Mi chiedono cosa sia contemporaneo e quando, invece, possiamo parlare di eredità del passato. Rispondo semplicemente: c’è un passato prossimo e uno remoto. Se neppure un centenario può raccontare certi fatti vissuti in prima persona, allora parliamo di passato remoto. Dalla voce di costui ascoltiamo in presa diretta ragguagli sugli anni recenti, vicende riscontrate personalmente oppure tramite qualcun altro, magari utilizzando i mezzi d’informazione. In altri termini c’è un numero di persone con le quali direttamente o indirettamente entrare in contatto. A conti fatti, gli ultimi cento anni o poco più sono testimoniati da quattro generazioni: noi, i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni. Nonostante ciò il ricordo diretto, progressivamente, si affievolisce fino a dover essere affidato del tutto agli archivi della memoria. Quando ci rivolgiamo persino al passato familiare abbiamo bisogno di una vecchia fotografia che ci rammenti un parente, un luogo o una situazione. Col trascorrere del tempo il ricordo diviene sempre più legato ai sentimenti anziché ai fatti concreti. La prima immagine conservata dell’infanzia: quante volte s’è modificata nella mente, tanto da confondere realtà e immaginazione? Ė frutto del nostro ricordo o del sovrapporsi dei racconti tramandati in ambito domestico? Contemporaneo è, quindi, il tempo in cui l’eredità delle nostre consapevolezze ė tangibile, perché sappiamo a chi o a cosa ricorrere per soddisfarle. Persino l’Enciclopedia allineata negli scaffali della nostra libreria è contemporanea: acquisto fatto per acculturarci sul presente, ma anche su ciò che gli attuali studiosi pensano del passato. L’Enciclopedia di Diderot, invece, la troviamo nella biblioteca pubblica. È conservata per ascoltare, del passato, la voce dei protagonisti. Perché quel passato è veramente passato.