12 – La carta di Matthaeus Merian

Dove si ricostruiscono le caratteristiche di Messina attraverso la cartografia dell’epoca e i resoconti d’archivio. Nella prima metà del Cinquecento la città in fermento tende a mutare il proprio aspetto e si stratifica. Da una parte si genera il disfacimento progressivo delle vecchie case medievali cadenti; dall’altra le nuove costruzioni tacitamente le sostituiscono.

Sono compresenti due modi di vivere. L’uno si osserva all’interno delle mura: è la città della fiera e dei mercati, la città dei traffici commerciali, con il porto ingombro di vele, la città residenza del Vescovo. L’altro modo di vivere si conduce nei villaggi e nelle campagne: casette rustiche senza tempo, con tetti d’erbe secche e ramaglie, abitate da fittavoli e braccianti che con gran fervore mettono a coltura il contado.

«Quando taluno mi domanda perché io non abbia scritto una storia economica della Sicilia, faccio un esame di coscienza e rispondo: perché ancora non la conosco… e non vedo intorno a me altri che l’abbiano indagata e la conoscano».
Smise di leggere. Tolse le lenti e si adagiò sullo schienale della bergère. Pensò che solo uno studioso vero può ammettere di non sapere. In una delle sere in cui era assalito dalla malinconia, si sentiva confortato dalla rilettura di autori a lui familiari. Il professore trascorreva molto tempo in biblioteche e archivi, maneggiava libri e documenti; ma oramai sapeva bene che sovente le prove scritte sono pressoché inesistenti. Al contrario, quando sono disponibili sono enormemente frammentarie. In entrambi i casi, bisogna intravedere, ipotizzare, attivare collegamenti intuitivi fra testimonianze eterogenee. Sorrideva al pensare che i suoi allievi, all’Università, lo ritenessero pervaso di certezze. Al contrario, lui aveva la coscienza matura del suo limitato sapere e dell’ansia che lo prendeva quando avvertiva di annaspare infruttuosamente su di un concetto, su di un fatto. Meticoloso e incontentabile riscontrava le lacune di certe sue asserzioni, non documentabili, perché di molti avvenimenti del passato non si conoscono resoconti dettagliati, si ignora come furono al tempo vissuti o giudicati, giacché è cambiata la concezione della vita e su talune faccende nessuno ha mai scritto una parola.
Conosceva bene come Messina, ormai perduta sotto la violenza dei terremoti, compariva nelle stampe ricche di monumenti, nella gran parte dei libri che ne descrivevano avvenimenti straordinari. Stasera, tuttavia – mirando lo Stretto – si ostinava nel voler tracciare una rappresentazione coerente della città vissuta nella propria realtà quotidiana al tempo di Pellegrina.
Dietro i vetri della finestra del suo studio, la città illuminata si distingueva dai contorni scuri del versante calabro, rischiarato a tratti da grappoli di luce, con il mare segnato dalla scia spumosa dei traghetti che fanno la spola da una costa all’altra. Rifletteva in tranquillità, avvolto in un plaid, ritirato in quella sua casa grande, che in certe sere gli sembrava ancora più grande per una persona sola. Una domus magna.
«Pantaleone Giurba», leggeva, «speziale benestante, abitava una domus magna…».
S’interrogava su cosa significasse esattamente una domus magna per un messinese del Cinquecento. Nel testamento di Giurba era segnata una bottega, una stalla, un giardino. La casa di Salvo Carboni, calderaio in contrada dei Bottai – la stessa strada in cui aveva bottega Nardo Vitello – era composta da domo, sala, aula, apoteca, magazzino, scala esterna e altre dipendenze. Quella dei Rizzo, invece, assomigliava quasi alla casa di Pellegrina, descritta nella relazione della sua allieva: un pozzo e una bottega, un deposito, una entrata davanti e una sulla parte posteriore, una stanza sul retro, una camera sopraelevata al primo piano.

Com’era dunque la città di Pellegrina? Sapeva che aveva pressappoco la medesima estensione dell’epoca aragonese, da Porta Reale, eretta in onore di Federico II d’Aragona, a Porta imperiale, così nominata per ricordare l’ingresso dell’imperatore Carlo V nel 1535. Una popolazione che non superava 36mila abitanti. I risultati del censimento del 1548 precisavano che villaggi compresi, come Faro o Mortelle, si potevano contare 8.000 famiglie.
La carta di Matthaeus Merian il Vecchio risale al 1565 e ritrae Messina in una veduta d’insieme a volo d’uccello, come qualcuno avrebbe potuto osservarla se avesse potuto aleggiare, venendo dal mare. Il professore ne scrutava, sotto la lente d’ingrandimento, una delle tante riproduzioni antiquarie, che conservava in un ampio cassetto per stampe. Si presentava una città distesa tra il litorale e le colline dei Peloritani, concentrata a mezza luna intorno alla falce del porto. Una città segnata dai grandi palazzi signorili e dagli edifici religiosi, che si ergevano imponenti. La trama delle vie ora contorte, ora fin troppo regolari, risaltava in contrasto col tessuto fitto delle case del popolo. Nella carta si distingueva il piano di Terranova, a ovest il quartiere Portalegni, e a nord l’ampio piano di San Giovanni dove viveva Pellegrina quando fu arrestata. Sulla sommità delle colline spiccavano i fortilizi: Castellazzo, forte Basicò, castello di Matagrifoni e castello Gonzaga. Nella parte più interna e protetta del porto si vedeva l’ampio complesso del Palazzo Reale.

Soprattutto, ciò che si poteva distinguere anche a occhio nudo, era il tortuoso perimetro delle mura. Nei primi anni del Cinquecento la città medievale e l’antica cinta fortificata si andavano disfacendo per le intemperie e l’incuria. Le cronache dell’epoca, che il professore leggeva e rileggeva, davano notizia dello stato di degrado. Nel 1517 le porte d’ingresso a Messina erano incastrate, arrugginite, non si chiudevano, né si aprivano. Nel monastero di Santa Chiara, addossato alle mura della città, crollò il tetto del dormitorio, uccidendo e ferendo varie monache. Il monastero femminile di San Salvatore dei Greci, poco distante, era anch’esso fatiscente per vetustà.
Nel 1537 le ripetute incursioni dei pirati turchi persuasero il viceré a programmare la reintegrazione della cerchia muraria, che fu ripristinata con grossi blocchi di pietra da taglio. La ricostruzione delle opere difensive fu affidata ad Antonio Ferramolino da Bergamo, ingegnere della corte, e a Domenico Giuntalocchi da Prato, ingegnere della città, che si avvalsero dei suggerimenti dell’abate Maurolico.
Militarmente la città fu rafforzata da torrioni e forti, alcuni potenziati e ristrutturati come San Giovanni Bocca d’oro e San Giorgio, in vista dello Stretto, lungo l’attuale Via Don Blasco. Lo Spirito Santo e l’Alterone – l’odierno Tirone – chiudevano la città ad ovest.
Altri forti vennero del tutto edificati in questi anni: San Giacomo, San Vincenzo e San Francesco, ubicati lungo la Via Fossata; Bocca d’oro e S. Clara a sud.
Sfruttando i torrenti, che dalle colline scendono a mare, si realizzarono ampi fossati, che seguivano esternamente il perimetro delle opere difensive, nei tre lati della città non prospicienti il litorale. Lungo tutto il fronte marittimo, invece, le porte rimesse a nuovo e consolidate, ingentilivano e articolavano la cinta murata.
Sul braccio di San Raineri spiccava la Lanterna e all’imbocco del porto, nella punta estrema della penisola, s’imponeva un’altra costruzione di fondamentale importanza strategica, il castello di San Salvatore, alla cui estremità c’era la torre mozza di S. Anna, già esistente al tempo dell’assedio di Carlo d’Angiò.

Una città sufficientemente fortificata, tanto da dissuadere assalti e saccheggi provenienti dallo Stretto, i quali, da allora in poi, riguardarono quasi esclusivamente Reggio e le città vicine. La vigilanza, nonostante ciò, rimase costante, sia per il centro che per i suoi lucrosi traffici.
Negli Annali di Gallo si può ripetutamente leggere eventi come questo del 1552: L’armata turchesca a 4 luglio entrata nel canale di Messina, numerosa di centoquindici vele, di nuovo assaltò ed arse Reggio e le vicine campagne; indi a 7 del medesimo mese, passato lo stretto del Faro, partì. Nell’incursione dell’anno precedente l’armata ottomana si era presentata con 150 galee e 30 navi. Ciò nondimeno il 15 agosto del 1552 si ripeté una nuova aggressione, di ritorno dall’aver danneggiato i litorali di Napoli, Procida, Mola, Traetto, Scalea e Policastro.
Nella mente dei messinesi era vivo il ricordo di quando nel maggio del 1520 i turchi approdarono alla spiaggia della Mosella e chiesero un riscatto di tremila scudi e una gran quantità di seta grezza. In quell’occasione, a Reggio, depredarono e portarono via donne e ragazzi come schiavi in Oriente.
I pirati non si limitavano a percorrere in lungo e in largo le coste; s’inoltravano anche all’interno, fin sulle colline, come accadde il primo maggio del 1527, quando furono respinti dagli abitanti di Gesso.
Le mura fortificate evitavano, dunque, i pericoli ancora frequenti una trentina d’anni prima. Oltre la cinta difensiva, tra il piano e le alture, si estendeva la campagna coltivata e i casali rurali si accentravano lungo le fiumare: pochi casolari riuniti intorno a una chiesa con qualche beneficio annesso e un mulino. Erano abitati da allevatori e fittavoli che coltivavano prevalentemente gelseti, vigneti, oliveti. Compravano ai mercati, ma soprattutto vendevano quanto producevano per il consumo della città: frutta e ortaggi, formaggio, olio, vino. In taluni di questi casali si esercitava qualche piccola occupazione artigianale, che non trovava posto entro le mura: a San Filippo si producevano le tegole a coppo; a S. Maria de Scalis, la calce. Alcuni di questi casali sopravvivono tuttora; altri sono completamente scomparsi. Nei primi anni del Cinquecento qualche agglomerato rurale era in via di sviluppo, come quello di Camaro citato in una enfiteusi.

I documenti raccolti dal professore restituivano un’immagine chiara della città in trasformazione, nella quale si poteva constatare la compresenza di due modi di vivere differenti. L’uno valeva all’interno o in prossimità delle mura, con la fiera e i mercati, il porto ingombro di vele, la residenza del vescovo e dei rappresentanti la corona di Spagna. L’altro perdurava nelle contrade e nelle campagne, segnate da case terrane, costituite dal solo piano terreno, coperte da tetti di ramaglie ed erbe secche, con strutture in conglomerato di pietre o ciottoli di torrente, uniti da calcina che sfarinava al primo caldo.
La città in fermento tendeva a mutare la sua fisionomia e si stratificava. Da una parte si produceva il disfacimento progressivo delle vecchie case medievali cadenti e delle preesistenze simboliche del passato; dall’altra le recenti costruzioni tacitamente le sostituivano.
Dalle sporadiche notizie che riguardavano l’attività edilizia ordinaria, che con difficoltà aveva messo insieme, il professore poteva documentare il diffondersi della domus solerata, un’abitazione col solaio di legno, ripartita in due piani, a volte anche tre. Al livello della strada si svolgeva la vita e il lavoro: un magazzeno, una putia, un catojo, costituiti da unica grande camera al piano terreno. Quando non erano presenti finestre, aria e luce penetravano dalla sola porta d’accesso lasciata aperta qualora il clima lo permettesse. Tutt’al più si faceva uso di un sopraluce o un’apertura ritagliata nell’anta. Attraverso una scaletta buia e stretta si raggiungeva il piano superiore, dove si dormiva ammucchiati su pagliericci d’erba secca, che ogni notte si conzavano sul letto di tavole. Nessuna latrina, solo un cantaro di terraglia. La vita vera e propria si svolgeva all’aperto, dove normalmente si cucinava con la tannura, un fornello mobile che il professore stesso ricordava ancora in uso quand’era ragazzo. Quello che oggi s’è perso è il profumo del mangiare nell’aria.
Considerando questo fermento edilizio – ragionava mentre solitamente passeggiava da un lato all’altro della stanza, mordendo il cannello della pipa – vien da pensare alla calce, ai mattoni, alle pietre. È vero, c’era chi comprava 12 carri di conci squadrati oppure 3 salme di gesso da costruzioni, ma c’era chi continuava a farsi tirare su per intero una casa di legno. Il magnifico Bernardino de Bonfiglio nel 1523 stipulò un contratto per una costruzione con travi di castagno e tavole provenienti da S. Cristina d’Aspromonte in Calabria; l’opera doveva essere eseguita da un faber e da un muratore.
I riscontri forniti dai rogiti notarili – un contratto di matrimonio per la definizione di una dote o un testamento aperto post mortem e per la verità ne aveva visti ancora di sigillati – permettevano al professore di annotare un elenco di strade lungo le quali si affacciavano i palazzi dei patrizi, le case del popolo, le botteghe degli artigiani, che davano nome alle vie come quelle dei calderai, dei bottai, dei cordari.
Antonino de Lignamine, vescovo di Messina, donò casa e dipendenze al Capitolo della Cattedrale, perché ne impiegasse il ricavato per sostenere parte delle spese e allargare la piazza antistante la Basilica. Anche il magnifico Filippo de Alifia aveva venduto due casamenti per isdirrupparisi et fari una bella plaza, realizzata grazie allo spostamento del torrente Portalegni che scendeva adiacente al Duomo. Per abbellire la piazza, il senato cittadino decise di affidare a fra’ Giovanni Angelo Montorsoli, l’incarico di scolpire una fonte marmorea di considerevole importanza, visto che fino a quel momento le acque sgorgavano in una piccola fontana provvisoria. L’occasione fu il completamento nel 1547 del primo acquedotto messinese, i cui lavori duravano da diciassette anni. Per ampliare lo spazio ove collocare l’opera, anche in questo caso, si abbatté fra gli altri fabbricati la chiesa di San Lorenzo, che lo stesso Montorsoli riedificò con spesa pubblica un poco più distante.

La città, dunque, si trasformava gradualmente, prendendo sempre più l’aspetto di un centro mercantile. Si aprivano piazze, si saturavano spazi interclusi fra le case medievali, si demolivano vecchie costruzioni e se ne riedificavano di nuove. Si erigevano chiese e conventi, palazzi per la residenza privata o a uso della gestione civica, le cui forme architettoniche ricalcavano i dettami dell’arte del rinascimento toscano e romano. Accanto alla chiesa di San Francesco nel 1531 si edificò il chiostro. Abbattuto l’antichissimo convento di San Gregorio, per fare posto alle mura di cinta, le monache benedettine nel 1542 si trasferirono nel nuovo convento dell’Angelo, realizzato sul colle della Caperrina. Nello stesso anno s’iniziarono i lavori dello spedale grande. Il 1548 segnò la nascita dell’Università di Messina, con sede nel collegio dei Gesuiti lungo la Via Mastra, l’attuale via XXIV Maggio.
«Che insolita città questa Messina del Cinquecento», considerò ad alta voce il professore; ma si astenne da confronti illogici con l’odierna, perché le aveva sempre considerate città diverse e non solo per via dei terremoti.
Quella di Pellegrina era una città in rapida espansione, soggetta a una forte immigrazione, un porto fra i più considerevoli del Mediterraneo, un gran mercato di redistribuzione delle importazioni provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia, dalle Fiandre, da Napoli. Proprio per fare fronte a questo sviluppo commerciale già dal 1507 i cittadini avevano richiesto a Ferdinando il Cattolico la costruzione di una sala dove poter svolgere le riunioni dei mercanti.
Nel 1540 raccolti i fondi necessari con una tassazione imposta sulle merci, Ferramolino, l’ingegnere delle mura, iniziò l’esecuzione della Dogana nuova. Il progetto prevedeva un edificio a due livelli di ragguardevole altezza. Il piano terreno era destinato a Pubblico Banco, alla Tavola Pecuniaria, e naturalmente all’agognata Loggia dei Mercanti. Il piano superiore avrebbe ospitato i locali per il Tesoro e per alloggi di guardiani e altri addetti all’amministrazione.
A beneficio dei naviganti e dei traffici commerciali, nel 1555 – l’anno del processo a Pellegrina – fu edificata, per opera di Montorsoli, la torre della Lanterna nella penisola di San Raineri, in luogo di un antico torrione semidistrutto. Una donna greca – tanto grande era la dedizione del popolo – donò alla città un uliveto nel torrente di Bordonaro, perché con l’olio prodotto si mantenesse acceso il faro.

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About the author: Sergio Bertolami