Dove si riferisce della testimonianza ambigua del presbitero Caruso. Molti anni addietro Pellegrina era venuta in casa sua a scovare una fattura fatta ai danni di suo nipote. Da un altro suo parente la magara aveva dato seguito a certi riti che a lui, «de causa scientie», cioè in quanto sacerdote, non era permesso conoscere.
Venerdì 19 aprile 1555.
Il venerabile presbitero Petrus di Caruso, cittadino di Messina, fu interrogato su mandato dell’inquisitore.
Come tutte le mattine si alzò al levare del sole.
Prima di celebrare la messa mattutina, con la calma consueta, accese le candele dell’altare e si apprestò a confessare due o tre santocchie, assidue a redimere l’anima da chissà quali peccati e a seguire devotamente le funzioni religiose.
Mise un po’ d’ordine in chiesa. Poi lasciò detto che si sarebbe assentato per buona parte della mattinata e si diresse verso il Palazzo della Santa Inquisizione.
In tanti anni di sacerdozio s’era conquistato la deferenza dei fedeli osservanti e persino il rispetto di un pugno di non praticanti, per quel suo lasciare vivere. Nondimeno, da quando Don Sebastiàn aveva reso pubblico il bando con il suo editto, non aveva potuto sottrarsi ai doveri che gli imponeva la sua stola.
Certo era passato il tempo in cui si dava da fare per smascherare luterani o calvinisti. In tal caso si sarebbe mostrato più entusiasta nello svolgere un compito così straordinario in difesa della fede cattolica. Adesso doveva più modestamente adoperarsi, per fornire indicazioni su bestemmiatori, bigami e fatucchiere. Di costoro si era sempre occupato il clero secolare; per questo non concepiva che si andasse a togliere spazio a preti come lui e a subordinarli alle volontà superiori dell’Inquisizione Generale.
Gli toccava e in silenzio abbozzava.
Rispose alla richiesta delle generalità – che nome aveva, quanti anni, come viveva – precisando, flemmatico, di chiamarsi padre Petrino Caruso, di avere circa 50 anni e di vivere come sacerdote. Fu interrogato se conosceva una qualche persona che teneva un familiare in una caraffa o in un anello. Rispose semplicemente di no.
La domanda gli fu posta in altri termini, ben più espliciti: se era informato che una donna di nome Pellegrina teneva un diavolo in un anello. Rispose che veramente non lo sapeva. Poteva solo dire che un giorno Pellegrina si presentò a casa sua. Aveva fama di chi era capace a trovare magarie. Sosteneva che in casa ce ne fosse una a danno di suo nipote Ioan Cola di Alexandro. Nell’affermarlo, Pellegrina si muoveva con circospezione. Annusava l’aria come un segugio intento a fiutare la preda.
Bruscamente risolse che l’oggetto del sortilegio era nell’angolo del pozzo scavato in cucina. Così cominciarono a rovistare lì vicino. A un tratto, mentre cavava fuori roba, Pellegrina s’infervorò per aver scorto la magaria nascosta tra certe pezze. Se fu fatta da qualche altra persona o di mano sua, questo non lo sapeva proprio dire. È vero però che, rivolgendosi a lui, tutta eccitata disse:
«Ecco qua la magaria…».
Di là a qualche giorno, la stessa Pellegrina scovò un’altra fattura. Agì, più o meno, come l’aveva vista fare a proposito del pozzo di casa. Questa volta, il maleficio era nascosto sotto la scala dell’abitazione di una certa Geronima Caruso, moglie di un certo Cola Caruso.
Accertato che la povera Geronima era malata, Pellegrina disse che la sua infermità era frutto di un grave sortilegio. Così scavarono e trovarono un’altra stregoneria: non sapeva cosa fosse, visto che non era presente. Questo fatto lo conosceva solamente per sentito dire.
Pellegrina, per una faccenda di tal genere, si prese denaro in pagamento. Pose l’accento che questo lo sapeva perché lo vedia de causa scientie, come dire per il fatto di essere sacerdote, raccogliendo confidenze e confessioni dai suoi parrocchiani.
Era una precisazione non richiesta, ma s’era reso conto che quanto aveva fino ad allora deposto poteva essere in qualche modo inteso contro di lui.
Gli fu sollecitato, non senza invadenza, qualche altro caso. Don Caruso soggiunse che Pellegrina un giorno, tredici anni prima o giù di lì, si recò in casa di Antonino di Alexandro.
Pure in quest’occasione provò esserci un altro sortilegio, nascosto in un angolo della casa. Così scavarono fuori della porta. Pellegrina disse ancora di aver trovato la magaria, e là cominciò a fare certe cose sue che lo stesso testimone confessò di non sapere de causa scientie.
Gli fu chiesto e registrato di attestare tempi e circostanze in cui si erano svolti i fatti descritti. Petrino Caruso confermò ogni cosa, senza esitazione.
Interrogatus de odio, dixit: que non. Et fuit ei iniunctum silentium.
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