Dove, avendo ormai letto tutte le testimonianze del processo, professore e allieva possono discutere sulle pratiche magiche di Pellegrina. Don Sebastiàn vuole dimostrare come la magara riesca a decifrare, in uno specchio o in una caraffa, segni che non possono essere di origine divina, ma unicamente opera del demonio.
«Si chiamano Tea scones. Sono delle tipiche focaccine scozzesi».
Il loro profumo allietò le prime ore del mattino, dopo una notte insonne, o quasi.
Il professore poggiò sul tavolo della cucina il vassoio con tre piccole ciotole in porcellana di Limoges, piene di panna montata, riccioli di burro e marmellata di fragole. La ragazza, estasiata per la gustosa novità e lusingata per tanta attenzione, versò nelle tazze un goccio di latte e del tè.
Osservava con meraviglia questo strano professore, che sapeva passare con noncuranza dalle citazioni colte ai fornelli. Procedeva con la stessa meticolosità con la quale per l’intera notte aveva selezionato testi, esaminato schede di lettura.
Dopo lunghe ore di discussione, era rimasta in silenzio a osservarlo leggere o scrivere, del tutto concentrato nel lavoro, instancabile, spinto dall’inquietudine di trovare una soluzione ai loro propositi.
Poco prima che albeggiasse, aveva preso posto sul divano accanto a lui, per meglio scorrere con lo sguardo gli stessi testi. Ricordava di essersi assopita e avere appoggiato il capo sulla sua spalla. Si era offerto di accompagnarla a casa, ma con l’inconfessato desiderio che rimanesse.
Non avrebbe mai interrotto quell’atmosfera magica. Non rammentava una notte altrettanto seducente, per l’intensità dei discorsi e l’animosità con la quale il professore sapeva coinvolgerla. In sottofondo le sonorità dei preludi di Debussy si perdevano nel salone in penombra, illuminato qua e là dalle lampade che ne ritagliavano angoli suggestivi.
Ricordava che a tarda sera, quando ebbe finito di leggere la trascrizione delle deposizioni rilasciate da Pietrino Caruso e Catharinella Batello, il professore aveva esclamato:
«Confermano pienamente l’enunciato».
La ragazza non capiva.
«Caruso, pur con prudente reticenza», continuò il professore, «fornisce un quadro d’ambiente quanto mai chiaro. Anzitutto non specifica se Pellegrina sia venuta in casa fatta chiamare dal nipote del prete oppure per sua spontanea iniziativa. Non è da escludere che sia stata la stessa Pellegrina a proporsi per scoprire e liberare la casa dal malocchio. Caruso afferma di non sapere se la magaria fu fatta da qualche altra persona o di mano della stessa Pellegrina. A conferma che spesso certe attività illecite avvengono in combutta».
«Da buon pragmatico ne è consapevole… e aggiunge che è informato in virtù del fatto che è un religioso».
«Sta di fatto che Pellegrina scova una fattura congegnata ai danni di suo nipote… Proprio nell’abitazione di un prete… Lasciamo stare, preferisco non commentare. Andiamo avanti. In casa di Antonino di Alexandro Pellegrina trova anche lì una magaria. Tuttavia, in quell’occasione, Pellegrina attua certe sue pratiche strane che lo stesso presbitero confessa di non conoscere de causa scientie. Un’affermazione ambigua, ben più grave di tanti episodi, tutti uguali, che avrebbe potuto continuare a raccontare. Si avvale della medesima espressione latina usata poco prima, attribuendole un senso del tutto opposto, lasciando intendere che, da sacerdote, non gli era consentito sapere di più».
«Sa cos’è il peccato, ma non lo professa. Attesta, però, tempi e circostanze…».
«Riguardo ai tempi, ho qualche dubbio», rispose perplesso il professore. «Fa risalire i fatti a tredici anni prima – quando Pellegrina non era ancora a Messina – denunciando attività sicuramente più recenti».
«La Batello, al contrario, si riferisce a un avvenimento accaduto nell’agosto passato. È più precisa, perché direttamente interessata…».
«Direi, che è direttamente coinvolta… perché sappiamo che anche lei è accusata di essere hechizera».
«Vale a dire una strega?».
«Proprio così. Sarà condannata insieme a Pellegrina. Compare, infatti, nell’elenco delle streghe giudicate a Messina nell’autodafé del 12 maggio 1555».
«È strano che una strega si rivolga ad un’altra strega per farsi curare un male d’amore».
«Lo fa anche Quienca. Siamo strapieni di ammalati di cuore…», rispose sarcastico il professore. «La Batello con tutta probabilità racconta il fatto per tentare di dimostrare ciò che, a prima vista, sembrerebbe scontato: consultare una strega comprova di non essere una strega… Pellegrina, invece, nel suo secondo interrogatorio ammette senza reticenze di esercitare certe arti magiche, che si riducono però a piccole cose: qualche trucco appreso da Chatarina la greca. Tuttavia, dichiara, per ignoranza, anche trasgressioni ben più gravi. Sono proprio queste affermazioni a interessare Don Sebastiàn, che cerca con fermezza prove inoppugnabili».
«Quali ammissioni?».
Il professore, incurante dell’ora tarda, aveva assunto il modo di fare di chi ha tempo a disposizione per disquisire.
«Occorre leggere i verbali dal punto di vista di Don Sebastiàn, non con i nostri occhi di moderni.
Grave era tentare di acquisire capacità taumaturgiche. La guarigione di un ammalato apparentemente non curabile era un atto sospetto. Ricordi che Pellegrina ammette di aver sanato il figlio di un bottegaio? Senza dubbio aveva cognizioni di medicina popolare; ma date le limitate conoscenze mediche del tempo, molte guarigioni dovevano sembrare inspiegabili. Comunemente erano attribuite all’intercessione di un Santo – ed ecco i numerosi ex voto per grazie ricevute – oppure per contro erano opera di streghe e stregoni, che agivano per mano del demonio».
Prese gli atti del processo super magariam e li porse all’allieva:
«A Don Sebastiàn interessava dimostrare una colpa molto grave: la divinazione in estasi e… implicitamente il contatto con entità demoniache».
«Scusami prof: Pellegrina, recitando pater noster e avemarie, non chiedeva l’intervento divino?».
«Fai attenzione. Pronunciava queste preghiere quando diceva di leggere gocce d’olio lasciate cadere nell’acqua. Sapeva bene, però, che i segni che era intenta a decifrare in uno specchio o in una caraffa non potevano essere di origine divina.
Il presbitero Caruso è interrogato se conosce persone che hanno uno spirito in una caraffa o in un anello. Anche Quienca tira fuori un anello legato a un filo e lo fa pendere in una caraffa. Con Carcano Pellegrina fissa incantata un’altra caraffa e poi scrive con caratteri incomprensibili un pane da fare mangiare al martoriato. Per sanare il figlio di un bottegaio usa olio d’incenso e olio di martoriato. Siamo su di un piano ben diverso dalle gocce d’olio».
La ragazza, esausta per la stanchezza e per la quantità di osservazioni, sembrava non reagire più. Fissava ammutolita il professore, il quale al contrario cercava di essere più chiaro nella spiegazione e per farlo estendeva il discorso attraverso nuovi esempi.
«Abbiamo assodato che per esercitare le arti magiche poteva essere adoperato qualsiasi oggetto di uso comune. Talvolta per rendere inquietante il rito si ricorreva all’olio delle lampade di chiesa, a brandelli di corda di campana o spezzoni di legno di forca, a filo col quale impuntire i vestiti dei morti, teschi e ossa, terra consacrata del cimitero…».
«Un elenco aberrante…», commentò la ragazza con disgusto.
«Sì santo Dio!», esclamò il professore, entusiasmato da una trovata geniale, all’una passata della notte. Aveva preso un libro dalla vetrina e incominciava a leggerne un brano, con l’enfasi di un attore di teatro:
«Aveva membrane di cuore di cervo, lingua di vipera, teste di quaglia, cervella d’asino, duroni di cavallo e placenta di neonato, fava moresca, calamita, corda di impiccato, fiore d’edera, aculeo di riccio, zampa di tasso, semi di felce, la pietra del nido d’aquila e altre mille cose. Venivano da lei molti uomini e donne, e agli uni chiedeva il pane che stavano morsicando; ad altri le loro vesti; ad altri capelli; ad altri dipingeva sul palmo della mano lettere con zafferano; ad altri con cinabro; ad altri consegnava cuori di cera irti di aghi spezzati, e altre cose fatte in creta e in piombo, veramente spaventose da vedere. Dipingeva figure, diceva parole in terra… E tutto era menzogna».
La ragazza fu sorpresa da tanta veemenza.
«Stai parlando di Pellegrina?».
«Macché! Ti ho letto un passo da uno dei più bei drammi della letteratura spagnola del Cinquecento: La Celestina di Fernando de Rojas. Rappresenta l’amore del giovane Calisto, che per conquistare la riottosa Malibea si rivolge a Celestina, una mezzana».
«Una mezzana?».
«Faceva la ruffiana, coprendo i traffici di studenti e chierici. Di tanto in tanto, però, faceva fatture e compiva guarigioni, come Pellegrina».
«Tutto questo è rappresentato in un dramma del Cinquecento? È come se l’autore fosse entrato in casa di Pellegrina e avesse descritto quello che noi possiamo soltanto immaginare…».
«È la raffigurazione delle facce di una medaglia: quella celata e quella visibile delle apparenze».
«Era lo stesso mondo di Don Sebastiàn… e della sua religiosissima Spagna».
«Eccome! Don Sebastiàn conosceva più di quanto trascritto nei verbali del processo a Pellegrina. Aveva esperienza di ciò che si nascondeva dietro ad una realtà che noi moderni razionalmente tendiamo a rigettare».
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