La traduzione, all’improvviso
Una chiacchierata con la giovane Silvia De Matteis
di Diana Daneluz
Silvia De Matteis è un Architetto, con un dottorato in Storia dell’Architettura. Ma di recente ha tradotto, insieme a Sara Zingarini, dall’inglese, il libro della scrittrice italo-bengalese Neeman Sobhan, “CUORE A META’ – Vite tra due mondi” pubblicato pochi mesi fa da Armando Curcio Editore e oggetto della presentazione a Roma il 21 novembre, all’interno della Casa Internazionale delle Donne. Uno scarto? Una qualche deviazione dal percorso accademico segnato? Capolino estemporaneo (ci pare riuscito) nel mondo dell’editoria?
Lo abbiamo chiesto a lei, perché ci dà così l’occasione per un’incursione nel mondo della traduzione letteraria, quel qualcosa che diamo per scontato ogni qualvolta prendiamo in mano un libro di un autore straniero, mentre è invece una delle chiavi per comprendere il mondo e abbattere le barriere. Tu come sei arrivata a tradurre?
Per parlare della mia esperienza di traduttrice dall’inglese, devo partire da un’altra esperienza che ha cambiato completamente il mio rapporto col mondo anglosassone, ovvero l’anno trascorso presso l’Ohio State University appena terminato il liceo. Improvvisamente, mi sono trovata a vivere tutto il giorno immersa nella lingua Inglese, riservando l’Italiano alle sole chiamate a casa. A poco a poco, l’Inglese ha cessato di essere una lingua, ed è diventato piuttosto un mondo, un sistema. Soprattutto, ha smesso di essere qualcosa che sveva senso solo in relazione all’Italiano, diventando qualcosa che aveva senso di per sé. Quindi il “mio” Inglese è strettamente collegato con determinati percorsi di associazioni mentali, con una precisa realtà e uno specifico momento.
E questo è cambiato nel momento in cui ti sei avvicinata alla traduzione? E cosa ti ci ha portato?
L’esperienza del tradurre si è rivelata un passaggio abbastanza faticoso, perché si è trattato di restituire alla lingua Inglese, che avevo cominciato appunto a “vivere”, con naturalezza, una dimensione “altra”, di restituirgli un senso in relazione con l’Italiano. Per di più, non si trattava di tradurre un’autrice anglosassone, ma bengalese, che aveva studiato sì negli Stati Uniti, ma era nata e cresciuta altrove, in Bangladesh appunto. Il suo Inglese non era il mio Inglese, nel senso che esprimeva associazioni mentali altre, apparteneva a un’altra area del mondo. Ho conosciuto Neeman grazie alla decisione del Collegio Docenti del corso che stavo frequentando di fornire ai dottorandi del trentaseiesimo ciclo un corso d’Inglese. Lei era l’insegnante. Le piaceva come scrivevo, presto ci siamo trovate a parlare di libri. Mi ha regalato la sua raccolta di racconti, Piazza Bangladesh. Sperava di pubblicarla anche in Italiano, ma la traduttrice si era svincolata. È andata così. L’incontro con questa persona, la sua fiducia, è stato l’occasione non cercata per questa sfida.
E come l’hai affrontata? Non eri preparata, non avevi studiato per questo. Cosa ha significato per te ottenere la tua prima commissione editoriale e quale metodo hai seguito, se ne hai seguito uno?
Partirei dal risultato. Le storie che compongono la raccolta di racconti “Piazza Bangladesh”, le prime quindi in cui mi sono cimentata nella traduzione, – poi confluite nel libro “CUORE A META’ – Vite tra due mondi” insieme ad altre, nuove – hanno attraversato per certi versi una quadrupla trasposizione. È un discorso che si sente spesso, se sia meglio una traduzione esatta, letterale, o una traduzione fluida. Non penso di poter dirimere la questione dopo aver lavorato ad una manciata racconti, però è una difficoltà che nel mio piccolo ho incontrato. C’erano tante cose che non mi sarei mai sognata di scrivere, se mi fossi trovata a farlo direttamente in Italiano, e altre che non avevo idea di come rendere. Restare fedele al testo rendeva tutto molto innaturale, ma, poiché non erano frasi pensate direttamente in Italiano, non avevo neanche troppo chiaro come avrebbero potuto suonare meglio. Erano forzate, ma non era intuitivo il perché lo fossero, e quindi difficili da correggere. E c’erano poi anche questioni un filo più alte. Come rendere il tono, come rendere la metrica. E serve, rendere la metrica? È utile? L’Italiano supporta periodi molto lunghi, cosa che l’Inglese non fa. È una delle difficoltà che si incontra nel fare il percorso inverso, traducendo dall’Italiano all’Inglese. Quindi, che si fa? Si uniscono i piccoli periodini inglesi in un brano più lungo o si lasciano così? Quando scegliere l’uno o l’altro modo? Le prime storie mi hanno messo molto in difficoltà su questo fronte. Le rileggevo e mi sembravano macchinose, sciatte. È servito molto lavoro per farle diventare più naturali. Poi, verso la quarta o quinta storia ho iniziato ad accostarmi ai testi con più disinvoltura. E a divertirmi, anche. Soprattutto con Green Chili Smile, che per questo è la mia preferita.
Hai utilizzato strumenti tecnologici per questa prima traduzione? Se sì che modo hanno influenzato il tuo lavoro?
Spesso mi capitava di incappare in parole in Bangali, per cui ovviamente le cercavo su Google e cercavo di descrivere l’immagine che compariva. Per le piante, inizialmente mettevo il nome scientifico e poi con Neeman cercavamo il modo di renderlo. A volte invece mi si creava una specie di cortocircuito mentale: conoscevo la parola in Inglese, ma non sapevo come renderla in Italiano in un modo che rispettasse l’esatta sfumatura che assumeva nel contesto della frase; questo succedeva soprattutto con i verbi. Allora li cercavo sui dizionari online, che spesso danno diverse possibilità per una stessa parola, e speravo che una mi piacesse o mi mettesse sulla strada giusta. Anche cercare sinonimi in inglese da’ questo effetto “prismatico”, che ti rende più sensibile alle sfumature.
Una lingua che conoscevi bene, quindi, l’inglese in cui scrive l’Autrice, ma un mondo, il suo, probabilmente nuovo per te. Come ti sei sentita di fronte alla responsabilità di dar voce a questo mondo in un’altra lingua?
Prima di entrare in queste sue storie, non sapevo assolutamente niente del Bangladesh e del Subcontinente indiano. O meglio, ne sapevo probabilmente quanto ne sa il cittadino italiano medio. Avevo letto Arundhati Roy, ovviamente, ma lì finiva la mia esperienza. Le prime due storie che ho tradotto, The Untold Story e Just Another Day, non fanno parte della raccolta originale perché sono più recenti. Affrontano temi di carattere storico e politico. È stato come fare un corso accelerato, cosa che si è rivelata molto utile per affrontare tutte le altre. Sono anche state un po’ uno shock, soprattutto la prima. Conoscevo personalmente Neeman, e avevo letto le altre sue storie. Mi aspettavo, in un certo senso, qualcosa di molto più delicato, quasi in punta di piedi. E invece, bam!, campo di stupro. È stato difficile perché sono temi complessi e l’ultima cosa che vuoi è rovinarne la trattazione impiegando una prosa sgraziata. Ma era la mia prima storia e non so se ci sono riuscita.
In che modo questa esperienza diversamente creativa rispetto al tuo percorso, ti ha cambiata? Pensi di tradurre ancora in futuro? Se sì, e potessi tradurre un libro che hai particolarmente amato, quale sarebbe e perché?
È una domanda difficile. Certamente mi ha arricchito molto la conoscenza rispetto al mondo bengalese, e del subcontinente indiano in generale. Il grosso della traduzione è coinciso con la fase di stesura della tesi di dottorato, e insieme mi hanno ricordato quanto mi piacesse scrivere. Per tradurre, devi fare analisi del testo almeno a un livello rudimentale, quindi vedi lo scheletro della storia, in un certo senso, devi fare ingegneria inversa per capire come funziona. E questo certamente sarà utile in futuro, sia se mi dovessi trovare a tradurre altre cose, che quando mi troverò a scrivere di altro. Mi piacerebbe, comunque, tradurre molte altre cose! Quest’esperienza è stata molto facilitata dal fatto che conoscessi Neeman personalmente e potessi avere un confronto continuo con lei durante il lavoro, ma mi auguro di essere diventata in grado di farlo anche senza qualcuno che mi tiene la mano. Tutti i libri che mi piacciono sono già stati tradotti, temo. No, aspetta, ce n’è uno che avevo letto negli Stati Uniti, una decina di anni fa (è più semplice trovare libri che bypassano il radar della stampa internazionale se ti trovi fisicamente dove vengono pubblicati). Si chiama Tell the Wolves I’m Home, di Carol Rifka Brunt. Ricordo che mi colpì molto. Mi piacerebbe tradurlo.
Inglese, ma anche Bengali. Come in tutte le lingue, ci sono termini che non si possono tradurre o che è difficile farlo senza snaturarli. Come ti sei comportata in quei casi?
Questo è stato un argomento su cui Neeman ed io abbiamo discusso parecchio: cosa fare delle parole in Bengali. Piazza Bangladesh è scritto in Inglese, ma nasceva per i lettori del Subcontinente indiano, per i quali certe cose non richiedono spiegazioni. Sono parte della lingua, intesa come mondo di associazioni, locali. Tutti sanno cosa è il ghi. Tutti sanno cosa è una dupatta. Tutti sanno cosa intendi quando dici string cot o Flame of the Forest tree. Io, preoccupata di non interrompere il flusso del discorso, ero una ferma sostenitrice di lasciare le parole in Bengali in corsivo e aggiungere un glossario in fondo. (Ero anche un po’ del partito “esiste Google”, ma forse solo perché, se dovevo andarmi a cercare queste cose io, volevo che soffrissero un po’ anche i lettori…). Neeman invece ogni volta mi rimandava la bozza con l’aggiunta di perifrasi per spiegare cosa intendessero le parole in Bengali, per rendere al pubblico italiano – al quale adesso voleva rivolgersi – meno arduo capire di cosa si stesse parlando, far sentire questi nuovi lettori meno stranieri. Ha a che fare, credo, col suo modo di intendere la lingua: la lingua si mangia come i dolci tradizionali, la lingua si attraversa come il paesaggio ai bordi delle strade e gli alberi e i vestiti. Te la dà tua madre con parole inventate. Se non sei messo in condizione di capire immediatamente queste cose, sei automaticamente nel ruolo di “altro”, “diverso”.
La lingua di un popolo è anche la sua Storia.
Esattamente. Le parole definiscono oggetti, ma anche cibi, tradizioni, abiti, movimenti, episodi storici. La questione della lingua è fortemente legata al processo che ha portato all’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971– Settantuno | Ēkāttara | একাত্তর –, i primi semi di malcontento nel 1952 con un movimento per il riconoscimento e l’utilizzo della lingua bengalese. Fino ad allora, il governo aveva ostinatamente ignorato le differenze culturali tra gli abitanti del Paese tanto che era l’Urdu ad essere stato adottato come univa lingua ufficiale, nonostante nel Pakistan orientale si parlasse prevalentemente Bengali. Il movimento ottenne un sostegno di massa quando la polizia sparò e uccise decine di studenti attivisti e portò infine al riconoscimento ufficiale della lingua nel 1956. Fu in questi anni ’50 e a partire da una questione di lingua che però è anche sempre una questione di identità che si formò e forgiò la coscienza nazionale del Bangladesh. E forse è per questo che per Neeman Sobhan la lingua è un luogo fisico. La motherland o la casa. La cosa divertente è che a Roma non esiste una Piazza Bangladesh. Può esistere solo se la facciamo noi, se ci facciamo spazio.
Grazie ai traduttori, i lettori di tutto il pianeta possono immergersi nella letteratura di paesi lontani, scoprire universi narrativi nuovi e sentire vicini autori che scrivono in lingue diverse dalla propria. La traduzione rende possibile un dialogo silenzioso ma profondo tra culture, creando connessioni che arricchiscono chi legge e chi scrive.
Diana Daneluz | Giornalista pubblicista, Ordine Nazionale dei Giornalisti di Roma N. 182410. Comunicazione e Uffici stampa, socia professionista FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana N. 2760. Da Diana Daneluz dianadaneluz410@gmail.com |
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