08 – La santissima missione di Don Sebastiàn

Dove il professore tiene una conferenza nell’aula magna dell’Università di Messina, per illustrare la figura e l’opera di Don Bartholomeo Sebastiàn, Vescovo di Patti, che dal 1546 al 1555 ricoprì la carica d’Inquisitore Generale di Sicilia. Svolse la sua “santissima missione contro gli eretici come censore del Regno”. Fu, infatti, inviato nell’Isola dall’Imperatore Carlo V, non solo per contribuire a fortificare la fede cattolica, ma anche per imporre le regole del Governo spagnolo.

La ragazza attraversò in tutta fretta l’androne dell’Università. Salì l’ampia scalonata del rettorato e raggiunse l’Aula Magna. Le porte erano accostate, il convegno già iniziato. L’hostess le porse il folder degli abstract. Ringraziò con un sorriso e assicurò garbatamente che non avrebbe disturbato. Al contrario percorse il lungo corridoio ornato di busti marmorei ed entrò dalla porta dei relatori, per evitare il pubblico che sostava in piedi in fondo alla sala.
Alcuni colleghi fecero cenno d’averle riservato il posto. Abbozzò un saluto al professore, in procinto di parlare, che replicò con uno sguardo di rimprovero per il suo ritardo. Era comunque giunta appena in tempo, perché il rettore, nel discorso d’apertura dei lavori, stava esprimendo tutta la sua stima nei riguardi dell’illustre relatore. Con flemmatico fair play gli passò il microfono, fra il caloroso applauso dei presenti.

Il professore iniziò schiarendosi la voce.
«Proverò a tratteggiare nelle linee essenziali la figura di Don Bartholomeo Sebastiàn, vescovo di Patti, che dal 1546 al 1555 ricoprì la carica di inquisitore generale di Sicilia. Lo farò attraverso i suoi dati biografici, come emergono dalle notizie storiche pervenute. Lo stesso Don Sebastiàn sintetizzò il suo operato nelle indicative parole del proprio epitaffio, composto nel corso dell’ultimo anno di vita e scolpito sul sacello, che, variamente ornato, fu eretto dallo stesso vescovo ancora in vita, per arricchire il Palazzo episcopale. Per la propria epigrafe sepolcrale Don Bartholomeo scrisse di essere nato a Turoli, nel Regno d’Aragona, provincia di Spagna, e di avere esercitato la santissima missione contro gli eretici come censore del Regno, dapprima nelle isole Baleari, a Cordoba, a Granata, e successivamente in Sicilia, dove amministrò il governo dello stesso Regno per tre volte in modo integerrimo. Non precisò l’anno di nascita, ma conosciamo bene quando Don Bartholomeo Sebastiàn rese l’anima a Dio: il calendario segnava 14 aprile 1568.
A conferma, le fonti storiche datano la sua venuta in Sicilia nei primi anni Quaranta del Cinquecento e riferiscono che nell’ultima parte della sua esistenza fu gratificato dall’alto riconoscimento di reggere il Regno di Sicilia, per ben tre volte, in assenza del viceré Don Giovanni De Cerda, duca di Medinaceli. Tuttavia, è soprattutto a un altro viceré che il suo compito istituzionale d’inquisitore generale è stato legato: quel Don Juan De Vega, con il quale intraprese una estenuante competizione per l’affermazione della Corona di Spagna in Sicilia, attraverso l’esplicazione l’uno del potere laico, l’altro di quello religioso. Scriveva incisivo Carlo Alberto Garufi: Col nuovo Viceré Don Juan de Vega e col nuovissimo Inquisitore Don Bartholomeo Sebastian s’iniziava un periodo ben grave per la Sicilia.

De Vega, quando nel 1547 fu nominato viceré di Sicilia, si trovava a Roma come ambasciatore di Carlo V, per soffocare politicamente il movimento della riforma luterana nei confini dell’impero. Da parte sua anche Don Sebastiàn, sin dalla sua designazione nel 1546, diede dimostrazione in Sicilia, come già prima nel Regno di Granata, della sua attività repressiva contro ogni forma di eresia. Si impegnò a ripristinare l’attività del Sant’Officio isolano, che il viceré precedente aveva indebolito. Punti di vista! Permettetemi la battuta di spirito, perché nel decennio precedente nell’Isola si visse, in verità, la sospensione di un incubo. Un periodo caratterizzato, tuttavia, dalle provocazioni portate avanti da monsignor Arnaldo Albertini, inquisitore di Sicilia dal 1534 al 1537, uomo energico e d’ampia cultura giuridica. Tante furono le accese reazioni ai suoi colpi di mano che alla fine fu sostituito e indotto a ritirarsi nella sede di Patti, dove era già vescovo dal 1534 e lo rimarrà fino al 1546, anno in cui proprio monsignor Bartholomeo Sebastiàn sarà investito del mandato episcopale nella medesima diocesi.
Vorrei ricordare, solo per inciso, che nel 1545 iniziarono i lavori del Concilio di Trento, che si protrarranno fino al 1563, per avviare la Controriforma della Chiesa romana. Don Sebastiàn parteciperà all’ultima sessione del Concilio come rappresentante della corona di Spagna.
Don Sebastiàn, espressione dell’Inquisizione spagnola, si trovò a operare nel clima fervente di discussione religiosa che avrà la propria sede ufficiale nel Concilio tridentino, istituito per riorganizzare l’intera struttura ecclesiastica e difendere la propria integrità dottrinale e disciplinare dalla Riforma luterana e dalla Riforma calvinista. Terminata la persecuzione giudaizzante, si aprì, infatti, il capitolo delle persecuzioni protestanti.

La presenza del nuovo inquisitore puntò a tacitare dispute e controversie religiose o a mettere fine alle richieste per la concessione di nuovi diritti, avanzate nell’Isola ancor prima della sua venuta. Vale in questa sede ricordare le istanze del Parlamento siciliano per reclamare l’abolizione del segreto istruttorio riguardo alle testimonianze e alle azioni procedurali del Sacro Tribunale. Il problema si risolse nell’unico modo prevedibile: il Parlamento siciliano fu tacitato e per i successivi cento anni non si affrontò più la questione. L’Inquisizione continuò ad avere mano libera sull’imposizione del segreto. Nei processi leggiamo, ripetutamente, la formula sottoscritta dai testimoni a conclusione delle deposizioni: Interrogato de odio, dixit: que non. Et fuit ei iniunctum silentium, interrogato se avesse rilasciato dichiarazioni spinto dall’odio, il testimone rispose di no. E gli fu imposto il silenzio.
Don Sebastiàn potenziò la repressione contro i protestanti, celebrando una serie di autodafé, atti di fede organizzati in grandi manifestazioni pubbliche. In uno dei suoi resoconti alla Corona, lo stesso inquisitore scriveva: Lo spettacolo è stato solennemente celebrato. Ricorda a questo proposito Garufi che la repressione della Riforma, ad opera di Don Bartolomeo Sebastian e del suo coadiutore Horoczo de Arze dal ‘46 al ’56 fu veramente spaventevole e feroce. Durante quei dieci anni, furono scovati e processati in quasi tutta l’Isola ben ottantasei luterani. Prima dell’atto di fede di Messina, Don Sebastiàn aveva celebrati altri tre autodafé al piano della Loggia di Palermo, nel 1547, nel 1549, nel 1551.

L’autodafé messinese del 1555 fu preparato con grande sollecitudine, attenendosi con scrupolo ai decreti religiosi. Onde evitare delazioni e ridurre i tempi procedurali, era prescritto di infliggere ai sospettati di eresia tre ammonizioni caritative entro i primi quindici giorni dall’arresto e, nel caso non si fosse ottenuta alcuna confessione, presentare l’atto d’accusa entro i successivi quindici giorni o prima ancora, secondo coscienza dell’inquisitore. Don Sebastiàn rispettò le istruzioni quasi alla lettera nel corso del processo mosso contro Pellegrina Vitello, accusata di stregoneria e condannata nell’atto di fede celebrato nella piazza del Duomo a Messina il 12 maggio 1555. Don Sebastiàn ingiunse due ammonizioni nei primi quattordici giorni, la terza al quarantesimo e le accuse furono rese note all’imputata il giorno successivo. Dopo quarantasette giorni, il Sacro Tribunale formulò le sue conclusioni, non risparmiando all’accusata la tortura super intentionem. Immediatamente dopo fu espressa la sentenza. In soli quarantotto giorni il caso era chiuso.

Come si può comprendere, lo zelo di Don Sebastiàn dimostra determinatezza nel portare a compimento la propria attività inquisitoriale. Questa solerte celerità nascondeva, tuttavia, un risvolto ancora più personale. Dalle circostanze l’inquisitore percepì che ben presto sarebbe stato sostituito. Il timore si avverò. A partire dallo stesso anno assunse la titolarità in Terra di Sicilia proprio il suo più stretto collaboratore, Horoczo de Arze o Florozco de Arze, così compare infatti negli atti del processo super magariam 1555.
Durante la preparazione dei processi, che porteranno alla pubblica manifestazione dell’autodafé di Messina, le notizie che giungevano dall’estero fecero intuire a Don Sebastiàn che non avrebbe più potuto contare sulla protezione dell’imperatore. Carlo V, infatti, nel maggio del 1555 era in procinto di passare lo scettro del comando, ormai stanco e avvilito per aver visto fallire il proprio sogno politico di far rivivere l’universalismo del Sacro Romano Impero.
Il sospetto, lecito, d’essere soggetto ai rivolgimenti conseguenti ad un cambio di potere, con epurazioni e vendette di cui poteva ben individuare la provenienza, portava Don Sebastiàn ad aumentare intransigenza, ostinazione e naturalmente sollecitudine e scrupolosità. Preparò quindi una pubblica manifestazione come uno spettacolo di commiato.

L’autodafé del 1555 è importante non solo per la volontà di estirpare, punire, castigare chi fosse in modo manifesto un eretico, ma anche per l’articolato programma. Salirono sul palco degli imputati trentadue persone. Un luterano recidivo fu messo a morte, e altri sei riconciliati. Dieci donne e due uomini vennero accusati di bigamia. Un’altra dozzina di donne condannate per arti magiche e divinatorie. Infine, un bestemmiatore chiuse il lungo corteo. Le colpe di questi condannati rappresentavano, in modo evidente, l’allargamento della potestà giudiziale del Sant’Officio ai reati fino a quel momento considerati dall’ordinaria giurisdizione ecclesiastica. Soprattutto vorrei far notare un fatto importante: il 12 maggio si rappresentò uno spettacolo quasi tutto al femminile: ventiquattro donne a fronte di otto uomini.

Dopo l’abdicazione di Carlo V, il viceré Don Juan De Vega rispose agli affronti di Don Sebastiàn con una ritorsione inusitata e scandalosa. Decise di privarlo delle rendite vescovili, congegnando contro di lui una serie d’accuse per reati commessi contro il fisco. Lo fece pure incarcerare. Ovviamente fu un passo falso. In Sicilia la condanna sollevò le proteste del clero e della nobiltà. Quest’ultima in particolare colse l’occasione di evidenziare un abuso politico. In Spagna si mossero il Consiglio Superiore del Sant’Officio e persino il re. Filippo II, succeduto al padre, volle che fossero restituite le rendite al vescovo e, per tacitare ogni questione, promosse De Vega ad altro notevole incarico: un gesto politico per rimuoverlo da viceré. Il subentrante, Don Giovanni De Cerda, ripristinò per intero il potere del Sant’Officio e in sua assenza Don Sebastiàn, per ben tre volte fra il 1566 e il 1567, ebbe il privilegio di sostituirlo nel governo dello Regno, come il vescovo stesso ricordava nel suo epitaffio. Terminò i suoi giorni a Patti, unicamente come pastore di anime. Fu in questa città che si adoperò per l’istituzione del Seminario ancora oggi esistente. Nel 1568 fu elevato al solio vescovile di Tarragona, città della Catalogna. Non poté assumere questo suo nuovo incarico, perché in quel medesimo anno morì».
Il professore riconsegnò il microfono al rettore e rivolto ai presenti accennò un ringraziamento per l’attenzione ricevuta.

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About the author: Sergio Bertolami