A Venezia, Inge Morath inedita – “Biografia di una fotografa” testo critico di Kurt Kaindl

Da sinistra a destra:
Inge Morath, Audrey Hepburn, Durango, Messico, 1958 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos
Inge Morath, Venezia, 1955 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos
Inge Morath, Venezia, 1955 ©Fotohof archiv / Inge Morath / Magnum Photos

INGE MORATH

Fotografare da Venezia in poi
Venezia, Museo di Palazzo Grimani

18 gennaio – 4 giugno 2023

Mostra a cura di Kurt Kaindle e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi.

Promossa dalla Direzione regionale Musei Veneto (direttore Daniele Ferrara) e Suasez in collaborazione con Fotohof, Salisburgo con il patrocinio e il sostegno del Forum Austriaco di Cultura di Milano

Basato su diverse interviste a Inge Morath, il testo di Kurt Kaindl – integrato e rivisto dall’autore – è stato pubblicato per la prima volta nel volume illustrato Inge Morath. Fotografien (Fotohof, Salisburgo 1992). Le citazioni dirette di Inge Morath sono riportate in corsivo.

Personalmente sono arrivata tardi alla fotografia

Con queste parole nel 1984 Inge Morath aprì una conferenza sulla sua carriera al Forum Stadtpark di Graz: all’inizio, infatti, tra i suoi numerosi interessi artistici, gli studi linguistici e la nascente attività di giornalista c’era poco che facesse pensare alla fotografia. Anche se aveva lavorato alla neonata agenzia Magnum a Parigi, non c’era quasi nulla che indicasse un suo lavoro fotografico personale. L’interesse per le immagini nacque solo dopo che si fu allontanata dal contatto quotidiano con i fotografi: all’improvviso il suo mondo fu pieno di immagini che aspettavano di essere catturate. Ripensando alle premesse del suo lavoro di fotografa, Inge Morath elencava più che altro attività di altro genere.

Imparare la lingua delle persone è sempre stato un passo importante verso la scoperta delle loro immagini interiori. Leggere e studiare le opere degli artisti che voglio fotografare costituisce per me una preparazione indispensabile. È un lavoro autoimposto che mi ha sempre arricchito.

Possiamo definire il lavoro fotografico di Inge Morath come un tentativo di creare un equilibrio tra la realtà esteriore di una persona o la rappresentazione di una società o di un ambiente, e la visione interiore di quella persona o società. 

La qualità delle fotografie di Inge Morath sta nella qualità del suo incontro con le persone, e l’una non può essere compresa senza comprendere l’altra.

Gli anni giovanili (1923-1945)

Inge Mörath nasce il 27 maggio 1923 a Graz, in Austria. I genitori, Edgar e Mathilde Mörath (l’umlaut tipico del tedesco si è “perso” da qualche parte nella sua carriera internazionale), sono scienziati che conducono una vita molto varia in diversi paesi europei. Inge nasce e viene battezzata nella fede protestante a Graz, ma genitori e bambina tornano subito a Friburgo in Brisgovia, dove il padre lavora come esperto della lavorazione del legno.

In seguito Inge Morath tornerà nella città natale solo per soggiorni più o meno lunghi; l’infanzia e altre fasi importanti della sua vita trascorrono altrove. Ciononostante è sempre tornata con piacere a Graz, dove vivevano i nonni e la madre. In ogni caso, la famiglia è originaria di Windischgraz, più a sud. Entrambi i genitori provengono da famiglie rinomate e benestanti: sindaci, medici, esponenti dell’alta borghesia.

In seguito, una buona parte della famiglia Morath vive a Graz, sicché Inge ha sempre una possibilità di soggiornarvi. È qui, durante le visite ai parenti e le vacanze estive, che si forma la sua impronta artistica. Il nonno, ad esempio, ha una poltrona fissa all’Opera, che all’epoca è un teatro rinomato, e Inge approfitta di ogni occasione per assistere alle rappresentazioni.

Un anno dopo Inge, a Friburgo, nasce un fratellino. La famiglia continua a spostarsi, seguendo i trasferimenti del padre nelle diverse sedi di lavoro: da Friburgo a Monaco e, successivamente, Eberswalde vicino a Berlino. I primi ricordi di Inge sono di Eberswalde, enormi cataste di legname in una segheria, dove i due bambini possono giocare liberamente. I frequenti spostamenti e l’atteggiamento aperto dei genitori permettono un’infanzia e una giovinezza libere e indipendenti. Prima che Inge abbia l’età per andare a scuola, la famiglia si trasferisce nuovamente, questa volta nella cittadina di Schirmeck vicino a Strasburgo, in Alsazia. Qui si formano altri ricordi d’infanzia: un romantico giardino francese, un’abitazione elegante ma poco pratica, le riviste Art Déco della madre e una casa aperta con tanti ospiti.

Mentre Inge impara lentamente il francese (a casa si parla tedesco), la famiglia trasloca ancora una volta e si stabilisce a Viches, sempre in Francia. Arriva il momento di andare a scuola e, in linea con l’approccio pragmatico dei genitori alla vita quotidiana, viene mandata senza molta preparazione alla più vicina scuola elementare francese. È un istituto retto da suore. I bambini indossano grembiuli neri abbottonati sulla schiena e scomodi stivali di pelle. In classe, i posti sono distribuiti in base all’“intelligenza”: i bambini considerati meno intelligenti nei banchi più avanti ed è qui che, per cominciare, viene messa Inge, che parla a malapena il francese. Prendendola come una sfida, scopre (o sviluppa) il suo talento per le lingue e nel corso dell’anno passa ai banchi più indietro. I suoi ricordi di questo periodo si fanno più vari: le immagini dei santi a scuola, la letteratura classica che i genitori leggono ai figli. Si rende conto degli scandali della piccola città, e il fratello può guardare di nascosto quando vengono ammazzati i maiali perché la figlia del macellaio si è invaghita di lui.

La famiglia si è appena sistemata a Viches che arriva il momento di un altro trasloco, questa volta di nuovo in Germania, nella città di Darmstadt. Inge è in seconda elementare, e a scuola si parla una lingua nuova. Anche questa volta inizia come l’ultima della classe, ma ormai ha imparato ad avere fiducia nelle sue capacità e, dopo due anni di scuola, parla due lingue. Alla scuola Rotenturm c’è poca sensibilità per i bambini; regole rigide e brutti voti prendono il posto della comprensione pedagogica. L’atteggiamento dei genitori nei confronti della scuola è ambivalente quanto pragmatico. Il padre è severo e considera uno studio assiduo e scrupoloso l’unica possibilità, mentre la madre è più indulgente, e ogni tanto porta i bambini in pasticceria. Nell’insieme, la famiglia continua ad avere una casa aperta e generosa. I numerosi ospiti, gli eventi sociali e le attività sportive dei genitori (scherma e volo a vela) offrono una vita di grande divertimento e varietà. Padre e madre lavorano presso un istituto di ricerca a Darmstadt, dove la famiglia rimane fino al 1938.

Le prime avvisaglie dell’avvento del nazionalsocialismo lasciano indifferente la sofisticata famiglia con amici e conoscenti in tutto il mondo. Come molti altri, i Morath sottovalutano il nuovo potere politico. Inge viene iscritta alla scuola delle suore protestanti e, subito dopo, alla scuola Victoria. Oltre allo studio, le sue attività principali sono le immersioni e andare a teatro.

Nel 1938 la famiglia torna a Berlino. Inge frequenta una scuola a indirizzo umanistico, adatta al suo talento per le lingue. Le vacanze vengono trascorse solitamente a Graz, dove trova l’unico collegamento con la fotografia dei suoi anni giovanili: il nonno lavora con una macchina fotografica di grande formato, e Inge ricorda sedute di posa interminabili e ritratti dall’aria imbalsamata in cui si riconosce a malapena. La sua educazione visiva si svolge principalmente nel campo dell’arte: la madre la porta spesso ai musei, e molti degli amici di famiglia possiedono quadri moderni.

La madre usa una macchina fotografica nel suo lavoro. È un’ingegnera chimica, lavora al microscopio e usa una Contax 35 mm per la documentazione. A Inge si apre un mondo di segreti e strutture cellulari che ricordano l’arte astratta. Con sua madre va a vedere la celebre mostra dell’“Arte Degenerata”, e la interpreta nel senso contrario alle sue intenzioni di denuncia. È un ultimo addio a una visione del mondo che ora è proibita.

A Berlino finisce le superiori e vorrebbe andare all’università per studiare lingue romanze e linguistica generale. Essendo troppo giovane per l’ammissione, deve prestare sei mesi di servizio sociale in un asilo infantile di una zona operaia di Berlino. È un lavoro duro, che mette alla prova le capacità di una ragazza della sua età senza alcuna esperienza. Finito il servizio sociale, prima che possa andare all’università le viene assegnato ancora un servizio obbligatorio di lavoro pubblico per giovani donne, che Inge svolge per altri sei mesi nel villaggio di Gross Borken, nella Prussia orientale. Concluso questo servizio tra la diffidenza dei contadini per la ragazza di città e l’antipatia della responsabile del campo per una coetanea sofisticata e disinteressata alla politica, può finalmente cominciare i suoi studi. Nel corso della formazione universitaria ha l’opportunità di trascorrere diversi mesi a Bucarest, in Romania, dove non partecipa alle attività dell’associazione studentesca nazionalsocialista.

Al suo ritorno a Berlino, i segni di decadenza del Terzo Reich sono inequivocabili e minacciosi. Inge viene interrogata per la mancata partecipazione alle attività degli studenti tedeschi a Bucarest, ma riesce a salvarsi con una certa ingenuità. Continua a studiare assiduamente tra le incursioni aeree, fino a quando la casa berlinese della famiglia viene colpita e i genitori si trasferiscono a Salisburgo. Il fratello è stato catturato dagli inglesi nei primi giorni di guerra, e i genitori non sanno se sia ancora in vita; tre giovani cugini ai quali Inge era legata a Graz sono già stati uccisi. Verso la fine della guerra, per la famiglia è quasi impossibile mantenere i contatti.

Dopo aver superato l’esame di stato, Inge non ottiene l’autorizzazione a proseguire gli studi e viene arruolata a lavorare in una fabbrica essenziale per lo sforzo bellico a Berlino Tempelhof. Le operaie sono per la maggior parte prigioniere di guerra, specialmente ucraine. La fabbrica viene regolarmente bombardata. Verso la fine della guerra la situazione si fa sempre più caotica, ed è facile capire che quell’importante obiettivo lascia scarse possibilità di sopravvivenza. Nella confusione di un bombardamento, mentre le operaie si precipitano fuori in cerca di un riparo, Inge fugge dalla fabbrica. Senza documenti, si unisce alla marcia degli sfollati diretti a sud, a Salisburgo.

Giornalista in Austria (1946-1949)

Per Inge, come per tanti altri compagni di sventura, la fuga a Salisburgo è un calvario. Non ricorda quanto durò il viaggio; stremata nel corpo e nello spirito, raggiunge finalmente la meta, la stazione ferroviaria di Salisburgo. Pur essendo già stata nella nuova casa dei genitori, ora non riesce a ricordare l’indirizzo. Un reduce invalido con una gamba sola si prende cura della giovane donna disperata e la aiuta a setacciare la città. L’eterogenea coppia passa molto tempo a chiedere informazioni. Quando finalmente Inge viene accolta dai suoi genitori, nell’eccitazione del momento l’uomo che l’ha aiutata sparisce senza nemmeno un saluto. Di lui rimane solo un ricordo. Dopo diverse settimane di cure, bisogna tornare ad affrontare le necessità e i problemi della vita quotidiana del dopoguerra. Il padre legge un annuncio economico che cerca traduttori per i servizi di informazione degli Stati Uniti; i testi dell’Agenzia di stampa americana devono essere integrati nella stampa austriaca da poco organizzata. Anche se Inge non è realmente pronta per lavorare ed è intenzionata a proseguire gli studi nel campo della filosofia, e pur vedendo poche possibilità di ottenere il lavoro per la scarsa padronanza dell’inglese, nel 1945 presenta la sua candidatura a Salisburgo. Grazie alle sue straordinarie capacità linguistiche generali, riesce a ricavare un buon pezzo dal testo che le viene sottoposto e ottiene il posto. Nell’Austria del dopoguerra, lavorare per le forze di occupazione americane è una posizione privilegiata, che dà a Inge l’opportunità di familiarizzare con lo stile giornalistico di “Life”. Il suo interesse per il teatro e la conoscenza dell’arte si dimostrano molto utili, tanto che presto comincia a scrivere degli articoli invece di tradurre. Nel 1946, quando i servizi di informazione degli Stati Uniti trasferiscono la sezione servizi speciali da Salisburgo alla sede del “Kurier” a Vienna, si apre un campo enorme di nuove attività e Inge comincia a lavorare anche per altri mezzi di comunicazione; tra le altre cose, scrive testi letterari e radiodrammi per la neonata emittente “Rot-Weiss-Rot”.

A Vienna la vita quotidiana è ancora caratterizzata da strategie di sopravvivenza e spazi vitali ristretti. Inge Morath porta da Salisburgo un chilo di sale, un prodotto raro che spera di rivendere con profitto. Prima che si trasferisca in un appartamento in comune, la sezione servizi speciali la sistema con una collega nella casa di un ex pezzo grosso nazista. La padrona di casa, con la quale devono condividere la stanza da bagno, considera un’intrusione la presenza delle due inquiline, creando una cattiva atmosfera in casa. Pur essendo condizioni di vita più che modeste, in confronto al passato sembrano splendide.

La Vienna del dopoguerra è piena di animazione e voglia di ricominciare, le opportunità sembrano illimitate. Il lavoro per la stampa americana permette a Inge Morath di valutare criticamente le informazioni che arrivano nel paese, fino a quel momento isolato. Lei stessa entra a far parte della vita culturale e intellettuale della città. La casa editrice viennese Amadeus lancia “Der Optimist”, rivista critica ma dalla vita breve, per la quale lavora come redattrice all’inizio del 1948. Uno dei suoi colleghi è Hans Weigel. In questo ambiente culturalmente stimolante conosce altri scrittori, come Ingeborg Bachmann e Ilse Aichinger, intellettuali come il filosofo Arnold Keyserling, e i fondatori del Forum Alpbach, Otto e Fritz Molden. Di quel gruppo fanno parte pittori, come Wolfgang Hutter, Ernst Fuchs e Hilde Polsterer, oltre a personalità del teatro, tra cui il drammaturgo Alfred Ibach o Rudolf Steinböck, direttore del Theater in der Josefstadt.

Il prossimo passo importante nella vita di Inge Morath è di nuovo legato al suo datore di lavoro americano, la sezione servizi speciali, che, su richiesta di Monaco, la segnala come redattrice iconografica a Vienna per la rivista “Heute” anche se finora non ha avuto niente a che fare con la fotografia. Anche questa volta non si aspetta di ottenere il lavoro, ma va ugualmente a sostenere il colloquio con Warren Trabant, caporedattore di “Heute” a Vienna.

Gli dissi subito che non avevo la minima idea di fotografia, ma che sarei stata lieta di rispondere alle sue domande. Mi mise davanti sul tavolo un mucchio di fotografie, almeno un centinaio, e disse: “Le separi, da una parte quelle che le piacciono e dall’altra quelle che non le piacciono”. Be’, ho l’occhio pronto, e così le separai. Poi mi chiese di motivare due o tre delle mie scelte. Risposi che mi piaceva la composizione. Avevo veramente più familiarità con la pittura.

Così ebbi il posto e diventai la redattrice iconografica di “Heute” a Vienna. Avevo un piccolo ufficio dietro all’Hotel Sacher. Cominciai a lavorare, ma non sapevo come trovare i fotografi. Ce n’era già qualcuno, e loro sapevano che dovevano mandarmi delle fotografie, ma io non ero proprio entusiasta di quello che mi arrivava.

Così, dal marzo del 1948 Inge lavora per questa importante rivista pubblicata dal governo militare americano e con sede a Monaco. Nella sua ricerca di fotografie interessanti, attraverso l’attrice Erni Mangold incontra il fotografo Ernst Haas, amico di Erni. I modi anticonformisti di Haas, il suo entusiasmo per la fotografia e le sue immagini d’impegno sociale che ritraggono i poveri nella zona della cattedrale di Santo Stefano destano l’interesse di Inge. I due decidono di lavorare a progetti comuni. Inizialmente realizzano i classici pezzi da rivista, ad esempio uno sulla Stille-Nacht-Kapelle nei dintorni di Salisburgo. Nello stesso tempo Ernst Haas avvia una serie sui prigionieri di guerra che tornavano dalla Russia e sulle mogli in speranzosa attesa. Durante una visita agli uffici di “Heute” a Monaco, la serie viene mostrata al caporedattore. Questi ne riconosce subito la qualità straordinaria e, nell’agosto del 1949, la farà pubblicare su diverse pagine, con il titolo E le donne aspettano... La segnala anche a Robert Capa, direttore e organizzatore dell’agenzia fotografica Magnum da poco fondata a Parigi. Capa passa subito all’azione e invita la squadra immagini-testi a lavorare per l’agenzia a Parigi. Inge Morath e Ernst Haas non hanno neppure un attimo di esitazione: accettano immediatamente l’invito, e nel luglio del 1949 salgono sul treno per Parigi.

Pur essendo stata istituita formalmente a New York nella primavera del 1947, all’inizio la Magnum concentrò la sua attenzione su Parigi. La Magnum è una cooperativa di fotografi di vari paesi, che si propone di recuperare l’etica e lo spirito della fotografia dopo che gli abusi della propaganda hanno gravemente compromesso l’immagine della professione. Sin dai suoi esordi attribuisce un ruolo di primo piano a un giornalismo illuminato e alle finalità artistiche. L’organizzazione cooperativa lascia al singolo fotografo la responsabilità personale. L’idea è stata di Robert Capa, ungherese di nascita, che è riuscito a ottenere la collaborazione dei suoi amici di prima della guerra. All’inizio, questi erano Henri Cartier-Bresson, George Rodger, William Vandivert e David Seymour; la figura di Robert Capa assicurava forti legami personali e una visione comune a un gruppo di individualisti. Nel suo articolo Incontro con la Magnum, Inge Morath racconta il passo decisivo segnato dalla collaborazione con la Magnum come ricercatrice e scrittrice, e il modo in cui trovò la sua personale strada alla fotografia.

Prime esperienze con la fotografia (1949-1953)

A Parigi, la Magnum e il suo campo di attività – preparare l’incarico, accompagnare il fotografo e valutare il materiale che invia a Parigi – rappresentano un’ottima introduzione al lavoro quotidiano in un’agenzia fotografica. Inge Morath non si vede come fotografa, tutt’altro: la presenza soverchiante degli altri soci soffoca il solo pensiero. Dall’altra parte, acquisisce grandi competenze, come valutare i provini a contatto di Henri Cartier-Bresson. Cartier-Bresson, con il quale collabora in diverse occasioni, ha detto in un’intervista: “Un provino a contatto è molto interessante, perché fa vedere come pensa il fotografo. Si avvicina sempre di più al soggetto, lo corregge, lo guarda di nuovo e poi, con movimenti piccolissimi, gli gira intorno fino a trovarsi esattamente nella relazione giusta e appropriata con esso”1.

È curioso che Inge non cominci a sentire la mancanza della fotografia fino a quando non si trova più in mezzo a fotografi. Dopo le nozze con il giornalista inglese Lionel Birch, avvenute a Londra nel 1951, si confronta con la quotidianità del matrimonio, che la lascia quasi del tutto inattiva, in contrasto stridente con la vita che aveva condotto fino a quel momento. A Londra, lontana dalla Magnum, comincia a vedere le immagini e a sentire il bisogno di catturarle, mentre cerca di motivare i colleghi dell’agenzia a fare dei servizi in Gran Bretagna.

Poi feci un viaggio a Venezia con LioneI Birch. Come sempre mi limitavo a trascinarmi dietro la macchina fotografica che mia madre mi aveva regalato anni prima, e come sempre non la usavo mai. Era l’autunno del 1951. La luce era bellissima, la pioggia aveva ricoperto ogni cosa come con un vetro. Chiamai Capa e gli proposi di mandare qualcuno a fare delle fotografie. Capa mi fece energicamente notare quanto quell’idea fosse impraticabile e disse: “Perché non fai tu una fotografia?”. Così andai in un negozio, comprai una pellicola e mi feci caricare la macchina. Il commesso mi consigliò di non fare fotografie con quel tempo. Ma io la sapevo più lunga: si possono fare fotografie anche con il cattivo tempo – non per niente ero stata a guardarli tutti mentre lo facevano, al lavoro. Sulla confezione della pellicola era scritto qualcosa sul cielo nuvoloso: tempo di esposizione 1/50 con focale 4. Poi guardo l’ora, trovo il punto preciso per la prima fotografia e per aspettare che passino esattamente le persone giuste nel posto giusto. Avevo appena cominciato a premere il pulsante, che all’improvviso mi resi conto che per me quello era il modo perfetto di esprimere ciò che avevo dentro. Dovevo cominciare a fare fotografie.

Il ghiaccio era rotto. Tornata a Londra, cerca di dare una base solida alla sua abilità fotografica. Considerate le sue capacità del momento, una collaborazione con la Magnum sembra ancora fuori portata, così si guarda intorno in cerca di opportunità formative. A Londra Simon Guttmann, il fondatore della leggendaria agenzia Dephot nella Germania prebellica, dirige una piccola agenzia fotografica e lavora come consulente per la rivista “Picture Post”. Il marito la mette in contatto con Guttmann e, quando questi vede le fotografie di Venezia, le offre un posto di apprendista: scrive le sue lettere, impara a lavorare in camera oscura e realizza piccoli lavori fotografici. In quel periodo Inge compra una Leica di seconda mano, la classica macchina del reporter. Le condizioni di lavoro sono avventurose: il minuscolo appartamenti di Simon Guttmann funge anche da ufficio. La camera oscura mal riscaldata è usata in comune con altri fotografi, che ogni tanto le danno qualche dritta tecnica, mentre lei lavora per lo più per tentativi. Ma quelle condizioni, che altri troverebbero inaccettabili, le vanno benissimo. Apprezza Guttmann, battitore libero eccentrico ma geniale, e sa imparare da lui. Per Inge Morath, la sfida intellettuale è una motivazione più forte di un’introduzione tecnica al lavoro in camera oscura.

Un giorno dissi: “Simon, come potrò mai imparare qualcosa? Tutto quello che fai è dettarmi lettere.” E lui rispose: “Ascolta quello che si dice nelle lettere, parlano tutte di fotografia. Come vedere le fotografie, come accostarsi a un soggetto, come prepararsi a un soggetto”. Era vero. È facile imparare l’aspetto pratico, ma ciò che conta è capire come si costruisce una storia, come si selezionano le immagini, vedere come le cose sono in relazione tra loro nell’inquadratura.

Dopo più di un anno, Guttmann ritiene di averle insegnato abbastanza e glielo dice. Le affida un ultimo incarico, un servizio sulla visita di Edoardo VIII a Parigi, poi Inge è di nuovo sola.

Nel 1953 accompagna il marito a Parigi e cerca di tornare a stabilirvisi, questa volta come fotografa. Tornare subito alla sua vecchia agenzia le sembra prematuro: non vuole essere accettata come ex impiegata, preferisce convincere con il suo nuovo lavoro fotografico. Quando il marito torna a Londra, Inge si sistema in un piccolo albergo e inizia un fotoservizio sui preti operai, un movimento popolare di sacerdoti che lavorano in fabbrica, con il consenso del loro ordine, per poter essere più vicini ai fedeli. Trova una rivista cattolica interessata al reportage e disposta ad assicurarne la pubblicazione, ottiene l’autorizzazione dell’abate e per diversi mesi accompagna i preti al lavoro e nello svolgimento del loro ministero. Il fotoprogetto offre uno spaccato su molti aspetti interessanti della vita, ma pone anche problemi tecnici non previsti. Quando il reportage è pronto per essere pubblicato, Inge Morath ha praticamente esaurito le sue risorse economiche.

Collaborazione con la Magnum come fotografa (dal 1953)

Finalmente porta le fotografie del reportage alla Magnum e le mostra a Robert Capa; gli dice di esserne l’autrice solo dopo che questi ha espresso la sua approvazione. Capa la accetta nell’agenzia come socia potenziale.

I primi incarichi che riceve alla Magnum sono le fotografie dei giurati di una mostra di rose al Parc de Bagatelle e, dopo poco, lavori più impegnativi come le fotografie di scena del film di John Huston Moulin Rouge, a Londra, per conto di Capa. Naturalmente un set cinematografico è sempre disseminato di ostacoli, e Inge deve farsi bastare tre rulli di pellicola a colori, materiale che all’epoca scarseggia; ma quando “Life” pubblica una doppia pagina, Capa è molto soddisfatto. Per Inge Morath quell’incarico non è solo una pietra miliare della sua carriera ma anche l’inizio dell’amicizia di tutta la vita con John Huston, con il quale in futuro collaborerà più volte. Instaurare rapporti personali con i soggetti che ritrae è una delle sue qualità speciali.

L’incarico successivo arriva da “Holiday Magazine”: una serie sui quartieri londinesi di Soho e Mayfair. Nel corso di quel lavoro Inge scatta la fotografia di Eveleigh Nash mentre fa un giro in automobile sul Buckingham Palace Mall. Quell’immagine la rende subito famosa: una volta l’ha definita la sua “sigla musicale”.

Nell’arco di un anno la vita di Inge Morath è venuta a trovarsi completamente sotto il segno della fotografia. Ha trovato il suo mezzo di espressione artistica. La Magnum, ancora una piccola agenzia, un gruppo di fotografi entusiasti che uniscono una sfrenata joie de vivre al senso di responsabilità di una generazione che ha vissuto la follia di una guerra mondiale, le offre un ambiente ideale per la sua crescita come fotografa. Lo spirito pionieristico della prima ora tiene unito il gruppo e permette ai suoi membri di operare con successo nel potente mondo della stampa internazionale. Robert Capa, figura resa leggendaria dalla guerra civile spagnola e dallo sbarco delle truppe alleate in Normandia, ha un gran numero di contatti e raccoglie la maggior parte degli incarichi. Per Inge Morath, Capa è un punto di riferimento importante nella sua crescita artistica e personale.

Lavorare con lui è stato un grande privilegio; il suo spirito e i suoi meriti di fotografo esercitano tuttora una profonda influenza. Costruendo su quelle fondamenta, era facile proseguire per la propria strada, che prima o poi ognuno doveva affrontare da solo. La fotografia è fondamentalmente una questione personale, una ricerca di verità interiore.

Un’altra collaborazione di lunga durata e con grandi opportunità di crescita è quella con Henri Cartier-Bresson, che nel 1954 Inge accompagna nelle sue trasferte. Uno dei luoghi che visitano insieme è Amburgo. Inge fa per lo più le fotografie a colori, perché Cartier-Bresson vuole concentrarsi sul bianco e nero. Quei viaggi offrono ampie opportunità di confronto sull’arte, che è un profondo interesse per entrambi, e a Inge Morath danno l’occasione di osservare Cartier-Bresson all’opera. Cita spesso la personale filosofia di Cartier-Bresson, secondo la quale un fotografo guarda nel mirino con un occhio ben aperto per scattare le sue fotografie, mentre l’altro occhio è chiuso per guardare nella sua anima. Questa duplice visione, esterna e interiore, che per realizzare una fotografia perfetta deve essere perfettamente bilanciata, diventa l’idea alla base del lavoro di Inge Morath. Con Cartier-Bresson, che si è sempre considerato un artista dallo spirito surrealista, condivide anche l’interesse per le situazioni surrealiste. Come con altri soci della Magnum, il terreno comune tra lei e Cartier-Bresson non è un credo fotografico ma un orientamento artistico condiviso e un confronto continuo sulle condizioni sociali della fotografia giornalistica.

Nel 1954 Inge Morath ha già cominciato a viaggiare molto come fotogiornalista. Fotografa in Irlanda, in particolare alla Puck Fair di Killorglin; lavora a Parigi e in Italia e, finalmente, riceve da Robert Capa un incarico che la porta in Spagna. Dovrà incontrare l’avvocata Mercedes Formica, che, nello stato repressivo di Franco, si batte per i diritti delle donne, in particolare il diritto al divorzio. Di nuovo, come durante la realizzazione delle fotografie di scena per Moulin Rouge, nascono presto amicizia e sostegno reciproco. Mercedes Formica offre una prospettiva speciale sulla Spagna, e Inge Morath scopre il suo amore per il paese. Dopo aver portato a termine l’incarico, si ferma altre tre settimane per realizzare delle fotografie per conto suo.

Fare un lavoro per il proprio interesse, senza un incarico specifico o una garanzia di pubblicazione, è il tipico atteggiamento dei fotografi Magnum. Naturalmente Inge Morath pensa di pubblicare una serie in una rivista, prima o poi, e compone il reportage con quell’obiettivo in mente. Nello stesso tempo, questo modo di lavorare le dà la libertà di scegliere i suoi argomenti, di mantenersi aperta a nuovi sviluppi e possibilità e di “rimanere in fondo al cuore una dilettante”, come ha detto una volta. Le condizioni economiche e la struttura della Magnum permettono questo tipo di approccio: le basta far sapere a Robert Capa, a Parigi, che rimarrà tre settimane in Spagna per conto suo. A quei tempi il compenso per un solo reportage basta a vivere modestamente per due o tre mesi.

Nel frattempo il primo reportage sulla Spagna di Inge Morath viene pubblicato da “Holiday Magazine”. Contributi simili vengono pubblicati anche in altri periodici, e presto le valgono una certa reputazione. Attraverso la rivista culturale “L’Œil”, Inge riceve incarichi per ritratti di artisti. Robert Delpire, rinomato editore di libri fotografici, la nota. Insieme, iniziano a lavorare a un libro fotografico su Pamplona. Questo progetto, unitamente all’incarico di fotografare la sorella di Pablo Picasso a Barcellona, le offre l’opportunità di un nuovo viaggio in Spagna. Grazie all’abilità pratica e alla sensibilità di Inge, il ritratto della sorella di Picasso viene realizzato nella maniera più bizzarra e in condizioni avverse. Le fotografie vengono pubblicate su “Life” e altre riviste, e sono tra i suoi lavori più pubblicati fino a oggi.

Un libro su Pamplona intitolato Guerre à la tristesse, viene pubblicato nel 1955 in coproduzione con Robert Delpire. È un reportage di viaggio soggettivo, con evidenti tratti surrealisti che mostrano la sensibilità di Inge Morath e il suo amore per il popolo spagnolo. Nel 1956 il volume esce a Londra e New York con il titolo Fiesta in Pamplona; nel 1957 segue una versione giapponese.

A questo punto, oltre ai numerosi reportage esiste un’ampia produzione di Inge Morath che testimonia la sua scrittura e la sua personale concezione dell’immagine. Nel 1955 Inge ha visitato anche l’Austria, il Sudafrica e, insieme a Mary McCarthy, ha lavorato a un libro su Venezia (il volume, che contiene anche diverse fotografie a colori, verrà pubblicato nel 1956 con il titolo Venice Observed). Nello stesso anno diventa socia della Magnum a tutti gli effetti. L’assemblea generale annuale accetta un fotografo come socio a pieno titolo in base alla qualità del suo lavoro e per il suo carattere.

Benché la Magnum si sia sempre considerata come un punto d’incontro per fotografi indipendenti, non si può fare a meno di notare le profonde influenze reciproche e il senso di unità del gruppo, e il controllo che la cooperativa esercita su determinate posizioni artistiche e commerciali. Mi sembra opportuno dare uno sguardo a questo aspetto relativamente alla carriera fotografica di Inge Morath.

Malgrado la fama e le sue attività internazionali, la Magnum rimane un piccolo gruppo fortemente connotato dalla personalità di Robert Capa. Fino al 1955 sono stati accettati come soci solo Werner Bischof, Ernst Haas, Dennis Stock, Eve Arnold, Erich Hartmann, Elliott Erwitt e Cornell Capa. Anche se il gruppo rimane profondamente scosso dalla morte di Robert Capa, ucciso da una mina in Indocina nel 1954, e di Werner Bischof, perito in un incidente d’auto sulle Ande, la filosofia di fondo dell’agenzia come cooperativa gestita dai fotografi stessi, con tutti i suoi punti di forza e di debolezza, rimane immutata – e così il duplice orientamento dei fotografi verso la fotografia giornalistica e d’arte.

La Magnum è caratterizzata da questa presenza simultanea sul libero mercato dei servizi giornalistici e nei musei d’arte. Alla metà degli anni cinquanta, il pubblico apprezzamento del tipo di fotografia giornalistica rappresentato dalla Magnum giunge al culmine dal punto di vista sia artistico, sia commerciale. Ci sono ancora tutte le grandi riviste come acquirenti e distributori ideali e, dopo il trauma della seconda guerra mondiale, c’è un clima generale illuminato, un desiderio di creare un mondo migliore (anche se la guerra fredda incipiente comincia a incrinare queste illusioni). Nel 1955 si inaugura The Family of Man, una mostra curata da Edward Steichen al Museum of Modem Art di New York, che successivamente viene presentata in molti paesi del mondo. The Family of Man è ricordata spesso come la mostra fotografica con il numero di visitatori più alto di tutti i tempi, e certamente esercita un’enorme influenza e ispira a lungo un’intera generazione di fotografi in tutto il mondo. La mostra è formata principalmente da fotografie giornalistiche e documentari sociali. Contenuto artistico delle fotografie a parte, l’umanità vi è presentata inequivocabilmente come una famiglia. Oltre alle fotografie degli archivi di “Life”, la maggior parte delle opere esposte è costituita da immagini dei fotografi Magnum, i quali si trovano ora nella condizione di imporre degli standard che finora sembravano quasi impossibili nella fotografia giornalistica, considerata di second’ordine rispetto al giornalismo scritto. Henri Carrier-Bresson, ad esempio, esige che le fotografie siano pubblicate non rifilate e tenendo conto del loro contesto visivo.

Fino alla fine degli anni cinquanta la vita di Inge Morath è riempita da lunghi e frequenti viaggi, che lei vede come una preparazione ai grandi reportage. Al centro del suo lavoro stavano i ritratti e la descrizione delle grandi culture mondiali; vi sono stati volumi dedicati a diversi paesi, mentre i contributi a riviste su temi di attualità sono stati sporadici. Ha in mente di ritrarre le grandi culture madri della terra e le principali vie commerciali che le collegano tra loro. I suoi progetti per il futuro prevedono l’India, la Cina, gli influssi spagnoli in America Latina, la famosa via della Seta e il corso del Danubio, ma ottenere commissioni di questo genere dalle riviste sta diventando sempre più difficile, e così le sue idee si potranno realizzare solo a piccoli passi.

Nel 1956 Inge riesce a convincere “Holiday Magazine” a finanziare un viaggio in Iran, un ambito culturale che rappresenta un elemento importante del suo progetto sulla via della Seta. Riesce persino a destare l’interesse di Robert Delpire, che la accompagna per una parte del viaggio. Per il resto – la maggior parte – viaggia da sola, ogni tanto con un autista, passando le notti in antiche rovine perché non ci sono alberghi. Come sempre è ben preparata, si impegna ad adattarsi ai costumi e al modo di vestire del paese e a imparare le lingue locali, che considera un importante approccio alla rispettiva cultura. Il cammino la porta dall’Iran all’Iraq, fino alla Sira e alla Giordania. Ancora una volta il budget impone uno stile di vita spartano per tutta la durata del lungo viaggio.

Nel 1957 e nel 1958 Inge fotografa lungo il Danubio. Nel corso di questo lavoro torna a visitare la Romania, dove ha studiato la lingua durante la guerra. Poiché in tempi di guerra fredda qualsiasi riferimento alla Magnum, un’agenzia rinomata per la sua informazione critica, porterebbe più danni che vantaggi, deve lavorare per conto suo senza nessun tipo di copertura. “Paris Match” pubblica un servizio di diverse pagine sulla regione danubiana; tuttavia, poiché non è stato possibile visitare tutti i paesi bagnati dal fiume, non viene realizzato nessun volume. Comincia a fotografare il Messico nel contesto della sfera d’influenza spagnola in un primo viaggio nel 1959 e poi, più intensamente, nel 1960. Negli stessi anni riceve degli incarichi in Tunisia, dove continua a lavorare a un libro per Robert Delpire. Si alternano viaggi in Austria, Italia, Cecoslovacchia, Germania e Stati Uniti. In quel periodo vengono pubblicati diversi volumi, frutto del suo lavoro di ricerca: Venice Observed, De la Perse à l’Iran e Tunisie.

Tra tutti questi progetti si colloca un incarico di tutt’altro genere: nel 1959 Inge accompagna Yul Brynner in Germania, Austria e Gaza, in un viaggio che si propone di attirare l’attenzione sulla condizione dei profughi, specialmente i bambini, che dopo la guerra non hanno ancora trovato una casa. Sono affiancati da una troupe televisiva della CBS. Un reportage su questo viaggio viene pubblicato in un volume intitolato Bring Forth the Children: A Journey to the Forgotten People of Europe and the Middle East (McGraw-Hill, New York, 1960).

Dall’Europa agli Stati Uniti (dal 1960)

Dopo la visita del 1956, New York diventa un frequente punto di partenza per il lavoro di Inge Morath, uno sviluppo parallelo ai cambiamenti in atto nella Magnum. L’atmosfera aperta, multiculturale e intellettualmente stimolante di Parigi si sta dissolvendo, mentre migliori condizioni commerciali per la fotografia negli Stati Uniti e il numero crescente di americani tra i fotografi soci della Magnum danno sempre più importanza alla sede di New York. Negli anni sessanta alcune delle grandi riviste cominciano a trovarsi in difficoltà economiche, e l’agenzia cerca nuovi clienti nel mondo dell’industria. Le grandi aziende, ad esempio, hanno bisogno di servizi per le loro relazioni annuali. Nello stesso tempo aumenta la competizione televisiva, e per i fotografi è sempre più difficile far arrivare in tempo utile alla stampa il loro materiale d’attualità. Nel 1966 l’ultimo socio fondatore della Magnum, Henri Cartier-Bresson, conclude la sua partecipazione attiva, lasciando all’agenzia i suoi archivi, a testimonianza dei cambiamenti che questa e i suoi soci hanno subito nel corso del decennio.

Verso la fine degli anni cinquanta, Inge Morath lavora spesso per produzioni cinematografiche statunitensi, un’occasione di sopravvivenza economica per lei e altri collaboratori della Magnum. Nel 1960-1961 lavora per un’agenzia pubblicitaria di New York, che per una delle sue campagne vuole l’inconfondibile stile “Life”.

Probabilmente cominciai quella serie per la Bankers Trust già nel 1959. Fino a quel momento tutte le fotografie pubblicitarie erano assolutamente artificiali. Poi, d’un tratto, l’agenzia pubblicitaria, e probabilmente anche altri, ebbe l’idea che voleva le sue réclame nello stile della fotografia documentaria. Si rivolsero alla Magnum e, naturalmente, a Henri Cartier-Bresson. Quando lui rifiutò, chiesero a me. Io accettai il lavoro perché avevo appena comprato il mio appartamento a Parigi e mi servivano moltissimi soldi. L’incarico era pagato molto bene e il lavoro era interessante: una campagna completa su New York per la Bankers Trust. Alla fine fecero anche un piccolo volume. Non era un reportage e non usai dei modelli, che sarebbero apparsi troppo forzati, ma chiesi ai miei amici. Discutevo le situazioni con il direttore artistico, poi le fotografavo. La cosa meravigliosa di questo modo di procedere era che finivo sempre in tempi molto brevi, e ne andavo fiera. Preparavo le scene, e dopo le riprese vere e proprie mi prendevano cinque minuti. Il direttore artistico era molto seccato, diceva: “È troppo poco, ti paghiamo troppo!”.  Io rispondevo che ci avevo pensato per una settimana intera. La campagna fu un grande successo. Dopo un anno cominciai a pensare per immagini costruite e, a quel punto, decisi di smettere con quel genere di lavoro. Avevo guadagnato il denaro per l’appartamento.

È tipico dello stile di Inge Morath non perdere di vista i suoi obiettivi artistici. Da tempo è rinomata per i suoi ritratti, così si arrischia a chiedere una seduta di posa a Saul Steinberg. Lui accetta, ma la riceve con una maschera di carta. Inge Morath non si scompone e comincia a fotografarlo con la maschera. È l’inizio di una nuova collaborazione, in cui Saul Steinberg disegna le sue maschere e Inge Morath sceglie i “corpi” e i costumi corrispondenti. Il risultato è una serie completa, pubblicata accanto a disegni di Saul Steinberg nel libro Le masque, nel 1961.

Nel 1960, durante le riprese del film Gli spostati, Inge Morath incontra per la prima volta il drammaturgo Arthur Miller. Lo incontra di nuovo nella sede newyorchese della Magnum, quando Miller ha bisogno di fotografie di se stesso e del suo lavoro, e a lei viene richiesta la fotografia di scena per una delle sue produzioni teatrali. 

C’è un lento avvicinamento reciproco, interrotto dai frequenti viaggi di Inge, ma che porta una maggiore intimità. Si sposano nella primavera del 1962; nello stesso anno nasce la figlia Rebecca e, nel 1967, il figlio Daniel. All’inizio la famiglia vive a New York nel leggendario Chelsea Hotel, poi in una fattoria a Roxbury (Connecticut), a un paio d’ore di macchina da New York.

Anche se le condizioni esterne del suo lavoro sono cambiate, lo stile dell’espressione artistica di Inge Morath e il suo entusiasmo per la fotografia rimangono immutati. Impossibilitata a viaggiare finché la figlia è piccola, comincia a esplorare i dintorni più vicini. La vita in una piccola città della costa orientale americana offre al fotografo spunti sulla struttura sociale della comunità locale. Storie e informazioni indispensabili ad acquisire la necessaria familiarità con i suoi soggetti le vengono fornite dal marito, che vive nella zona da molto tempo, ma bisognerà aspettare il 1977 perché i due pubblichino un libro insieme. Il titolo: In the Country.

Per tutto quel tempo Inge non ha perso di vista la sua idea di viaggiare nelle regioni delle grandi culture mondiali. Una delle mete successive è la Russia e, come sempre, si prepara scrupolosamente; studia la lingua al Berlitz e la migliora con l’aiuto di Olga Andreyeva Carlisle, una vicina di origine russa. Visita il paese per la prima volta con il marito nel 1965. Negli anni a venire seguono altri viaggi, grazie ai quali vengono coltivati stretti contatti con intellettuali russi, specialmente scrittori. La prospettiva del suo lavoro passa da una osservazione distaccata al coinvolgimento personale per la condizione degli artisti sotto un regime dittatoriale. Le fotografie rispecchiano l’attrazione di Inge Morath per l’eredità culturale del paese e il suo interesse per quella cultura oppressa. Entrambi questi elementi si ritrovano nel volume In Russia, pubblicato nel 1967.

Una volta instaurate, queste relazioni personali e l’interesse per il paese diventano permanenti. Più volte la famiglia ospita gli amici russi nella sua casa e sostiene la traduzione e la pubblicazione di testi. 

Altri viaggi in Russia si svolgono nel 1985 e nel 1990. Nel 1991 esce un nuovo libro, intitolato Russian Journal. In un’ampia panoramica, frutto del suo decennale interesse per quella cultura, Inge presenta un diario visivo che sintetizza anche i profondi cambiamenti subiti dal paese.

Un altro degli ambiziosi progetti di Inge Morath è un viaggio in Cina. Nel 1972 ha iniziato a studiare il mandarino e a familiarizzare con la cultura cinese, ma l’occasione di visitare il paese non si presenterà prima del 1978. Seguiranno altri viaggi, e nel 1979 pubblica, insieme al marito, il volume Chinese Encounters.

I libri realizzati nei decenni più recenti sono spesso il frutto di viaggi compiuti con il marito. In genere non sono progettati in anticipo come pubblicazioni, e sono esempi di una feconda collaborazione tra un poeta e una fotografa – una collaborazione che non si presenta con una netta divisione tra immagine e testo, ma che dà vita a un intreccio tra i due mezzi espressivi. Di solito Inge Morath parla la lingua del posto e fa da interprete per Arthur Miller, mentre dal lavoro letterario e dai numerosissimi contatti di quest’ultimo scaturiscono gli incontri con l’élite artistica. Attraverso questi contatti, Inge acquisisce una più profonda comprensione della cultura sulla quale si basa il suo lavoro fotografico di quel momento. La collaborazione si sviluppa senza pressioni esterne ed è motivata esclusivamente dal comune interesse per le persone e la loro sfera culturale: una situazione congeniale allo stile di lavoro di Inge Morath, che in genere si sente inibita dagli incarichi formali.

Devo prima vedere e trovare quello che posso fare. Quando facevo un viaggio, naturalmente sapevo che cos’è un reportage e lo tenevo sempre presente. In altre parole, non ho mai viaggiato in un paese per tornare riportando solo primi piani di strutture murarie. Però avevo bisogno della mia libertà. Una o due volte è capitato, semplicemente, di non fare il reportage. Sono andata, e ho detto “Non lo vedo”. Quello che mi riusciva particolarmente difficile era quando i clienti dicevano di volere solo il colore quando non c’era nessun vero colore. Non mi piace che la gente mi dica che devo fare un ritratto a colori, quando io non vedo nessun colore.

Gli anni settanta e ottanta non portano solo evidenti cambiamenti nel panorama della stampa – la concentrazione delle case editrici porta con sé una riduzione delle opportunità di pubblicare e la competizione televisiva si inasprisce, ma anche la ricezione artistica della fotografia sta cambiando. I lavori di molti fotografi Magnum sono esposti in musei e gallerie, mentre si diffondono la vendita di opere individuali sul mercato dell’arte e il sostegno a progetti fotografici attraverso borse di studio o sovvenzioni artistiche.

Parallelamente a questi sviluppi internazionali, dal 1981 opera a Salisburgo la galleria Fotohof, che si propone di far conoscere la fotografia d’arte austriaca. In un incontro casuale dei soci fondatori Brigitte Blüml e Kurt Kaindl con Inge Morath a un convegno sulla fotografia, emerge che questa svolta verso la fotografia d’arte è un obiettivo comune, e ci si accorda su un primo progetto fotografico in collaborazione con la galleria. Nel 1991 esce il libro illustrato che ne è scaturito, Salzburg − An Artists View, dove, accanto ad altri tre fotografi attivi a livello internazionale, Inge Morath è rappresentata con una nuova opera fotografica.

Ben presto la considerazione artistica dell’opera fotografica realizzata fin qui porta altri frutti: sempre nel 1991, Inge Morath riceve il Gran Premio Nazionale Austriaco per la Fotografia, che viene assegnato per la prima volta. Un anno dopo la galleria Fotohof pubblica la sua monografia corredata da testi approfonditi. Parallelamente si allestiscono mostre delle sue opere, che ora vengono presentate anche al pubblico internazionale.

Con la nuova prospettiva della fotografia artistica, il lavoro fotografico di Inge Morath si fa di nuovo più intenso, in gran parte liberato dal lavoro giornalistico quotidiano e orientato a volumi illustrati e mostre. Nel 1993 e nel 1994, insieme ai suoi curatori di Salisburgo, Inge Morath compie diversi viaggi lungo il Danubio, portando così a termine un progetto che aveva iniziato negli anni cinquanta. In collaborazione con la galleria Fotohof escono quindi in rapida successione altri volumi illustrati che raccolgono alcuni dei suoi grandi reportage, presentandoli sotto la nuova luce della fotografia d’arte.

Nel 2001 Inge Morath accoglie l’invito della regista austriaca Regina Strassegger a realizzare un lavoro fotografico nella regione di confine tra l’Austria e la Slovenia, da dove provengono i suoi antenati, che ripercorra le tracce della sua famiglia e gli sviluppi politici successivi alla seconda guerra mondiale. È affiancata da una troupe cinematografica, che, con l’occasione, produrrà un lungometraggio su di lei. Le riprese iniziano nel 1999 e dovrebbero concludersi nel 2002. Nell’autunno del 2001, durante uno di questi viaggi fotografici, Inge Morath accusa forti dolori, che al ritorno a New York vengono diagnosticati come sintomi di una aggressiva patologia tumorale. 

Il 30 gennaio 2002 Inge Morath muore in un ospedale di New York.

1 Byron Dobell, A Conversation with  Henri Cartier-Bresson, in “Popular Photography“, settembre, September 1957.


Museo di Palazzo Grimani
Ramo Grimani,
Castello 4858
30122 Venezia
Tel. 041.241.1507

Orari: 
martedì-domenica dalle 10.00 alle 19.00; ultimo ingresso ore 18.30.
lunedì chiuso

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Studio ESSECI di Sergio Campagnolo
Tel. 049663499
www.studioesseci.net
Referente Simone Raddi: simone@studioesseci.net

Direzione regionale Musei Veneto
Tel. 0412967611
Ufficio Comunicazione 
Referente Vincenza Lasala: vincenza.lasala@cultura.gov.it

Museo di Palazzo Grimani
Tel. 0412411507
Referente Eleonora Mazzeo: eleonora.mazzeo@cultura.gov.it

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