Dove una seconda testimone, Antonella Chilena, riferisce ai giudici del Santo Tribunale dell’Inquisizione di quando Pellegrina scovò una pupazza di stoffa come maleficio contro una zia di Petro Davy. Facendo a pezzi l’amuleto, la magara affermava di volere guarire la poveretta.
Venerdì 22 marzo 1555.
Sora Elisabeta, sebbene sottoposta al segreto, come consuetudine non riuscì del tutto a frenare la lingua. Qualche parola se la lasciò strappare dalle comari del vicinato, in apprensione se presentarsi anche loro al cospetto del vescovo inquisitore venuto da Patti.
Le volontà di Don Bartholomeo Sebastiàn erano ripetute in questi giorni di marzo dai sacerdoti nell’illustrare i Vangeli, dai confrati nelle riunioni delle congregazioni, dai banditori nelle pubbliche vie.
Straccioni e sfaccendati frammisti a cittadini, mercanti e qualche notabile, si riversavano nel Palazzo del Sacro Tribunale. Dichiaravano tutti, indistintamente, di essere venuti per togliersi un peso dalla coscienza e per timore della scomunica degli editti. Così fece anche sora Antonella, che decise di seguire l’esempio di comare Elisabeta.
Era persuasa che compito del buon cristiano fosse di adempiere sempre ai giusti precetti impartiti a tutti, di qualsivoglia stato et condizioni, come sanciva la prammatica del viceré De Vega, che ogni anno i maestri giurati erano tenuti a pubblicare, per rammentare in ogni città e terra di Sicilia le regole da seguire. Sora Antonella, non solo accettava le superiori disposizioni, ma assennatamente contribuiva a diffonderle. Nelle mattine dei giorni di festa non mancava mai di dare l’esempio recandosi a vedere et intendere la Messa, né in chiesa pensava a negoziare o passeggiare.
Per questi e tanti altri convinti motivi, sora Antonella varcò la soglia del Palazzo e attese pazientemente il momento della sua deposizione. Interrogata disse di chiamarsi Antonella, moglie di Iacobo Chilena, suora terziaria dell’ordine dei cappuccini. Iacobo faceva il venditore all’angolo di Santa Maria la Porta, dove avevano una casa solerata: una bottega sulla strada e qualche stanza ai piani superiori. Ci vivevano perché erano vicini ai macelli, ma possedevano anche una casa a S. Leonardo.
Sotto giuramento sora Antonella raccontò che erano trascorsi almeno 15 anni quando fu chiamata, insieme a Betta, moglie di Petro Davì, per assistere a un certo rito magico di una tale Pellegrina che aveva fama di magara. Doveva sanare una zia che alloggiava coi Davì, poco distante da casa sua.
Lasciò vagamente intendere di non ricordarsi se fu proprio Betta a chiamare la magara. Fatto sta che, arrivata in ritardo dall’ammalata, trovò Pellegrina che mostrava ai presenti un oggetto e diceva: guardate che maya è stata fatta a questa poveretta… intendendo la zia. Poi si mise a spiegare com’era riuscita a scoprirla e a togliere il maleficio.
La fattura dissotterrata poco prima in un cantone del magazzino era una papattola nera, di tela grezza, sporca di terra. Conteneva spilli e aghi, che Pellegrina sotto gli occhi di tutti estraeva, mentre stracciava la pupa di stoffa, assicurando così di guarire l’inferma.
Senza neppure attendere che concludesse il racconto, Sora Antonella venne interrotta. Dal momento che non aveva altro da esporre, prontamente il funzionario trascrisse nel verbale la formula di rito: Interrogata de odio, dixit: non. E pure lei fu monita de silenzio.
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