27 – Tetamággraton

Dove si discute sulle pratiche medianiche, sulla miriade di oggetti simbolici, sulle formule magiche. Si chiariscono, in altre parole, quelle particolari orazioni che tanto interessano l’Inquisitore. È il caso del rito operato attraverso il segno di Salomone, che rende possibile entrare in contatto con le schiere dei morti vaganti.

Nell’oscurità della notte stellata, avevano lasciato il terrazzo ed erano scesi direttamente in giardino, tra il verde cupo delle aiuole e degli alberi.
«Conosci il viale di San Iacopo?», chiese il professore.«Nelle tradizioni siciliane, era il nome dato alla Via Lattea, la strada che porta nell’aldilà. Non era consentito risalirla a coloro che, deceduti per qualche ragione violenta, si presentavano in anticipo al giudizio divino. Così quelle anime erano costrette a rimanere sulla terra, finché non si fosse compiuto il tempo di quel loro particolare confino. Costituivano le schiere degli spiriti erranti».
«Erano le anime dei defunti che Pellegrina richiamava durante le sue divinazioni?», si interrogò la ragazza. «Dove riesci a leggere che invocava i morti anziché il demonio?».
«Quando lei stessa accusa Quienca di averle proposto di seguire le pratiche del negromante Rotellaro… Il canestraio traccia sul foglio un segno magico e lo indica da analfabeta come signo di Salamone. Per invocare lo spirito, anche mastro Rotellaro utilizza un’altra parola storpiata: tetamággraton».
«È vero… infatti è un termine che non sono riuscita a tradurre».
«Come Quienca pronuncia scorrettamente il nome di Salomone, chiamandolo Salamone, Rotellaro si confonde col vocabolo greco tetragrámmaton. Sai bene che tetragramma sta per nome formato di quattro lettere. Sono le lettere con le quali in ebraico si scrive il nome di Dio: JHWH, che si pronuncia Jahwèh».
«Che c’entra tutto questo con il segno di Salomone?».
«C’entra eccome! Dal momento che era proibito pronunciare il nome di Dio invano, ci si limitava solo a scriverne le quattro consonanti. Il tetragramma era al centro del sigillum Salomoni, la stella a sei punte che il re, figlio di David, utilizzava per invocare gli angeli».
«In un mondo rovesciato, come quello stregonesco», commentò la ragazza, «il negromante Rotellaro si serviva della stella a sei punte per invocare i diavoli, anziché gli angeli…».
«Non è esattamente così! Mastro Rotellaro, non aveva alcuna intenzione d’invocare i diavoli, dal momento che si faceva persino il segno della croce… Invocava bensì gli spiriti dei defunti».
«Forse il sonno mi offusca la mente, ma non ho ancora capito come si può dimostrare…».
«C’è un momento particolare in cui il riferimento compare per un istante, come in un batter d’ali. Sembra essere sfuggito a Don Sebastiàn, perché non se ne farà più menzione… A mio avviso è il momento più importante dell’intera istruttoria».
La ragazza ascoltava impaziente, godendo di una leggera brezza che s’era levata dal mare, unico respiro della notte.
«Quienca chiede a Pellegrina di guardare nel simbolo magico di Salomone e di riferirgli se vede qualcosa. Pellegrina risponde di non vedere nulla, mentre lui di rimando crede di vedere un re con un gran numero di persone che gli vengono dietro…».
«Il problema è che non capisce cosa stanno dicendo e si aspetta che glielo riveli proprio Pellegrina», rispose la ragazza, sicura di percepire il sottile piacere affabulatorio che il professore amava manifestare in certi precisi momenti. Persino nel cuore della notte.
«In queste poche battute è descritto il mito della processione dei morti. Mi viene da pensare a un racconto medievale riguardante un prete che percorreva una strada di campagna… La storia si svolge in Francia, il primo dell’anno 1091. Il prete, della chiesa di Bonnevaux, si chiamava Guachelmo. Se ne andava tutto solo di notte, quando all’improvviso, ai margini d’un crocevia, udì lo schiamazzo di una folla in movimento. Si trovò di fronte a un essere gigantesco e minaccioso, armato di clava, seguito da una torma di persone lamentose. Non ci mise molto a rendersi conto di trovarsi dinanzi alla familia Herlechini. Non aveva mai voluto crederci, benché ripetutamente ne avesse sentito parlare.
Secondo le storie che correvano, era questo un corteo di morti guidato dal demone Herlechinus. Infatti, tra quegli uomini e donne, chierici, monaci, nani e guerrieri, intravide conoscenti deceduti da anni. Lo riconobbero anche loro e presero a domandargli informazioni su parenti e amici viventi, approfittando del religioso per mandare messaggi e supplicarli di pregare per le loro anime erranti. Il prete riconobbe pure suo fratello, caduto in battaglia, che corse in suo aiuto, quando, volendo fermare un cavaliere, la sua armatura gli ustionò una mano.
È una cronaca che ebbe gran seguito durante il medioevo. È riferita da Orderico Vitale nella Storia Ecclesiastica, il quale sostiene di avere conosciuto e parlato col prete, che gli mostrò persino la piaga della sua bruciatura. La vicenda è annoverata tra i fatti straordinari e fra gli esempi edificanti, a scopo educativo. Serviva ad alimentare la credenza nelle anime dei defunti, per i quali si richiedevano orazioni e opere di bene, che avrebbero accelerato il passaggio in paradiso».
«Queste anime vaganti sono paragonabili a quegli infelici cui non era permesso di percorrere il viale di San Iacopo e presentarsi anzitempo al giudizio di Dio. Una idea che alimentava la paura diffusa per l’apparizione dei fantasmi…».
«Alimentava soprattutto le casse della Chiesa. Sai bene che la concezione delle opere pie per i defunti fu uno dei cardini della religiosità medioevale… prima attraverso una serie di rappresentazioni dell’esercito dei morti, poi con l’individuazione di un ben determinato luogo ultraterreno».
«Intendi il Purgatorio?».
«Esattamente. Dall’inizio del secolo XI, la Chiesa decide di cristianizzare anche le antiche credenze sui morti. Ne celebra la festa il 2 novembre, proprio il giorno successivo ad Ognissanti, solennemente dedicato a martiri ed anime beate. Istituisce in modo particolare il Purgatorio, luogo d’espiazione temporanea di una qualche colpa non scontata in vita, prima di poter raggiungere la felicità eterna».
«Al Purgatorio itinerante su questa terra si sostituì, dunque, un Purgatorio localizzato nell’aldilà».
«Così anche quelle manifestazioni collettive, legate alla tradizione narrativa delle anime erranti, lasciavano il posto alle apparizioni di fantasmi individuali… Quei morti familiari tornavano per implorare i parenti di ridurre il tempo destinato all’espiazione, con preghiere, messe e soprattutto offerte. In altre parole, ciò che era permesso al prete Guachelmo nel 1091, non lo era più nel 1555. Ecco perché l’esercito dei morti che osserva Quienca nel segno di Salomone si è trasformato per l’inquisitore in un esercito di demoni».
«Quel corteo di anime in pena alimenta ora l’idea del sabba delle streghe…», considerò la ragazza, stringendosi in sé per un improvviso brivido di freddo.
Il professore la invitò a rientrare in casa. L’interno del salone, benché immerso nella penombra delle lampade da tavolo, apparve molto luminoso a confronto col giardino, rischiarato unicamente dalla luna e dalle stelle.

«Alla testa delle processioni dei defunti non sempre c’era un demone… poteva esserci anche una donna. La tradizione le attribuiva il nome di una grande dea o una maga: Circe, la Sibilla…».
Fece una pausa. Armeggiò sul tavolino dove aveva poggiato la pipa: la pulì, la caricò di nuovo, ma sembrò cambiare idea, perché preferì non accenderla e lasciarla dov’era.
«I culti antichi non sono statici. Si trasformano. Così dalle società di Diana, di Perchta, di Satia, Abundia, Selga, Morgana, Oriente, Erodiade, e altre ancora… si passò ai sodalizi formati dalle donne di fora. Queste donne avevano dei caratteri particolari. Pur mantenendo gli stereotipi riconosciuti comunemente alle streghe – il conciliabolo, la partecipazione ai sabba – non possedevano tratti malefici. Non adottavano sembianze animalesche. Non uccidevano uomini o animali, e neppure succhiavano loro il sangue. Non distruggevano beni materiali».
«In sintesi, cosa le caratterizzava?».
«La giovinezza, la bellezza, il volo notturno. Sui Peloritani si recavano ai conciliaboli a dorso di maiali. Nelle isole Eolie rubavano le barche ai pescatori e le usavano, guarda tu, per volare».
Il professore sfilò un volume fra quelli impilati sul tavolino e soggiunse:
«Naturalmente, nei libri possiamo trovare delle differenze. Spesso dipende dall’autore che ne parla o dall’epoca in cui ne scrisse. Per quanto possiamo cercare, troveremo sempre tante descrizioni quanti saranno i brani che decideremo a leggere».
«Credo piuttosto che occorrerebbe guardare alle costanti, piuttosto che alle differenze…».

«Occorrerebbe guardare alle costanti, piuttosto che alle differenze…».
Il professore ripeté meccanicamente le ultime parole pronunciate dall’allieva. Era notte fonda, la stanchezza si faceva ormai sentire, eppure riusciva ancora una volta a sorprenderlo.
Ricucì il discorso interrotto, ricorrendo tempestivamente ad una citazione: «Per Filoteo… le donne di fora erano simili alle Lamie degli antichi… fantasmate che comparivano in notti come questa. Secondo gli antichi erano ombre fantastiche, donne splendide e seducenti, donne sontuose dai capelli neri e lucidi…».
Si alzò e raggiunse una delle vetrine. Prese un grande volume rilegato in cuoio, ma non aprì neppure questo. Non era opportuno a quell’ora della notte approfondire con citazioni il discorso.
Proseguì, invece, il ragionamento lasciato in sospeso:
«La peculiarità più importante è che queste signore della notte uscivano appunto col buio. Non con il corpo, ma unicamente con lo spirito».
«Si recavano al sabba non fisicamente, ma in spirito?».
Presero a parlare di fatti non percepibili dall’ordinaria conoscenza delle leggi fisiche. A volte, il mondo reale tende a occultare una dimensione misteriosa, che vagamente si può soltanto cogliere.
«L’anima si libera nel volo notturno e, per tutto il tempo in cui sarà assente, il corpo dovrà giacere immobile. Se fosse semplicemente sfiorato, l’anima non potrebbe rientrarvi e sarebbe destinata a vagare in eterno».
«Una tipica condizione estatica…».
«Andare in ékstasis, significa propriamente uscire fuori di sé», replicò il professore, mentre andava scartando una scatola di paste alla mandorla. «L’estasi è quello stato di psicosi, che si manifesta con la perdita della presenza vigile e l’estraniazione dal mondo sensibile».
«Carcano dice che Pellegrina è presa dall’incanto, mentre guarda la caraffa. La medesima condizione si ripete ogni volta che fissa uno specchio, prima di divinare».
«Sappiamo, dunque, che Pellegrina riesce a entrare in estasi, a concentrarsi soltanto fissando un oggetto. È incantata, rapita, da quella caraffa o da quello specchio».
Era la stessa sensazione che il professore provava quando s’immergeva nella lettura, raccogliendo dagli scaffali una quantità di volumi che a malapena riusciva a tenere in mano. Quelle immense librerie che ricoprivano le pareti di gran parte dello studio e del salone, in qualche modo testimoniavano direttamente il suo innato desiderio di conoscenze sorprendenti. Come i riflessi delle ante a vetri, che a volte disegnavano strane ombre, insolite luci.
«In altre parole…», intervenne la ragazza «era capace di cadere in trance, di isolarsi dalla realtà, mettendo in risalto facoltà medianiche… o facendo credere di farlo».
«Hai ragione… Pellegrina era capace di cadere in trance, di indurre l’estasi, ma nello stesso tempo anche di controllarla. Se tutto ciò fosse vero, doveva essere molto dotata… A differenza di mastro Rotellaro non aveva bisogno di uno spirito guida. Rispetto a Quienca, che riusciva solo a vedere la processione dei morti, Pellegrina riusciva anche a udirne le parole».
«Intendi dire che durante le sue divinazioni, Pellegrina riusciva a entrare in totale comunione con le anime dei morti? Erano queste le cose particolari che faceva e che il presbitero Caruso non poteva e non doveva conoscere de causa scientie?».
«L’esempio mi pare appropriato», asserì il professore. «Queste signore della notte, sapevano manipolare la materia umana e passare indifferentemente dalla dimensione terrena… a quella ultraterrena.

Sorpresa per il professore fu accorgersi che, all’improvviso mentre parlava, la ragazza era scivolata sulla sua spalla, cedendo alla stanchezza. Rimase un attimo senza muoversi per il timore di svegliarla. Poi allungò una mano sul tavolino dove aveva appoggiato la pila dei volumi presi in libreria. Ne sfilò uno, cercando di evitare, senza riuscirci, che gli altri cadessero sul tappeto. La ragazza mosse impercettibilmente le palpebre, parve accennare un sorriso, poi riprese sonno.
Era un manuale per confessori, scritto da Giovanni Vassallo nella seconda metà del Cinquecento. Si raccomandava agli inquisitori di chiedere a quanti erano da loro interrogati se credessero alle donne di fora, vaganti di notte, che si accompagnavano con il demonio e che lo riconoscevano come loro signore. Li ammonivano severamente, perché a seguire queste cose eretiche e pagane, si abbandonava la fede in Cristo e s’incorreva nell’ira di Dio.
Il professore distolse lo sguardo dal libro e constatò amaramente: «Le eredità delle antiche culture subalterne erano paragonate a cose eretiche. Allo stato dei fatti, questa era l’idea risoluta di monsignor Sebastiàn. Per lui, Pellegrina era senza dubbio un’eretica…».
La notte tendeva al termine e sullo Stretto cominciava ad albeggiare.

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About the author: Sergio Bertolami