ma in queste cose non bisogna ragionare troppo, né credere che, se i tram non si sentono, ci sia per forza un significato. Forse li ho sentiti senza farne caso.
Una volta per tutte devo dire che, fin da ragazzo, svegliandomi dopo un sogno non ho mai saputo rassegnarmi a dimenticarlo cosí senz’altro, ma vi ho sempre ripensato cercando di afferrarne il segreto. È tutt’altro che facile. Ma una cosa almeno ho messo in chiaro: un sogno si svolge non come un fatto che accade, ma come un fatto che viene raccontato. Per esempio: voi correndo in sogno perdete una scarpa. Credete sia per caso, ma non è. Dopo bizzarre avventure che vi hanno fatto completamente dimenticare il vostro piede scalzo, succede che al centro di una ricca mensa imbandita a cui vi accostate col fiato sospeso vedete la vostra scarpa, privata delle stringhe, ché assolutamente non bisogna succhiarle. L’operatore che vi proietta il sogno – voi stesso, direte – vi aveva fatto perdere la scarpa, l’aveva tenuta in serbo come un narratore fa di un buon particolare, ed ecco che ve la ammannisce quando voi piú non ci pensate. Per mera vocazione, io con l’andar degli anni mi sono tanto invasato di questa ricerca, che non di rado mi succede ormai di accompagnare un sogno con la continua preoccupazione di come è fatto, e con una estenuante attenzione ai suoi minimi particolari nel tentativo d’indovinare quale significato essi assumeranno piú oltre. Spero poi sempre – e temo – di cogliere l’operatore in fallo.
Tutto questo – ammesso sempre che in quel pomeriggio io sognassi – potrebbe spiegare qualche cosa. Per esempio, il mio orgasmo a proposito del silenzio del tram. Qualunque sia la ragione di questo silenzio, dicevo, è sciocco preoccuparsene. Ciò che accade è ben piú importante. Se davvero è cominciato qualcosa, bisognerà prima sognare fino in fondo, poi si vedrà.
Ma c’era la finestra. E dentro la finestra, nell’erba pallida del pomeriggio, i papaveri scarlatti, che non avevano niente a che fare con me o col mio orgasmo, eppure m’interessavano molto perché cosí vivi di colore e cosí assurdi. Per loro, che i tram non andassero non voleva dir nulla; picchiettavano quel rialto di prato come fantasmi leggeri, dondolando appena; e ricordo che li guardai di sfuggita perché capivo che in quel momento il loro mondo era un altro e ch’io ero il solo a saperli là.
Il mio vicino taceva. C’era tra noi come un’intesa a non farci sentire fuori della stanza chiusa, perché in quel caso uno di noi due avrebbe dovuto sparire. Ciò lo sapevamo benissimo. Come pure, io sapevo che, benché mi somigliasse di spalle, di mani, di espressione, lui era qualcosa come un operaio, tant’è vero che la giacchetta la teneva infilata a rotolo nella cinghia dei calzoni, e poggiava un gomito nudo sul tavolo e il pugno sotto la mascella, stando aggobbito a guardarmi.
Sorrisi meditabondo, senza staccare gli occhi dalle nocche di quel pugno che avevano un grande rilievo perché magre e forti e perché ad esse era legato, non so come, quel mio senso di confidenza e di passata intimità. Ecco che cominciavo a chiedermi il perché della mia sensazione e a cercar di superare la muraglia di tanti misteriosi ricordi comuni. Mi conosco bene e sono certo che se non avessi avuto già da tempo una prova tangibile di cordialità da quegli occhi, sarei stato inquieto o, per lo meno, imbarazzato. Che il giovanotto – di cui ecco sapevo anche il nome, Masino – fosse lui invece imbarazzato, non era un’idea che si confacesse al mio temperamento. In nessuna circostanza della vita penso mai che chi mi sta dinanzi possa temere qualcosa da me, mentre pure l’esperienza m’insegna che questo è il caso piú frequente. Comunque, cominciavo a capire, o forse immaginarmi, di che cosa fosse fatta la mia fiducia. Noi dovevamo aver già parlato, poco prima. Infatti come sapevo il suo nome sapevo anche il timbro della sua voce; sapevo persino che rigirava le parole italiane con una pronuncia faticosa e lenta; che si esprimeva in italiano come chi ha piú familiare il dialetto ma vuole adeguarsi all’interlocutore.
— Vediamo l’altra mano, — dissi improvvisamente. Senza scomporsi Masino mi tese il braccio libero, poggiando sul tavolo il gomito e il dorso del pugno chiuso, e non mutò volto, come se mi proponesse un gioco o un indovinello. Io allungai avidamente le mani e gli presi le dita e cercai di aprirgli il pugno a forza. Ricordo che mi sollevai persino sulla sedia. Masino con l’altro pugno sempre poggiato sotto il viso, non cedette. Allora feci come se la cosa non avesse importanza e lo guardai disinvolto. Masino sorrise contro le nocche della mano.
— C’è proprio bisogno di scherzare? — dissi.
Masino aprí il pugno. La palma era magra e scura, e i polpastrelli incalliti. La guardai appena, e mi chiedevo invece il perché di quella lotta e se me ne sarei vergognato per molto tempo.
— Sei contento di non pensarci piú? — disse Masino con una voce esitante.
— Può darsi che ci pensi ancora e molto, – risposi. – Perché non dovrei pensarci? Le umiliazioni mi restano impresse piú che le soddisfazioni. Sono come un ragazzo.
— Se ascolti me, non ci pensi piú, – disse Masino. – C’è cosí poco tempo. E tu devi far presto a raccogliere tutte le soddisfazioni che puoi, perché il momento che ti svegli è finita.
Io fissavo il tavolo e borbottavo tra me e me, come faccio sovente quando son solo. E, come succede, mi commuovevo in modo straordinario e non levavo piú gli occhi e mi sentivo vuoto e disperato, tanto che mi scorrevano le lacrime come fossero sangue, e dicevo: «Questo è il mio sangue che se ne va. Falle da solo queste cose, buffone». Ma sapevo che piú mi avvilivo e piú presto sarei tornato a galla, e un bel momento dissi:
— Basta. Non era niente. Io non c’entro.
— Allora, – disse Masino che non s’era mosso, – sei convinto?
— No, – risposi seccamente. – Tu con me non fai complimenti, e io neanche.
Parlavo col terrore di esagerare, ma non potevo trattenermi. Parlavo come si getta una pietra in un pozzo, seguendone il tonfo col freddo dell’acqua nelle ossa ma senza osare sporgersi. Masino poteva anche cambiare espressione e diventare mio nemico. Con la coda dell’occhio sorvegliavo la finestra e aspettavo che il torso di qualcuno la riempisse. Ma sapevo che fuori non c’era nessuno.
Quando riguardai Masino, mi ero messo a sorridere come lui prima, con la mano contro la bocca.
— Ho ragione? — dissi.
Masino mi fece con gli occhi cenno di continuare.
— Sono sempre stato un disgraziato, – dissi. – Ma piú che un disgraziato, un ragazzo. Certe notti mi rincresce di andare a dormire, perché mi pare tempo perso. Vorrei essere sempre sveglio, disposto a respirare e a vedere. Vedere, vedere sempre: mi basterebbe. Per me è un piacere da venir matto uscir fuori di casa e guardare il tempo, la gente che va, sentire l’odore. Poi è bello pensarci sopra. Ci sono sí delle umiliazioni, ma pazienza.
— Svegliarsi veramente, è un’altra cosa, — disse Masino con voce dura.
— Lascia parlare. Spetta a me dir questo, ché ci penso giorno e notte. Sarà solo un’umiliazione. La piú grossa di tutte. Ma si potrà raccontarla.
Seguí un momento che, oggi ancora, non so connettere col resto. Mi pare che facessi una smorfia, che tornassi ad accasciarmi, ma che ogni tanto levassi la testa e gettassi a Masino un’occhiata furtiva. Masino mi ascoltava cosí seriamente, che la finestra pareva non esistesse. Io invece la vedevo di sfuggita, e ciò mi dava un senso segreto di superiorità. Attento a non farmene accorgere, tenevo a bada i suoi occhi perché non guardasse fuori come me, e intanto pensavo, pensavo. Masino s’era tolta la mano dal mento, e stava curvo con le braccia incrociate sul tavolo.
— Si può raccontarla, – continuai. – Ne ho raccontate delle altre. Se tu vuoi, te la racconto bell’e adesso. Non faccio altro giorno e notte.
Tutti e due ci guardavamo sorridendo, e stavamo chini sul tavolo come due giuocatori. Io non sentivo piú in me l’irritazione. Ero stordito. Tutti e due volevamo parlare.
— Io una volta ho provato, – disse Masino. – Ma non sono capace. Bisogna sapere il perché della scarpa.
— Prova adesso, — pregai.
Allora Masino storse le spalle e fece una smorfia.
— Quello che so io è vero, – disse. – Non posso. Sono povera gente che verrebbero qui tutti e non ci lascerebbero parlare. Ci sono anche delle ragazze –. Masino rideva piano, e apriva e chiudeva nervosamente le dita sul tavolo. – Bisogna pensarci sopra e capire il perché. Si fa una cosa, ma raccontarla è diverso.
— È vero, – dissi. – Nessuno mi ha mai raccontato quello che faccio io. È impossibile.
Ci venne insieme la stessa idea. Gliela lessi negli occhi. Lui mi guardava a testa bassa.
— Bisogna essere in due, – dissi. – Come a fare l’amore.
Ma proprio mentre parlava, sentivo di essere nel vuoto. Non era questo che Masino aspettava da me. Lui pensava a tutt’altro.
— È piú bello ancora, – continuai. – Come venire al mondo un’altra volta.
Vidi la fronte di Masino rivolta alla finestra e risentii quel vecchio sussulto.
— Non ti sei mai svegliato veramente? — mi chiese a voce bassa.
Io avevo negli occhi la luce di quei papaveri e li guardavo intensamente dentro di me, come se questo fosse l’unico modo per assorbirli del tutto e nasconderglieli. Quasi gridavo dall’ansia. Era legata la mia vita a quei papaveri.
— Che cosa c’entra? – dissi in fretta. – Non ho paura a svegliarmi. Tanto ci penso giorno e notte.
Masino disse, sempre volto alla finestra: — Non serve pensarci. Svegliarsi è peggio che avere paura. Da quel momento non puoi fare piú niente.
— Lo so, — dissi piano. Proprio allora Masino aveva lasciato i papaveri e s’era rimesso a fissare il tavolo. Mi pesava il cuore perché capivo che niente sarebbe accaduto; che quel che poteva, era già stato; ch’era tutto contenuto in quella stanza e in quella finestra. Udivo come il rombo del silenzio nella penombra, e qualcosa in fondo al cervello mi susurrava: «Non importa, non importa».
Guardavo Masino con pietà, quasi con pena, e non volevo farmene accorgere. Tutto adesso di lui m’impietosiva, e provavo quel senso invincibile che ci dà la pietà di noi stessi, quando istintivamente ci si lascia andare e si piangerebbe, se non fosse un sordo rancore che si prova verso di sé. Gli guardavo le mani dure e tristi sul tavolo.
— Non vuoi sapere niente, Masino, — gli dissi a un tratto.
— No, niente, — rispose la sua voce allontanandosi, come se fosse di là dal muro.
Io rimasi non so quanto tempo seduto in quel luogo, con la tempia poggiata all’imposta di legno di dove senza muovermi avevo veduto prima i papaveri. Sapevo che veniva sera, ma stavo bene e non mi muovevo.
Quando mi giunse il frastuono dei tram mi riscossi, eppure avevo una vaga coscienza di sentirli già da tempo. La penombra che riempiva anche la finestra non poteva ancora aver nascosto il prato, ma io non ci pensavo in quel momento, e non guardai. Vedevo invece in fondo alla stanza una porticina socchiusa che dava sull’aperto e, ignorando da quanto tempo fossi là, mi prese l’inquietudine che sbucassero i padroni e si lagnassero della mia permanenza clandestina. Non era soltanto inquietudine, era spavento. Infilai la porticina, e, dopo un tratto di prato percorso col batticuore, scantonai dietro una fabbrica.
Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.