Dove finalmente l’inchiesta indiziaria condotta da allieva e professore prende il suo avvio. La studentessa, attraverso un’attenta analisi terminologica dei verbali asserisce di aver scoperto il movente che ha portato alla denuncia di Pellegrina. Soprattutto ritiene di avere individuato chi si nasconde dietro quella Catharina la greca, sua complice, che il Tribunale, stranamente, non si è mai premurato di cercare e convocare.
Aveva avvertito la vibrazione del suo smartphone. Il messaggio diceva:
«Ho afferrato il bandolo della matassa, quando possiamo incontrarci?».
Era in procinto di recarsi a una cena fra amici, ma benché rischiasse di arrivare in ritardo, doveva ammetterlo, non aveva saputo rimandare. Con impazienza aspettò che l’allieva lo raggiungesse. Sorridente e animata più del solito.
«Sono giunta alla fine delle deposizioni».
«Veloce…».
«Solo ora ho capito chi ha incastrato Pellegrina e per quale motivo. Avevamo la soluzione sotto gli occhi… all’interno degli stessi atti processuali… ma finora ci era sfuggita».
«Vieni al dunque… e ti prego di farlo in modo sollecito».
«Ho avviato con il computer una ricerca terminologica», riprese la ragazza, «per determinare quante volte si presentano nel testo del processo alcune parole chiave e in quale specifica occasione…
Esaminando gli atti, mi sono accorta che, diversamente da tutte le altre deposizioni, solo le dichiarazioni di Quienca e Rechiputo non terminano con la rituale formula sulla segretezza delle testimonianze. A tutti è iniuntum silentium, tranne che a loro, a dimostrazione che sin dal principio l’inquisitore è determinato al confronto fra Pellegrina e i due venditori di canestri…».
«Mi pare chiaro. Sono testimoni chiave per provare l’accusa contro di lei. Hanno apertamente confessato di avere partecipato a una pratica divinatoria…».
«A riprova che il processo è nel suo momento cruciale, Don Sebastiàn interroga Pellegrina e poi i due… Rechiputo compare con una celerità inaspettata da far pensare che sia stato convocato in previsione del contraddittorio».
«Come puoi dirlo… Nel caso di Rechiputo è scritto eodem proximo die», precisò il professore, «che significa nello stesso luogo il giorno successivo. Non vedo, quindi, tutta questa sollecitudine».
«Non propriamente, professore. L’interrogatorio di Rechiputo avviene immediatamente dopo aver ascoltato Quienca. Se, infatti, Rechiputo fosse stato interrogato il giorno seguente, il cancelliere avrebbe segnato come d’abitudine la data del 18 aprile. Mi sono ormai convinta che in questo processo nulla è assolutamente casuale o arbitrario».
Aveva esposto l’ultima asserzione in modo determinato, a braccia conserte, a rimarcare un punto fermo del suo ragionamento. Proseguì:
«La lettura di eodem proximo die può essere suscettibile di varie interpretazioni…».
Il professore fremeva. Dal volto tirato e dal gesto ripetitivo di scostare il polsino della camicia con l’intento di guardare l’orologio, si poteva capire la sua agitazione.
«Il formulario latino più comune per indicare il giorno seguente è postridie. Quindi, nel nostro caso, una possibile traduzione potrebbe essere: Lo stesso giorno immediatamente di seguito oppure Lo stesso giorno subito dopo».
La ragazza sembrava avere sempre la risposta giusta e il professore ne rimaneva, ogni volta, tanto contrariato quanto affascinato. Dopo un attimo di riflessione risolse conciliante:
«In effetti, è possibile intendere che l’interrogatorio di Rechiputo si svolse subito dopo il vespro, ovvero tra le sei e le sette di sera, quando da poco era scattata la prima ora della notte. In fin dei conti, il fatto si giustifica con l’importanza del momento…».
La ragazza fissò il professore con sottile ilarità, esibendo il compiacimento del giocatore di scacchi che ha indotto l’avversario a una mossa voluta. Al contrario il professore, cominciava a mostrare evidenti segni di fastidio, giacché non gradiva affatto essere messo alle strette.
«Se la decisione di continuare l’interrogatorio dopo il tramonto era dettata dall’importanza del momento…», domandò con aria indagatrice la ragazza, «…allora, cosa giustificava la deposizione, svoltasi sempre al tramonto, della servetta Catharina schiava di Petro Danchano?».
Con sguardo soddisfatto valutò l’effetto della sorpresa provocata dalle sue parole, ma il professore interdetto sbottò irritato:
«Cosa c’entra in questo discorso la servetta Catharina?».
La ragazza, questa volta, comprese di avere calcato fin troppo la mano e ridimensionò il suo tono esuberante.
«Anche nella circostanza della schiava Catharina, il cancelliere ha usato l’espressione eodem proximo die. A rileggere attentamente il brano, notiamo che Catharina non si presenta da sola, ma accompagnata all’interrogatorio da Catarinella Artes. È dimostrato dal fatto che il funzionario, nel trascrivere le sue dichiarazioni, pecca d’incompletezza. Registra, infatti, che la servetta non conosce il cognome di Pellegrina, ma sa che abita nella detta sua casa. Solo che nel verbale non compare quando mai la schiava Catharina abbia fornito l’indicazione della detta sua casa. Ne ha parlato invece proprio Catarinella Artes, poco prima. Notiamo inoltre che le due donne riferiscono della candela utilizzata da Pellegrina e affermano di credere che la magara avesse dato vita a una messa in scena, proprio grazie a quella candela. La Artes dice per intascare denari, la schiava dice per scippare denari. Le due donne, in modo evidente, anche nell’esprimersi s’influenzano a vicenda…».
«Tutto questo non spiega per quale motivo prolungare la seduta con il successivo interrogatorio di Catharina a un’ora tarda della sera».
«Ma è chiaro… La decisione era conseguente all’importanza della testimonianza… o meglio della testimone!», affermò la ragazza con veemenza.
«Cosa dici? Quale importanza poteva avere una domestica? Ha deposto, per giunta, su di un fatto conosciuto e ampiamente raffrontato… Comunque sia, ti prego di esporre rapidamente le tue considerazioni… ho fretta».
Senza scomporsi, e con grande tranquillità, la ragazza iniziò a parlare:
«Per chiarire quali deduzioni mi hanno permesso di afferrare quello che io penso sia il bandolo della matassa, occorre mettere in relazione la servetta Catharina con quell’altra Catharina… la greca. Verrebbe da sospettare che sia frutto della fantasia di Pellegrina stessa. Quasi un personaggio inventato per alleviare le sue colpe dinanzi al Tribunale; ma è un’idea che escluderei…».
«D’accordo… ma cosa c’entra ora anche Catharina la greca, messa in relazione con Catharina schiava di Petro Danchano?».
«Sono la medesima persona!», rispose la ragazza senza incertezze. «Ecco perché l’inquisitore non si è mai preoccupato di cercarla e convocarla, come invece ha fatto coi due canestrai…».
«Assurdo!», trasalì il professore. «La domestica dei Danchano è una figura defilata. Ha rilasciato una deposizione per fare piacere al datore di lavoro. Tu stessa, poco fa, hai detto che si presenta in tribunale persino accompagnata da una delle comari, quasi fosse spinta a testimoniare. È una monacella del terzo ordine e certamente non prepara incantesimi…».
«Io credo, invece, che a suo tempo li abbia preparati, questi incantesimi. Ha continuato a farlo fintanto che Pellegrina è rimasta a Montevergine… Mi spiace, per te si è fatto tardi; ma vorrei provare a ricostruire la vicenda sotto quest’ottica. Mi dirai tu se sbaglio…».
Il professore, che fino allora era rimasto in piedi, con l’intento di abbreviare il colloquio e congedare l’allieva, si sedette nella poltrona di fronte e l’ascoltò, senza interromperla, non riuscendo a comprendere in che modo la giovane intendesse provare le sue asserzioni.
«La servetta Catharina, approfittando della malattia della padrona, mette in piedi un imbroglio, per lucrarci qualche tarì da spartire fra lei e Pellegrina. Questo spiegherebbe perché ben tre delle cinque donne, parlano del medesimo episodio di cui non ricordano più neppure la data esatta. Chi glielo ha messo in testa? La furba Catharina…
La malattia della Danchano è il banco di prova. Le due donne guadagnano i primi tarì. Pensano, dunque, di ripetere la trovata anche con altri sventurati. Catharina si affaccenda a nascondere, nelle case in cui bazzica, cuori di cera e pupazze infilzate di spilli. Pellegrina impianta sceneggiate napoletane per scovare queste magarie, seguendo un canovaccio da commedia dell’arte…
Il sodalizio dura quasi due anni. Ha fine quando Vitello torna a casa e trasferisce la famiglia a San Giovanni. Domandiamoci: con un marito che aveva ormai raggiunto il titolo di mastro di bottega, quale bisogno aveva Pellegrina di continuare a inventare mezzucci per tirare a campare?».
«Quante volte lo abbiamo già detto? Ricordiamo la data: era il 1549. Senza dubbio l’anno fondamentale della nostra vicenda. Ha fine il periodo della fame e inizia quello dell’abbondanza».
La ragazza guardò il professore con soddisfazione e un pizzico d’ammirazione, perché, nonostante una iniziale ritrosia, ora sembrava finalmente disposto a seguirla nel ragionamento.
«Allorché Vitello torna a casa…», proseguì la giovane, «Pellegrina non abbandona i suoi traffici, anzi imprime una repentina spinta che la condurrà di filato davanti a quel vecchio inquisitore e a tutto l’apparato del Sant’Officio».
Il professore ascoltava e sorrideva. Quelle idee, che fino allora aveva in qualche modo contrastato, ora gli sembravano schiudere nuovi orizzonti.
Alzandosi all’improvviso, commentò:
«Le tue asserzioni sono avvincenti, ma hanno ancora bisogno di conferme. Con lo slancio che mostri, scommetto che questa sera saprai spiegare molti altri accadimenti… Scusami faccio una telefonata e torno da te».
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