La sete di libertà ai tempi di Platone non è la stessa dei nostri giorni

di Sergio Bertolami

Su WhatsApp leggo il post di una mia amica che fa riferimento ad un brano tratto dalla “Repubblica” di Platone, che dice: «Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia».

Il brano è molto significativo. Soprattutto permette di riflettere, e non è cosa da poco. Tuttavia occorre considerare che il suo contenuto non può essere traslato ai nostri giorni senza contestualizzarne il pensiero. Non dimentichiamo che il riferimento al “contesto” è la grande conquista della nostra modernità. Il contesto sociale e politico di Platone ha come riferimento l’oligarchia, la demagogia, la tirannia. Concetti anche questi da storicizzare a loro volta. All’epoca il popolo era alla ricerca di un governo autoritario. Noi, al contrario, siamo tutelati da una repubblica parlamentare. Proprio oggi alle ore 12 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte riferirà alla Camera sulla crisi politica. Dopo il dibattito (quindi dopo un confronto fra presunti “coppieri”) per appello nominale i deputati saranno chiamati a confermare o meno la fiducia al governo. Non basta! La vera sfida numerica per la sopravvivenza di questa compagine governativa sarà domani al Senato. Non vado oltre, perché mi pare che le garanzie della nostra costituzione (perfettibile) bastino a rassicurarci che, pur apprezzando le intense parole di Platone, non viviamo nella società di 2400 anni fa. 

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Ahkeem Hopkins da Pixabay 

Non sempre il progetto vincitore di un concorso è davvero convincente

di Sergio Bertolami

My God! È lunedì e su WhatsApp sono ricominciate le schermaglie. C’è chi usa il fioretto, chi la sciabola o la spada, e pure l’arbitro non disdegna qualche affondo. Ciò che anima i cuori ardenti della Chat è la contesa. Come a noi, giovani architetti dei primi anni Ottanta, piacevano i concorsi di progettazione. Ci appassionava misurarci sul terreno della competizione, piuttosto che su quello degli incarichi ordinari. E se la competizione era lanciata da una rivista di prim’ordine, che prometteva una visibilità internazionale, allora il gioco si faceva eccitante. Mio fratello Daniele, era un trascinatore irrefrenabile, convinto che occorresse partecipare a molti dei bandi dell’epoca. Sosteneva che avrebbero permesso di emergere anche a degli illustri sconosciuti come noi. Aveva persino scritto a Renzo Piano, che da qualche anno godeva della fama conquistata col Beaubourg (chi lo conosceva prima di allora?), e aveva ricevuto anche risposta e l’incitamento a proseguire nei suoi convincimenti. Io, al contrario, obiettavo ogni perplessità. Avevamo da poco terminato un concorso per la progettazione di una piazza in un comune della Toscana, chiamati da uno dei nostri professori di composizione architettonica. Non avevamo vinto neppure un fiore di consolazione colto nel giardino immaginato. Ci avevamo lavorato alacremente per una quindicina di giorni, con un gruppo di amici indimenticabili. Caffè, sigarette, scherzi, battute di spirito, e poi ancora caffè, cercando di non rovesciarlo sugli enormi fogli da disegno. A colpi di Rapidograph e lametta da barba (per ogni minima correzione), ricominciare da capo avrebbe messo a repentaglio la consegna. L’orologio era il nostro nemico; non la notte o il sonno, ma le lancette delle ore.

Ecco perché ogni volta che, in studio, Daniele si sedeva alla mia scrivania con una rivista in mano, già sapevo che avrei dovuto principiare una battaglia estenuante. Una mattina mi aprì una gran pagina colorata di Domus. Il concorso annunciato non era una piazza per riqualificare un centro storico, un complesso di case fatiscenti da risanare come edilizia economica popolare, una fabbrica dismessa da trasformare in museo. Era semplicemente la proposta per una innovativa moquette, lanciata da Louis De Poortere e dalla prestigiosa rivista di architettura e design fondata da Gio Ponti. In palio i premi per i tre classificati, una mostra alla Fiera di Milano per cinquanta selezionati e, naturalmente, la messa in produzione della moquette prescelta. «Tu pensi che non riusciremo almeno a piazzarci fra quei cinquanta? Non vinceremo, ma sbarcheremo a Milano!». Dall’entusiasmo di mio fratello sembrava che dovessimo subito decidere se prenotare i biglietti del treno o dell’aereo. Mi convinceva, però, che non fosse un lavoro tanto impegnativo da fermare lo studio per qualche settimana. Nonostante ciò, chiesi il parere di Mario e Birgit e fu in sala disegno che piantammo il campo di battaglia. Mario era un giovane architetto, a modo suo figlio della Beat Generation, amato dai nostri clienti che con lui non provavano alcuna soggezione. Tutto il contrario era Birgit, una biondina uscita dall’Università di Belle Arti di Amburgo, di una precisione inappuntabile. Quella fu, probabilmente, l’unica volta che espressero un parere concorde. A loro avviso, il concorso copriva dei giochi già fatti e se proprio, Daniele e io, volevamo parteciparvi occorreva che, da titolare dello studio, prendessi il telefono per cercare una bella raccomandazione. A quel punto il gruppo di lavoro era definito; cosicché, riempire con solo i nostri due nomi il modulo d’iscrizione e spedirlo, fu tutt’uno.

Qualche settimana più tardi ricevemmo un plico contenente dei grandi quadrati di moquette bianca immacolata e due scatole di pennarelli nella gradazione dei bruni. Le istruzioni per l’uso spiegavano il funzionamento delle macchine e degli ugelli a iniezione che avrebbero realizzato il disegno. Come di consueto Daniele sfornò una profusione di schizzi e io selezionai le tre proposte da elaborare nelle modalità corrette. Poi fu tutto un lavoro di geometrie, perché di colori neanche a parlarne. Prima di quanto ci aspettassimo completammo i cartoni, tono su tono, e inoltrammo il tutto alla sede italiana della società belga. Non dovevamo che attendere i risultati. Nel frattempo, rispondevamo, al più, alle canzonature di Mario e di Birgit. Arrivò la data della mostra milanese, anticipata da un elegante catalogo spillato. Fu mio il compito di voltare pagina dopo pagina, attorniato dai presenti incuriositi. Il progetto vincitore s’intitolava “Tessuto urbano” e rappresentava una planimetria catastale da pavimento. Immaginate di camminare come Gulliver lungo le strade e le valli di Lilliput. Neppure il secondo e il terzo premio andarono a noi. Rimanevano ancora cinquanta progetti da guardare. Voltavo ogni foglio con lentezza esasperante, un po’ per creare suspense, ma soprattutto perché, ad ogni pagina in più, diminuiva la possibilità di una nostra traccia. Quando chiusi la quarta di copertina fu chiaro che di noi non c’era ombra. «Cosa mai potevamo aspettarci, noi del profondo Sud? Bastava leggere i nomi dalla commissione giudicatrice per comprendere quale sarebbe stato il risultato finale! Non ti sei procurato neppure un morso di raccomandazione, come avevo suggerito io!». Questa non è che una sintesi estrema dei commenti; gli altri è facile immaginarli. Che il concorso fosse verosimilmente orientato lo dimostrava una miriade di indizi.

Racconto però questa storia, giacché in fin dei conti ha una sua morale. A volte è lo stesso autore a metterla in evidenza, questa specie di lezione di vita, a volte invece è la sorte stessa che a sorpresa la serve in tavola. A noi capitò, quando una gentile voce femminile disse di chiamare per conto della LdP. In verità chi rispose al telefono comprese B&B, nota società di divani e poltrone. Stavo per rispondere di non avere tempo per incontrare un rappresentante di giro. Ma la LdP era proprio quella Louis De Poortere che mesi prima ci aveva lasciato con la bocca amara. La cordiale signora dava per scontato che io conoscessi ogni risvolto del concorso. La manifestazione di Milano non era che la prima tappa di un processo selettivo. La documentazione, raccolta evidentemente in varie parti d’Europa in altrettanti concorsi, era giunta a Mouscron, in Belgio, dove la fabbrica di moquette e tappeti pregiati ha sede centrale. Con questo mi si informava che a giorni avrei ricevuto una proposta di contratto per la produzione di uno dei disegni che avevamo spedito. Messo a punto il contratto, in tempi strettissimi avremmo dovuto procedere con la progettazione e concludere gli elaborati esecutivi. Quello che seguì fu un iter di lavoro artistico svolto, passo dopo passo, con i tecnici dell’azienda. La moquette fu concepita in tre varianti di colori, utilizzando soluzioni e macchine di nuovissima generazione che permettevano di produrre un “contract” di alta gamma per alberghi e uffici open space, navi e aeroporti, grandi ambienti arredati. Per l’Europa e il resto del mondo. Si affacciava sul mercato un nuovo concetto di vendita che evitava il magazzino di stoccaggio. Come al solito mio fratello Daniele aveva colto nel segno. Non avevamo vinto il concorso, non avevamo esposto a Milano a fianco dei nostri colleghi italiani. Ma a differenza loro, che non videro realizzato alcun lavoro, noi potevamo sfogliare il lussuoso catalogo cartonato, interamente a colori, nel quale la nostra moquette compariva nella sezione Design, a fianco di firme prestigiose come Ricardo Bofill o Ettore Sottsass.

Questa storia, nella sua semplicità, dimostra che non sempre il progetto vincitore di un concorso, magnificato in una mostra o in un convegno, celebrato dalle grandi riviste internazionali, lodato da tanti ammiratori, è davvero convincente da trovare un suo riscontro produttivo o d’uso. Dopotutto, il design, quello creato a favore della gente e non solo del marketing ad effetto, è una sintesi che assomma prerogative tecniche, funzionali, economiche, estetiche, riguardanti oggetti prodotti in serie per l’industria e per la vita. Ecco perché a partire da quei primi anni di professione giovanile, piena di fiducia e aspettative, con Daniele ho continuato a lavorare con grande serietà, evitando in progettazione personalismi e boutade. Sempre ridendo, scherzando, bevendo caffè. Sedevamo in poltrona, lui fumando l’immancabile sigaretta. Ogni volta col minimale incantamento di realizzare qualcosa che solo apparentemente il caso ci aveva concesso. Nulla esigendo da nessuno. E questo fino al suo ultimo respiro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay 

 

Le mosche cocchiere, che come capitan di vaglia spingono i soldati alla battaglia

di Sergio Bertolami

Leggi tranquillo, non sto parlando di te. Questo è lo slogan che dovrei adoperare dopo avere scritto un pezzo su Experiences o un post su Facebook o WhatsApp. Non ti agitare, rilassati. Soprattutto impara a sorridere. Anni fa, per fare un esempio, scrissi che ognuno di noi ha come un angelo custode che si chiama fortuna. All’epoca, la mia fortuna era sonnacchiosa e pigra, mentre gli altri potevano contare su fortune sveglie, attive, scattanti. Un collega di lavoro all’improvviso mise il broncio, credendo che parlassi di lui. Questo soltanto per aver letto che avevo ripreso la personificazione della fortuna da un racconto della tradizione popolare calabrese e lui era proprio calabrese. Mi venne facile, allora, appianare l’equivoco; ma oggi con centinaia di lettori che si offendono, che si pungono e ti pungono, come fare? Capita con le zanzare. Non di zanzare, però, vorrei parlarvi, ma di mosche. Colgo, dunque, un gustoso episodio raccontato su WhatsApp dal mio amico prof. Cosimo Inferrera.

«Quel luglio 1943 fu assai difficile. Avevo poco più di cinque anni. Gli alleati sbarcando a Giardini spararono cannonate sulle colline dietro Calatabiano, dove durante l’emergenza dello sbarco ci eravamo rifugiati. Ci fu molta incertezza su ciò che avremmo potuto subire… Rotto il fronte a Gela, parte degli italiani smisero la divisa e si imboscarono. I tedeschi, da soli indietreggiando commisero atrocità e fucilazioni. Tutti ben noti, purtroppo. Nessuno poteva immaginare cosa avrebbero combinato gli anglo-americani, entrando. In effetti non fecero violenze… tranne qualche ceffone a chi faceva contrabbando. Fu a questo punto che si presentò sulla scena, un uomo di mezza età, aitante, ricco di favella e manieroso, accampando amicizie e benevolenza presso l’Amcot. Tale “Settitrummi” (Sette trombe) si chiamava, di nome o soprannome (non so) e si dette molto da fare per tranquillizzare la nostra famiglia. I miei vecchi, il nonno Cosimo paziente come il ragno e lo zio Corradino fervente socialista, Commissario al Comune di Calatabiano nei mesi critici del dopo guerra, lo inquadrarono subito: “Nenti, na musca cucchiera!”, cioè un bluff. Questo lo capii dopo. La mosca, dissero, si intrufola ovunque. Certe volte si poggia sul crine di un possente cavallo e volgendosi indietro dà a vedere e si illude di governare “u gnuri”. Il cocchiere e la carrozza su cui viaggiano signore e personaggi importanti… A un certo punto però arriva il colpo di frusta che fa svanire l’illusione… E la mosca ritorna mosca».

Vi siete mai soffermati a pensare quando avete imparato un’espressione e quando avete maturato il suo significato? Avete mai incontrato delle “mosche cocchiere”? Avete mai domandato loro: con quale pretesa potete arrogarvi il diritto di dire a qualcuno cosa debba o non debba fare, senza avere alcuna forza o potere di negoziazione? E questo vale, ancor di più, quando ci rivolgiamo alle Istituzioni.

Fabula merito deridet eum qui sine imperio vanas exercet minas, la favola deride a ragione, colui che senza averne il potere pronuncia vane minacce. Da questa massima latina scopriamo, quindi, che già nella Roma dei suoi tempi (cioè nella prima metà del 1° secolo d.C.) Fedro spronava a rendersi conto che prima di parlare occorre accertarsi di contare davvero qualcosa, anziché superbamente presumerlo. Questo concetto – oggi valido più che mai – risale addirittura a molto tempo prima, dal momento che Fedro si ispirò a una favola di Esòpo, vissuto presumibilmente tra il 7°e 6° secolo a.C.

La favola di Fedro e di Esòpo racconta di una mula che a fatica trainava un carro, quando sul timone venne a posarsi una mosca, che prese a rimbrottarla: «Come sei lenta, perché non ti muovi più in fretta, bada che non ti punzecchi il collo col mio pungiglione». Senza neppure scomporsi la mula rispose: «Delle tue minacce me ne sto infischiando, temo piuttosto, costui che seduto a cassetta mi tiene al giogo a colpi di frusta, e mi frena col morso alla bocca su cui sto sbavando. Perciò, smettila con questa tua sciocca arroganza. So bene io quando prendermela comoda e quando, invece, mettermi a correre». La Mosca e la mula, questo è il titolo con cui la favola è stata tramandata e ripresa in varie versioni. La più nota è quella narrata da Jean de La Fontaine nelle sue Favole del 1669: Le Coche et la Mouche.

«Per una strada in salita, erta e sabbiosa, esposta da ogni lato al sole, sei robusti cavalli trainavano a stento una Carrozza. I viaggiatori per alleggerirla erano scesi: le signore, un monaco, alcuni anziani. I cavalli sudati e trafelati stavano quasi per cedere… quando una Mosca si avvicinò ai cavalli, fingendo di animarli col suo ronzio, punzecchiando ora l’uno ora l’altro, e pensando che toccasse a lei spingere quel veicolo grosso e traballante. Si posò sul timone, sul naso del cocchiere. Appena si accorse che la Carrozza, bene o male, si era mossa e che i passeggeri erano in cammino, si prese lei soltanto la gloria e, andando e venendo, si riempiva di boria come un capitan di vaglia (di valore) che incita i soldati alla battaglia. La mosca senza tregua spingeva per fare avanzare la sua gente e affrettare la vittoria. Ma si lamentava che, in questo frangente, a spingere fosse da sola, che a lei sola toccassero tutte le cure, mentre nessuno aiutava i cavalli a uscire dai guai. Non lo faceva il monaco che leggeva il breviario prendendosi il suo tempo! Nel mentre una donna gorgheggiava. Era forse quello il momento di mettersi a cantare? Così Madame Mouche andava, qui e là, a ronzare nelle loro orecchie e faceva mille cose sciocche come questa. Dopo tanto lavoro la Carrozza arrivò in cima alla collina. “Respiriamo finalmente – disse subito la Mosca – Ho fatto tanto per questa brava gente che ora è sul pianoro. Pertanto, signori cavalli, ringraziatemi del mio disturbo”. Così fanno certi faccendoni, che s’intrufolano nei problemi da sembrare sempre necessari. E in ogni cosa risultano sgraditi da dovere essere cacciati».

Jean de La Fontaine non fa giri di parole su tali mosche cocchiere inopportune, smodate, noiose. Ognuno di noi le conosce. Solo loro pensano di poter nascondere facilmente le proprie manie di grandezza. Basterebbe che considerassero semplicemente di non dire ad alta voce ciò che più o meno tutti, nel loro intimo, pensano di sé stessi. Giusto o sbagliato. Solo che la maggior parte di persone, nel timore di eccedere, si frena per non uscire dalle righe. Diceva bene Arthur Schnitzler, che con Sigmund Freud andava a braccetto: «Ciò che ci sembra mania di grandezza non sempre è un disturbo psichico: spesso è soltanto il comodo mascheramento di una persona che dispera di sé».

IMMAGINE DI APERTURA Gravure réalisée par René Gaillard d’après un dessin de Jean-Baptiste Oudry représentant la fable Le coche et la mouche de Jean de La Fontaine (fable 8 du livre VII). Cette gravure est parue dans l’édition complète des fables de La Fontaine, parue en quatre tomes chez l’éditeur Desaint & Saillant, rue saint Jean de Beauvais à Paris, 1755-1759.

 

L’attraversamento dello Stretto? Come l’amore ai tempi del colera

di Sergio Bertolami

Vi prego, non guardate il dito, godetevi la luna, perché dell’attraversamento dello Stretto ho già scritto, ma vale tornarci con qualche esempio divertente. Tra i miei amici qualcuno non vuole sentire affatto parlare di ponte. C’è chi ha messo in rilievo quanta polvere solleverebbero in città i movimenti di terra fatti in cantiere. Un altro ha posto la questione sull’intasamento del traffico, a causa dei camion che avanti e indietro trasporteranno materiali edili. Avessero evidenziato che nello Stretto c’è una faglia, in verità, mi sarei preoccupato di più. Ho anche altri amici che, a differenza dei primi, difendono a spada tratta il progetto del ponte a campata unica, battezzato nel 1971. Il prossimo anno ricorreranno cinquant’anni. I primi mi fanno pensare a chi – pur liberissimo di non volere usare il televisore perché a suo dire trasmetterebbe pessimi programmi – pretende di vietarne l’uso ai familiari e pure agli estranei. I secondi assomigliano a chi vorrebbe continuare ad accomodare il vecchio televisore, perché era un modello di ottima tecnologia italiana. Dopotutto in salotto fa ancora bella mostra di sé. Occorrerebbe solo trovare un tecnico preparato che seduta stante sostituisse le valvole. Forse bisognerebbe reperire proprio le valvole, ma su Amazon può darsi che si trovino ancora.

Ho anche un terzo gruppo di amici. Sostengono, che si potrebbe raggiungere all’angolo il centro commerciale e comprare un apparecchio di ultima generazione: magari Ultra-HD e con schermo OLED. In altre parole, per attraversare lo Stretto, amerebbero una nuova soluzione, come per esempio un tunnel. Fino a ieri, quando ne parlavano, tutti pensavano a degli sprovveduti, perché pescano un’idea solennemente bocciata, altro che nuova! Bocciata da chi? «Nel 1969 c’è stato un concorso!», mi fanno notare gli oppositori. Sono stati presentati 143 progetti: 45 ponti a una o più campate; 9 soluzioni di tunnel; 21 proposte fra ponti galleggianti, istmi, dighe o altro ancora. Rispondo: come al festival di Sanremo, uno solo è il vincitore. Gli altri sono tutti esclusi, salvo ad avere comunque successo. Nel nostro caso, il progetto vincitore è il ponte più lungo del mondo, già pronto per il cantiere. Petrolini diceva: «Ti voglio portare a vedere il cantiere… stavano tutti zitti… non cantava nessuno…». Anche questa canzone da festival non la canta nessuno. Da cinquant’anni ne intonano semplicemente il ritornello. Solo che l’innamorato della canzone ora ha cinquant’anni di più. Ma chi se lo sposa uno con cinquant’anni di più. «Ma non l’hai letto L’amore ai tempi del Colera?», mi ha ripreso un’amica. Del Coronavirus! Ho replicato. «Ma no, il romanzo di Gabriel García Márquez, che racconta i lunghi patimenti di Florentino per la bella Fermina. Ultrasettantenni coroneranno infine il loro sogno d’amore».

Macché, il problema è politico! Le ho ribattuto; usando i termini degli accaniti sostenitori del ponte sospeso. Politico, piuttosto, come l’amore tra il rampollo Montecchi e la quattordicenne Capuleti! Che ora comunque di anni ne conterebbe sessantaquattro. Tuttavia, la storia di William Shakespeare finisce male. Così paventano i miei amici, perché questa scelta del Governo di fare il tunnel è una presa in giro. Gridano: il ponte non si farà! E non si farà neppure il tunnel… e i soldi andranno al Nord. Che non si faccia niente di niente, invero, lo teme anche Gian Antonio Stella, grande stella del Corrierone della Sera che ha rispolverato un divertente fumetto della Disney con Zio Paperone, Paperino, Qui, Quo e Qua, alle prese 38 anni fa con un bislacco scienziato. Indovinate chi è lo scienziato. Uno dei miei svariati amici. Di lui oggi tutti parlano perché ha proposto il tunnel nello Stretto. Vi assicuro, in coscienza, che lo scienziato in questione non è bislacco; è uno che studia, che scrive e partecipa a convegni in tutta Italia. Lui, ai mugugni ora diventati insulti, da gran signore risponde: vivaddio c’è qualcuno che legge! Al MIT (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per chi non ama le sigle) hanno esaminato le sue relazioni e lo hanno chiamato. Ditemi voi: al gran ballo di Corte tutti vorrebbero appioppare la propria pulzella al principe, ma lui sceglie che sia vostra figlia a calzare la scarpetta di vetro. Sai che invidia generale! Che bile!

Ora, dico io, il grande Gian Antonio Stella avrebbe potuto prendere il telefono e chiamare lo scienziato, ma ha fatto prima a digitare su Google e ripescare il fumetto di zio Paperone. Dopotutto siamo ad agosto e un po’ d’ironia non guasta. Il servizio migliore l’ha prestato, però, Tirreno Sat, televisione di Milazzo, ricorrendo una videoconferenza. Ha dato la parola allo scienziato. Questo non lo hanno fatto mica i giornaloni e giornalini italiani. I giornalini hanno preferito la smaccata irrisione. Rimane il fatto che il telefono lo potevano usare tutti. Vale per i giornalettisti e vale anche per gli altri scienziati scartati dalla kermesse: se il principe non ti ha neppure chiamato al gran ballo di Corte, telefona tu. Perciò, tu che sei un ordinario professore, uno straordinario giureconsulto, un emulo di Pico De Paperis, raccogli le carte che fino ad oggi hai prodotto e vai a Roma. Sarebbe stato meglio raccoglierle prima, ma forse fino ad ottobre potresti recuperare il debito formativo.

Ci sarebbe molto da aggiungere, ma vorrei concludere con due sole osservazioni. La prima: mi hanno proprio convinto tutte le celebrità chiamate ad avvalorare che quel ponte di 3300 metri si tiene in piedi, non svirgola al vento, ci passano sopra non solo le auto ma pure i treni (anche se le ferrovie non si sono ancora espresse) … e così via. Nondimeno, umilmente chiedo: se dovete rilasciare un certificato di “sana e robusta costituzione” a uno che non ha neppure un cenno d’influenza che bisogno c’è di fare consulti con le stelle del firmamento? Non sarà come col Coronavirus, quando tanti luminari istituzionali dicevano che potevamo dormire su sette cuscini? Seconda osservazione: uno scienziato elettrotecnico, che ha passato la vita nelle ferrovie, ne saprà qualcosina di treni, così da immaginare che possono passare attraversando una galleria? No! A lui non compete immaginare, né tantomeno scrivere o parlare! Per illuminare ci sono i luminari! Guai a far rimarcare che oggi si lavora in squadra e pure il mio iPhone (non so il vostro) non lo ha progettato Steve Jobs, ma i suoi ingegneri elettronici, i suoi designer dentro e fuori della Apple, i produttori di materiali e tecnologie d’avanguardia dentro e fuori dagli USA.

Per cui, quando mi parlano di opportunità (e me ne parlano senza retorica) ricordo sempre la storia vera di un giovanotto che aveva il padre funzionario delle ferrovie a Roccalumera. Lui studiava per geometra allo Jaci di Messina. S’è diplomato e per buona parte della vita è stato un dipendente del Genio Civile (a Reggio Calabria, a Imperia, a Genova, a Cagliari). Il geometra però studiava, studiava. Non per fare l’ingegnere, ma per tradurre (pensate un po’) i classici greci e latini. Alla fine, in quel di Stoccolma (che si trova in Svezia e non in Sicilia) si sono accorti di lui e gli hanno conferito il premio Nobel per la letteratura. Correva l’anno 1959 e quel giovanotto si chiamava Salvatore Quasimodo. Ma in questo caso si tratta di letteratura e i miti dello Stretto son fatti salvi.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Mohamed Hassan da Pixabay  

A proposito di ponte sullo Stretto, di tunnel, o niente di niente

di Sergio Bertolami

Nel medioevo, mentre i preti elevavano lodi al Signore e la folla pregava, i costruttori innalzavano cattedrali. Il mio interesse è rivolto a questi ultimi. Loro non si fermavano alle parole, né tantomeno alla tradizione consolidata. Con giudizio prendevano dalla tradizione e la innovavano. Se si fossero fermati al millenario arco a tutto sesto non avrebbero mai immaginato l’arco a sesto acuto. Se avessero continuato a tracciare su di un foglio un semicerchio, puntando il compasso su di un solo centro, l’architettura romanica sarebbe giunta immutata ai nostri giorni. Invece quei costruttori si accorsero che, doppiando i semicerchi, l’intersezione dei due segmenti d’arco originava una forma nuova, appuntita, lanceolata, svettante. L’idea non rimase sulla carta e passarono alla pratica. Fu allora che la distanza fra le colonne portanti diminuì e i carichi murari furono più equamente distribuiti. Le cattedrali crebbero in altezza e le preghiere degli uomini si avvicinarono a Dio, un tantino di più. Il miracolo si avverò. Fu un miracolo della scienza costruttiva. Un miracolo umano, condiviso fra le comunità. Non fu la conquista di un’archistar, perché i nomi di molti fra quei costruttori non sono statti neppure incisi sulle pietre, né tantomeno riportati sui codici miniati. Si sono dissolti nel tempo. Occorreva, però, fare proprio quel miracolo. Chi conosce la storia dei tre tagliapietre mi può comprendere. Un pellegrino, passando vicino a un cantiere edile, s’imbatté in un operaio tutto sudato che, nel segare pietre, imprecava per la fatica. Gli domandò cosa stesse facendo e quello rispose scortese: «Non lo vedi? Mi rompo le ossa». Proseguendo il pellegrino rivolse la stessa domanda ad un secondo operaio, che sbozzava conci con mazza e scalpello. Fiducioso rispose: «Mi sto guadagnando da vivere, per me e per la mia famiglia». Fu un terzo scalpellino a sorprendere il viandante quando, alzandosi da terra, si asciugò il sudore e mostrandogli i lavori già avanzati rispose lietamente: «Sto lavorando alla costruzione di una cattedrale». Come si vede, i tre uomini facevano tutti lo stesso umile mestiere, faticoso, muscolare, bruciati dal sole in estate e inzaccherati dalla fanghiglia d’inverno. Ciò che cambiava era il loro modo di guardare il mondo. Il primo mosso da un senso di rifiuto. Il secondo sopportava un destino apparentemente immutabile. Solo l’ultimo esprimeva il senso della comunità, consapevole che ciascuno, grazie al proprio ruolo, partecipa a una costruzione collettiva.

Sono atteggiamenti che in questi giorni vedo fra amici e conoscenti a proposito della questione sull’attraversamento dello Stretto. C’è chi non vuole sentire parlare di ponte e chi, al contrario, si arrocca in difesa di un progetto vecchio di cinquant’anni e ripetutamente stracciato. Ho un terzo gruppo di amici, al quale per la verità mi sento di far parte. Questi miei amici hanno fatto notare che una terza via esiste. Per attraversare stabilmente lo Stretto propongono la soluzione tunnel. Ma guai a parlarne. Siamo ricoperti di improperi aberranti.
Ora che esponenti del governo e in prima persona il presidente del Consiglio hanno rilasciato dichiarazioni proprio a favore del tunnel, sia gli sfavorevoli al ponte e sia i favorevoli (anche quelli dell’ultimo minuto, perché dicono che solo i cretini non cambiano mai parere) si sentono due volte turlupinati. In primo luogo, perché temono di vedere sfumare, in modo definitivo, l’effetto delle proprie convinzioni. In secondo luogo, perché nessuno li ha mai interpellati: loro, che nei capitoli delle cattedrali sono ripetutamente entrati, usciti, rientrati.
Noi, invece, abbiamo sempre lavorato nei cantieri. Come Ingegneri o architetti, oppure come umili operai. A vario titolo abbiamo disegnato carte o cavato pietre e scalpellato conci, elevato ponteggi e trasportato materiali ogni giorno più in alto, dove sembra che il lavoro non debba mai concludersi. Noi, che lavorando, a fine giornata, non abbiamo fiato per “banniare” nella piazza del mercato dove si fanno gli affari o nelle sale del capitolo dove si decide a chi va il cucchiaio di minestra. Bene! Noi oggi siamo contenti se qualcuno fra i nostri amici ha potuto mostrare le “sudate carte” al Governo per discutere le idee elaborate. Ora forse serviranno a portare avanti i lavori del cantiere comune. Sono idee esposte ripetutamente in pubblico. Nobili e clero, a suo tempo, le hanno con sufficienza ascoltate. Oggi gridano alla catastrofe, mentre fingono di elevare lodi al Signore e la folla inconsapevole continua a pregare. Noi, costruttori o spaccapietre, proseguiamo invece a disegnare e sperimentare archi di forma diversa da applicare nelle opere di cantiere. Per il bene comune. Senza infingimenti. Con coraggio, perché «bisogna avere il coraggio di pensare che durante la propria vita si è costruita una cattedrale. Sì, tale pensiero richiede coraggio» (Pierre Jean Jouve, En mirroir).

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica del video presentato dal Corriere della Sera sul web riguardante 4 minuti stralciati dalla relazione dell’ing. Giovanni Saccà al convegno “Le macroregioni europee del Mediterraneo e l’area dello Stretto”. In questi giorni molti quotidiani italiani stanno prendendo innumerevoli documenti dal nostro sito Experiences.it, senza chiedere permessi e senza neppure citare la fonte. Non ci pare un buon costume.

Quando rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato

di Sergio Bertolami

Un giorno il professore Giancarlo De Carlo mi disse che quando gli architetti passeranno dalla parte della gente, la gente difenderà l’architettura. Forse è per questo che misuriamo lo scollamento esistente. Da parte mia, ancora oggi, rileggo con ammirazione le lezioni di Architettura pratica di Daniele Donghi, che fra il 1905 e il 1935 pubblicò i dieci fondamentali volumi del Manuale dell’architetto. Pochi colleghi ne hanno scorso le pagine, la cui lettura al contrario contribuirebbe a comprendere l’eclettismo delle nostre città. Come Messina, ad esempio, ricostruita dopo la furia del sisma del 1908. Non conoscere questi dieci volumi è un vuoto culturale non indifferente, che si riflette sul restauro delle opere del primo Novecento.

C’è chi parla della poesia che suscitano gli edifici del passato, intendendo quelli giunti almeno fino agli albori del Movimento moderno. Io vorrei aggiungere una personale annotazione su certi momenti in cui resto irretito da un dialogo con le pietre mute.  Come quello del giovane e disilluso Le Corbusier, nel corso del suo Voyage d’Orient, davanti al Partenone, quando considerava: «Chi fa dell’architettura e si trova – il cervello vuoto, il cuore spezzato dal dubbio – davanti a questo compito di dovere dare forma vitale ad una materia morta, capirà la tristezza malinconica dei soliloqui tra questi resti, del mio freddo intrattenermi con le mute pietre».

A riprova vorrei raccontare una storia mia. Qualche anno fa, di primo pomeriggio mi reco in cantiere, ma non vi trovo nessuno. Tutto sprangato. Mando un messaggio col cellulare dove, come direttore dei lavori, chiedo spiegazioni all’impresa, ma non attendo più di tanto la risposta. Ho le chiavi ed entro. Risalgo il ponteggio fino all’ultimo livello d’impalcato e percorro in lungo e largo l’intera volta. Nel silenzio irreale ammiro le tempere sapienti, le lumeggiature e le ombreggiature delle decorazioni, il disegnarsi delle modanature. Rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato: con l’architetto che ha progettato quel capolavoro, con le maestranze che l’hanno realizzato. Ogni segno murario – un dentello, una fusarola, sia pure un ritocco o una scalfittura – è un’allocuzione che voglio recepire. Una meraviglia indescrivibile e questo perché, inaspettatamente, sto vivendo un momento magico. Non avviene quasi mai, giacché quando arrivo in cantiere ognuno preme per mostrarmi il suo lavoro, per chiedere un consiglio, per domandare spiegazioni su di un dettaglio di progetto. Io ascolto tutti, rispondo a tutti.

Dopo circa un’ora, comprendo finalmente che è venerdì di fine mese e che ho accordato di chiudere il cantiere in anticipo, per consentire ai lavoratori fuori provincia di rientrare prima in famiglia. Mi accorgo, inoltre, che il cellulare era rimasto in auto, ecco perché per tutto il tempo passato in solitudine nessuno ha chiamato. Trovo una quantità di telefonate. Molte sono degli operai preoccupati che mi sia avventurato sul ponteggio da solo. Li ho ringraziati tutti, ma non ho avuto il coraggio di dire loro che non ero affatto solo, ma in compagnia di certi fantasmi che vi parlano quando rimanete al cospetto della vera architettura. Voi probabilmente non lo avvertite, ma c’è sempre la possibilità di colloquiare con quelle pietre, solo apparentemente mute. Fanno capire il legame imprescindibile che esiste tra vita e architettura, tra passato e presente, come dire, fra tangibile e intangibile.

IMMAGINE DI APERTURA – Quaderno di schizzi di Villard de Honnecourt, circa 1230 (Fonte Wikipedia)

Se sai usarlo, anche WhatsApp è strumento di cultura

di Sergio Bertolami

Capita sempre più spesso che qualcuno mi chieda d’iscrivermi a uno dei gruppi nati sui social che vanno per la maggiore. Le relazioni oggi iniziano e si sviluppano, non più in una piazza cittadina, ma su WhatsApp, Facebook o Twitter. Da principio si mantengono gli assunti di base che hanno portato a costituire il gruppo, ma quando i componenti superano il “numero di Dunbar” la coesione comincia a incrinarsi. L’antropologo Robin Dunbar è attualmente alla guida di un team di ricerca sulle neuroscienze sociali ed evolutive dell’Università di Oxford. Il numero massimo di persone, che non bisognerebbe oltrepassare per mantenere relazioni stabili, è stato da lui fissato intorno ad una media di 150. Fino a cento contatti siamo ancora nell’ambito delle conoscenze private, superata questa soglia ci troviamo fra persone con le quali intratteniamo rapporti di lavoro; ancora oltre i rapporti divengono saltuari e occasionali. Questo, a mio avviso, può spiegare, in qualche modo, perché nei social network i gruppi numerosi possono diventare stucchevoli e irritanti. I componenti si conoscono sempre meno fra di loro e finiscono col non conoscersi affatto. Si accresce, pertanto, quella sorta di promozione personale che arriva all’esibizionismo: sopportarli è il prezzo da pagare se si vuole continuare a rimanere nel gruppo. Un prezzo che tuttavia potrebbe essere, sempre e comunque, vantaggioso.

Mi faceva notare un’amica che ognuno di noi legge in virtù delle proprie conoscenze. Alcuni tendono a percepire più di quanto è espresso in un testo, poiché attivano confronti e relazioni. Per altri può valere esattamente l’opposto, cioè non capiscono nulla di quanto leggono oppure tendono a travisarlo. Naturalmente questo vale pure per i social, anche perché queste letture sono colte al volo mentre si svolgono mille faccende. Nondimeno sono convinto che, se sai usarli bene, anche i social potrebbero essere strumenti di cultura. Infatti, nei giorni scorsi mi sono reso conto, in modo ancora più tangibile, che la cultura non è semplicemente il complesso delle conoscenze che abbiamo appreso attraverso lo studio e l’esperienza, ma anche la ricerca continua di allargare i propri limitati confini o il rielaborare quanto credevamo acquisito. Mi è bastato leggere in un post l’espressione “Sic est” per richiamare alla memoria un’affermazione di Seneca ben più incisiva. “Sic est, non muto sententiam”, che tradotto suona “è così, non cambio opinione”. Di primo acchito avrei postato l’espressione latina così com’era; ma ho pensato che sarebbe passata come una superflua e banale ostentazione linguistica. Tuttavia, ripescare nel mio passato, dal Libro I, la Lettera Decima che Seneca scrive al suo amico Lucilio è stata per me una letizia inaspettata. Lo dico col sorriso sulle labbra, perché vi assicuro che è insistente in me il desiderio di abbandonare specialmente WhatsApp, con tutti quei post di condiscendenze esagerate e ostentate, condivisioni, réclame autoreferenziali, idee fisse e ripetitive che qualcuno ha opportunamente definito pandemiche.

La lettera di Seneca parla vivaddio del valore che ha la solitudine. «Rifuggi dalla moltitudine, dai pochi, persino da uno solo», consiglia il filosofo all’amico. E gli racconta di quando Cratete di Tebe – nel suo vagare come un cane randagio, perché per lui la casa e la città si trovavano in ogni punto dell’universo – incontrò un ragazzo che se ne stava in disparte. Gli domandò cosa facesse lì tutto solo. «Parlo con me stesso», fu la risposta. E Cratete ribatté: «Fa’ molta attenzione, stai parlando con un cattivo individuo». Ognuno di noi sa bene che sovente chi si isola dagli altri rimugina pensieri tristi e melanconici. Solitamente, chiarisce Seneca, teniamo d’occhio chi è in preda al dolore e alla paura, perché non faccia uso cattivo della solitudine. Se è dissennato è bene che non sia lasciato solo con sé stesso: ora rimugina brutti propositi, ora manifesta sentimenti che prima nascondeva. Eppure, spiega Seneca a Lucilio, «non c’è nessuno con cui vorrei che tu avessi rapporti se non con te stesso». Oso addirittura affidarti proprio a te stesso. Vedi come ti stimo? Ripenso a quanta forza d’animo esprimi nelle tue parole; per questo mi sono subito rallegrato fra me e me e ho detto: «Queste frasi nascono dal cuore, non dalle labbra; costui non è uno dei tanti, mira al bene». E quale bene, Lucilio, bisognerebbe chiedere a Dio? «Chiedi l’integrità della mente, la salute dell’anima e infine quella del corpo».

Probabilmente nessuno si è curato di tradurre il testo originale latino che ho inserito su WhatsApp e che ora ho sintetizzato. Con certezza so che una sola persona del gruppo ha scoperto che si trattava di Seneca. Spesso metto alla prova i miei interlocutori con una sorta di esercizi iniziatici, ai quali sottopongo per primo me stesso. Esercizi di concentrazione e di riflessione. In questo caso occorreva che, spontaneamente, qualcuno manifestasse la volontà di scoprire l’autore e quale messaggio volesse trasmettere. Non ho messo nel mio post l’ultima parte della lettera. Era mio desiderio che il lettore scoprisse il “piccolo dono” che Seneca spedisce al suo amico Lucilio. Lo ha trovato nelle pagine di Atenodoro. «Sappi che sarai libero da ogni passione, quando arriverai al punto di chiedere a Dio solo ciò che puoi chiedere davanti a tutti». Invece, come sono stolti gli uomini, commenta Seneca: quando parlano a Dio gli si rivolgono sottovoce; se qualcuno li ascolta, tacciono, e quello che non vogliono che gli uomini sappiano lo raccontano a Dio. «Vedi, dunque, se non è utile questo insegnamento: vivi in mezzo agli uomini come se Dio ti vedesse e parla con lui come se gli uomini ti udissero. Stammi bene». Amici miei, questi sono i messaggi che hanno oltrepassato la profondità del tempo. Non sono figurine trovate su Google.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Thomas Ulrich da Pixabay

WhatsApp? Facebook? Credetemi: è come incontrarsi nei vecchi bistrot di provincia

di Sergio Bertolami

Quando rifletto su quel che resta del giorno, mi sovviene il mio amico Camillo Marino che a Pier Paolo Pasolini confessava la «febbre che ti assale quando ti accorgi che la provincia rischia di strozzarti, di uccidere le tue migliori speranze». So cosa i due hanno fatto insieme (alla faccia dei piagnoni di provincia), ma ormai da tempo non posso più chiedere a Camillo cosa rispose Pasolini alla sua esternazione. Forse quello che rispose a Manlio Cancogni: «Quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più». A pensarci bene si potrebbe sempre cambiare treno, però. Si potrebbe raggiungere una stazione in cui passano le Freccerosse o le Freccebianche e provare a respirare aria nuova. Si potrebbe persino andare a vivere vicino a un aeroporto, anziché a una stazione, per stare con un piede a Parigi e con un altro a New York.

La realtà è però un’altra: molti lasciano la provincia, conservando il sogno di tornarci e finire qui il resto della vita. Quest’aria piccolo borghese della provincia, chiusa, condizionante sotto mille aspetti, che ti dà modo di lamentarti senza fare nient’altro di utile, pare calzare a pennello quando all’imbrunire vengono meno le inquietudini della gioventù e sembra appagante pure l’ambiente riparato di una stanza. È una fluttuazione tra claustrofobia e claustrofilia, tra l’oppressione dei luoghi angusti e il desiderio di stare appartati. Per alcuni, l’unica soluzione è isolarsi, come per Ireneo Funes in Borges, che può contare solo su di una prodigiosa memoria da quando la paralisi lo tiene chiuso nella sua camera. Oppure come Antoine Roquentin in Sartre, che perde goccia a goccia il suo passato di viaggiatore e rintanato in provincia continua a cenare al Ritrovo dei Ferrovieri e ad ascoltare sempre lo stesso disco: Some of These Days.

Accade così anche per molti personaggi nei romans-romans di George Simenon, quando descrive la sonnacchiosa provincia francese. Si ritrovano nei bistrot. Per la maggior parte quel rito segna la fine della giornata. Verso le cinque del pomeriggio il piccolo sarto Kachoudas va a bere uno o due bicchieri di bianco. Ci vanno anche il cappellaio Labbé e tanti altri. «La sala era gremita, c’era addirittura gente in piedi. I contadini più modesti si riunivano nei piccoli caffè attorno al mercato; lì invece venivano i più ricchi, o i più intraprendenti… Vicino alla Grosse Horloge, c’erano due caffè, dello stesso tipo del Café des Colonnes, con i soliti clienti che si facevano vedere a ore fisse e giocavano a carte, a tric trac o agli scacchi. Solo che non erano gli stessi gruppi: o si apparteneva all’uno o all’altro, e lui faceva parte di quello del Café des Colonnes».

A me, questi bistrot, ricordano molto i Social Network. I gruppi WhatsApp di oggi, con quel parlottio confuso e petulante. C’è uno che mi dà appuntamento su Instagram dove ogni sera terrà una diretta alle 23,30. Mi ricordano i gruppi che hanno scoperto i meeting con Skype, Zoom, Cisco. Quanti gruppi frequentate alla sera, smettendo col lavoro? Lo chiedo perché almeno, una volta, il signor Labbé s’infilava il pesante cappotto nero e uscendo ripeteva al commesso: «Chiuderà lei il negozio. Buonasera, Valentin». Ora, senza neppure muoversi dalla scrivania c’è chi colloquia in video con Massimo Cacciari. Come si fa a sottrarsi a tutto questo, mostrandosi sempre cortesi? Ho scritto a una amica, su Facebook (dove sennò?): «Cara Pina, grazie per la tua considerazione. Il fatto è che il mio impegno culturale non è più rivolto a Messina, se non marginalmente. È una città che non reagisce e mi piange il cuore, perché meriterebbe davvero quanto le persone dicono di amarla. Studio e scrivo in continuazione. Conto di pubblicare, ma molto rimarrà nel cassetto, perché mi pare che ben pochi siano affascinati da ciò che interessa me. Cosa? Leggere le fonti, spacchettarle, analizzarle. Sto diventando come Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di À rebours, il romanzo di Joris-Karl Huysmans. Io tuttavia non mi ritiro dalla società come fa Des Esseintes. Al contrario, vi partecipo col sorriso sulle labbra: annuisco alle buone intenzioni, incito a tradurle in realtà, ma oramai non credo che tutto ciò possa realizzarsi. Almeno in tempi brevi».

Questo vorrei rispondere a tutti. A tutti! A ben guardare la data, l’ho postato prima della pandemia ed ora lo confermo. A proposito di À rebours, Huysmans pensava di scrivere un libro ermetico che avrebbe stimolato solo una decina di persone, ma al contrario scoppiò come una granata. Non interessò affatto ad alcuni dei suoi illustri amici. Huysmans perse Zolà, ma conquistò Mallarmé e Valéry. Morto un papa se ne fa un altro.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Annalise Batista da Pixabay 

Walter Tobagi: “Presi nella frenesia di ogni giorno, rischiamo d’inciampare nella memoria corta”

A distanza di tempo questo articolo pare ancora di attualità per ricordare i principi che muovevano chi, un tempo, partecipava alla politica, senza tessera di partito ma con le idee chiare. Provate a leggerlo anche voi e capirete dalle stesse parole di Walter Tobagi – ucciso dalle Brigate Rosse la mattina del 28 maggio 1980 – perché oggi la sinistra italiana ed europea, annegata nell’ideologia, fatica a trovare il proprio orizzonte politico al quale puntare attraverso una mirata organizzazione, pianificazione e strategia.

di Sergio Bertolami

Non ci crederete se vi dico che rammento esattamente quelle immagini trasmesse dal telegiornale quarant’anni fa. La mattina del 28 maggio 1980, il corpo di Walter Tobagi riparato con pietà da un lenzuolo bianco. Riverso a terra, sul ciglio del marciapiede, l’ombrello ancora chiuso poco distante da lui. Non immaginavo, allora, che a quel giornalista assassinato dai terroristi a soli 33 anni, avrei legato una parte della mia vita. Per questo vorrei richiamarmi a qualcosa riguardante più i miei ricordi che Tobagi, giacché del professionista, dell’intellettuale, del sindacalista alla guida dell’Associazione della stampa lombarda, oggi le pagine dei giornali sono piene. Di mestizia, fra sincerità e convenzioni. Vorrei, semplicemente e modestamente, raccontare della dedizione con la quale ho, in qualche modo, contribuito a tenere viva la sua memoria.

Cominciamo dal primo degli episodi che mi si affollano in mente. Un aereo, volando sopra un mare di nuvole bianche, dalla Sicilia mi porta a Milano. Sono atteso, per rapporti di lavoro, da una società di consulenze immobiliari. Tutti in piedi, attorno al grande tavolo delle riunioni; saluti, scambio di convenevoli e brochure. Chi mi presenta accenna: l’architetto è persona impegnata non solo nella progettazione; a Messina ricopre il ruolo di presidente del Centro Culturale Walter Tobagi. I presenti rimangono stupiti, vogliono che spieghi loro come mai dei siciliani, a distanza di oltre un decennio, ricordino un giornalista del Corriere della Sera. Ho illustrato, in pochi tratti, la disciplina e il lavoro tenace di chi, come Walter Tobagi, sapeva mettere in pericolo un ottuso sogno rivoluzionario, demolendo solo con le parole i principi della lotta armata. Il suo era, a mio avviso, il modo di agire che poteva cambiare il mondo: all’interno delle istituzioni, modificando i difetti di un capitalismo dimentico di ogni umanità. Non ho parlato, in quella stanza piena di luce e manager, di Owen, Fourier, Saint-Simon, insomma delle utopie urbanistiche nel XIX secolo che sempre mi sono state a cuore. E non ho parlato neppure di politica. Ho taciuto di Gennaro Acquaviva, che un giorno decise di fondare una rete italiana di Centri Culturali intitolati a Walter Tobagi. S’ispiravano all’opera di quel giornalista, socialista di idee ma senza tessera, riformista, cattolico. Ho incontrato Acquaviva a Palermo, anni dopo. A un convegno politico. Anche lui sbigottì quando, nel corso della pausa caffè, mi presentai. Esisteva ancora in Italia un Centro Tobagi, dopo che uno tsunami aveva azzerato il PSI craxiano? Pranzammo insieme e mi vide come un segno del destino. Pochi giorni prima, a Roma, si era recato da un notaio per rimettere insieme i cocci di quella iniziativa anni-Novanta, fondata su di un programma didattico-culturale che realizzasse scuole di formazione politica. In un’epoca, che sembra appartenere ormai ad un’altra galassia, quella era la risposta socialista alle scuole di formazione politica d’ispirazione cattolica sostenute dalla grande cultura gesuita. Ogni parte metteva in campo il meglio di sé. I democristiani, Pintacuda e Sorge. I socialisti schieravano, quali professori di primordine, Giuliano Amato, Salvo Andò, Giorgio Benvenuto e persino un religioso come Gianni Baget Bozzo. L’idea di Gennaro Acquaviva era valorizzare il cattolicesimo sociale aggregandolo al riformismo liberal-socialista. Non era stato proprio lui che, nel 1984, aveva spinto Bettino Craxi al rinnovo della stipula del concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica?

I ricordi sono come una matriosca: s’infilano uno nell’altro. Ad Acquaviva non raccontai come mi sono ritrovato tra i fondatori dell’associazione che, in seconda battuta, avrei presieduto. Lo racconto a voi. Peppino Magistro, segretario del PSI a Messina, aveva colto col suo ineguagliabile e disinteressato intuito politico le potenzialità della proposta di Acquaviva. Mise insieme una lista di nomi e incluse anche me. Mi disse: chi meglio del direttore editoriale della rivista dell’Ordine degli Architetti di Messina può far parte di una associazione esterna al partito, impegnata nella cultura e nella politica, in grado di assumere posizioni autonome e autorevoli? Mi trovai così nell’elegante studio di un notaio, fra persone a me del tutto sconosciute o di cui avevo solo letto sulle cronache politiche della Gazzetta del Sud. Magistro aveva pensato bene di riunire le diverse anime della cultura progressista cittadina del tempo, giovani e meno giovani, professionisti impegnati. Persone che non parlavano seduti al bar dello sport, ma che la partita la giocavano in campo. Con un denominatore comune: essere fuori dal coro. «Alcuni nascono grandi», dice un personaggio di Shakespeare, «alcuni lo diventano, altri sono sorpresi dalla grandezza che è loro gettata sulle spalle». La grandezza era quella di Walter Tobagi, non certo la nostra che sottoscrivendo finalità e statuto assumevamo coscientemente un impegno. L’impegno era quello di sostenere azioni forti, esprimere e fare esprimere un pensiero pluralista, non ideologico, non condizionato e neppure condizionabile dai partiti. Me lo ha ripetuto fino alla fine il mio amico Magistro, lui così vicino a Nicola Capria che gli aveva chiesto di affiancarlo dopo avere lasciato le Acli di cui era stato presidente. Lui, Magistro, che sapeva coniugare quel cattolicesimo sociale e quel riformismo socialista ora rappresentati dal nascente Centro Tobagi. Nel metterci la firma mi chiedevo cosa avrei trovato in quel gruppo, che si richiamava agli ideali di Walter Tobagi.

Rispondo: vi ho trovato mille occasioni per rafforzare ciò in cui già credevo: che non c’è libertà nella povertà, che occorre combattere l’appiattimento sociale, lo sconforto che ti porta all’accettazione passiva delle idee ricorrenti del momento, che occorre concentrarsi su di una professione colta e lungimirante, sulle nuove tecnologie senza mai dimenticare i maestri del passato. Dalla sera in cui a Messina fondammo il Centro Culturale, ho cominciato a leggere quanto aveva scritto Tobagi e quanto su di lui è scritto. Tenere vive le memorie, questo è il nostro compito di uomini, ne sono convinto. Fare da cerniera tra passato e futuro. Per questo, se oggi mi imbatto in certe discussioni prive di sostanza, in cui si sbaglia in modo marchiano, preferisco ricordare a tutti di migliorare la capacità di ascolto. Come quando si parla di un elettorato popolare che sembra a molti sfuggire di mano. L’aveva, eccome, la capacità d’ascolto, Walter Tobagi. Giudicate voi: «C’è un vizio facile di trattare il “popolino”. La verità è che le sottili distinzioni ideologiche valgono in altri contesti sociali. Qui conta il richiamo di Bertolt Brecht: “Voi che volete insegnarci a vivere, ricordate che prima viene la bistecca e poi la morale”. E il voto è niente più che uno strumento, il mezzo di cui la povera gente si serve per dare corpo alle proprie speranze o per punire le promesse deluse». Non basta? Sentite: «Il segreto della nuova politica, meno ideologia e più concretezza, potrebbe essere questo: non promettere la luna, ma preoccuparsi dei bisogni della gente». E se qualcuno non lo ha capito ancora, non c’è proprio rimedio.

IMMAGINE DI APERTURA di BRRT da Pixabay (1645)

Musumeci sa cos’è l’identità siciliana, ma fa finta di non saperlo

di Sergio Bertolami

Nei giorni scorsi il Governatore Musumeci ha dichiarato di non sapere cosa sia l’identità siciliana, asserendo che nessuno lo sa. In verità, sarebbe bene che parlasse per sé. Vorrei però aiutarlo, per fargli scoprire che anche lui, sotto sotto, ne è consapevole, anche se preferisce non affrontare i termini autentici del dibattito. Richiamando alla memoria un po’ di storia, gli chiederei di pronunciare la parola “ciciri”. Ve la ricordate la guerra del Vespro? Quei terribili novant’anni occorsi per conquistare l’autonomia dagli Angioini? Quando i siciliani incontravano un sospetto, gli mostravano un pugno di ceci e gli chiedevano di pronunciare la parola “ciciri”. Se fosse stato un francese avrebbe risposto “sisiri”. Forse Musumeci non ha associato l’episodio al fatto che la lingua è uno dei tanti segni identitari ed è legata alla cultura di un popolo.

Non è immaginabile che Musumeci disconosca del tutto cosa sia l’identità, neppure nella sua accezione più ampia. Lo ha dimostrato egregiamente, dal momento che ha conferito ad Alberto Samonà la delega di “Assessore regionale ai Beni culturali e della Identità siciliana”. Scelta ineccepibile dal suo punto di vista, perché il neoassessore è sostenuto da una cultura di destra; ineccepibile soprattutto in quanto è persona che ha costruito la propria appartenenza politica attraverso un percorso identitario più vicino a quello del Governatore, piuttosto che a quello di Salvini. Che ora militi nella Lega Nord, poco importa. Poco importa, naturalmente per Musumeci!

Tuttavia, fuori da ogni fraintendimento, chi nei giorni scorsi ha sostenuto che Musumeci dovesse fare scelte differenti, a mio avviso, non capisce un cecio di pragmatismo politico, che prescinde dall’etica, dai sentimenti e dalle questioni di principio. Cercherò di spiegarlo a quanti, da posizioni di sinistra, mormorano per trovare ogni pretesto e screditare l’assessore fresco di nomina. L’unica vera caduta ideologica, Alberto Samonà l’ha commessa quando pur avendo brillantemente superato le “parlamentarie on line”, si è visto a suo dire estromesso dall’elenco dei candidati al Senato del M5 Stelle. È chiaro che neanche Samonà, in quel caso, aveva capito cosa fosse essere identitario ad un gruppo politico. Lui, con il suo veleggiare con la barra tutta a dritta, non era certo un timoniere affidabile agli occhi del capitano Di Maio. Ecco invece perché è stato accolto a braccia aperte nella Lega di Salvini, ed ecco perché ora il premio gli viene consegnato dalle mani di Musumeci, riconoscente agli alleati.

Per meglio esemplificare il concetto di identità, ricorro al “principio di non contraddizione” espresso da Aristotele. Vi prego di seguirmi. “A” non può essere “non A”, cioè B. Se disponiamo su di un tavolo delle mele verdi, l’unica mela rossa, capitata per caso in quell’insieme, non è una mela verde. Ciò non toglie che sia pur sempre una mela, ma anche un bambino capirebbe che è una mela di una differente qualità e quindi di differente gusto. Fuori di metafora, l’assessore Samonà, organico all’attuale governo regionale di destra, non è escluso a priori che possa dimostrarsi un intellettuale capace di espletare il compito affidatogli. La maggior parte dei lettori sa che è organico colui che sceglie da che parte stare. Quindi, salvo un breve momento di smarrimento pentastellato, l’assessore alla Cultura ha sempre scelto la sua parte politica a destra e svolgerà a destra il suo ruolo in virtù della propria scienza e coscienza.

Meravigliano però quanti, già da questa mattina, hanno ammainato i vessilli da combattimento issati nei giorni precedenti con tanta animosità: nella speranza, dicono, che l’assessore sappia valorizzare il patrimonio siciliano, espressione della identità isolana. Ciò che mi pare sia stato sottovalutato è un importante principio di ottica. Il principio della “polarizzazione per riflessione”. Mi spiego, abbiate pazienza. La luce (che permette di vedere ogni elemento naturale col suo proprio colore) può essere polarizzata anche in conseguenza di un fenomeno di riflessione. Se provate a guardare, anche semplicemente uno specchio d’acqua chiara, attraverso un filtro polarizzatore come sono degli occhiali da sole, la luce riflessa dalla superficie diventerà più forte o più debole ogni volta che si cambierà posizione. Ciò poiché, anche inconsapevolmente, si è fatto ruotare il filtro polarizzatore e quindi l’angolo di polarizzazione. I fisici lo chiamano angolo di Brewster.

Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l’assessore guarderà le problematiche col filtro polarizzatore della sua parte politica. Quindi anche le cose più chiare, come l’acqua, assumeranno una tonalità differente. Una tonalità che animerà la discussione e renderà complessa e articolata l’interazione politica. Perciò, chi fuori dai giochi si limita semplicemente a sperare e a chattare finirà col morire disperato, se non assumerà una coscienza politica costruttiva. Vale ricordare e comprendere da subito che, come diceva Nietzsche, «Non ci sono fatti ma solo interpretazioni».

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Mike Mike da Pixabay