Edvard Munch: il Fregio della vita con le sue gioie e i suoi dolori

di Sergio Bertolami

8 – Dal “Caso Munch” alla Secessione di Berlino.

Sul tracciato belga di Les XX (il gruppo dei Venti), nasce a Berlino il 5 febbraio 1892 il Vereinigung der XI (l’associazione degli Undici), da un’idea di Max Liebermann e Walter Leistikow. La chiamarono “Libera Associazione per l’Organizzazione di Mostre d’Arte”, perché se il modello imposto dalla pittura accademica doveva essere quello di un Anton von Werner o di un Wilhelm Bleibtreu – rappresentanti di primo piano del guglielminismo artistico, dal nome del Kaiser Guglielmo II – a chi differentemente orientato non rimaneva che istituire spazi alternativi e indipendenti. Non era facile, e la riprova si ebbe al Verein Bildender Künstler, l’associazione degli artisti berlinesi, con la personale di Edvard Munch inaugurata il 5 novembre del 1892 e chiusa in anticipo, per protesta della maggioranza dei soci, il 12 novembre. Una settimana di contrasti per quelle opere definite da artisti, pubblico e stampa “brutte e non finite”; critiche che da un giorno all’altro resero famoso il pittore norvegese. Sulla scia delle polemiche, il mercante d’arte Eduard Schulte propose la medesima mostra a Düsseldorf e a Colonia. A dicembre, poi, fu Munch stesso sempre a Berlino a organizzare una nuova esposizione, questa volta allʼEquitable-Palast, aggiungendo alle opere già esposte il Ritratto di August Strindberg, appena ultimato.

Il Fregio della vita esposto a Berlino

Edvard Munch, è nome conosciuto fra il grande pubblico, e, benché abbia lasciato oltre 1.000 quadri e più di 4.000 disegni, tutti lo ricordano per L’urlo del 1893. Pochissimi sanno, però, che questo dipinto è parte di una serie articolata di opere presentata in prima battuta nella capitale tedesca e intitolata Fregio della vita. Sarà questa sua iniziale mostra a innescare un dibattito talmente acceso da produrre uno scossone inaudito e avviare quella rimasta nella storia come la Secessione di Berlino. Il vento di un’arte libera e originale, distaccata dalle istituzioni accademiche e dai centri espositivi ufficiali, si diffonderà prima a Monaco nel 1892, poi a Vienna nel 1896, e infine a Berlino nel 1898. Una scissione che espanderà i suoi effetti in molteplici campi della cultura. Sarà, infatti, appoggiata dagli intellettuali più avanzati della Mitteleuropa e del Nord: dallo storico dell’arte Meier-Graefe (tedesco), dal poeta Przybyszewski (polacco), da drammaturghi come Strindberg (svedese) o Ibsen (norvegese), filosofi come Kierkegaard (danese), Schopenhauer e Nietzsche (tedeschi).
«Non mi sono mai divertito così tanto, è incredibile quanto una cosa innocente come un dipinto possa creare un simile trambusto». È il commento sarcastico di Edvard Munch, che guardava al Fregio della vita, come a una serie pittorica nella quale aveva espresso la personale visione del mondo e non certo come a una deflagrazione del conformismo. È lui stesso a spiegare, con modestia e semplicità: «Il Fregio è inteso come una sequenza di dipinti decorativi che, insieme, rappresentano un’immagine di vita. La sinuosa linea della costa li attraversa tutti, aldilà di essa vi è l’oceano, in perenne movimento, e sotto le cime degli alberi si snoda la vita multiforme, con le sue gioie e i suoi dolori». Questa sequenza di dipinti fu esposta, a partire dal 1902, in una dozzina di occasioni, suddivisa in quattro temi (uno per parete) intitolati dallo stesso Munch:

Seme dell’amore;

Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi, Danza sulla spiaggia, Il bacio, Madonna

Sviluppo e dissoluzione dell’amore;

Ceneri, Vampiro, La danza della vita, Gelosia, La donna, Malinconia

Angoscia;

Angoscia, Sera sul viale Karl Johan, Edera rossa, Golgota, L’urlo

Morte.

Il letto di morte, La morte nella stanza della malata, Odore di morte, Metabolismo. La vita e la morte, La madre morta e la bambina

A Berlino nel 1893 Munch ripresentò l’opera come “Studio per una serie” e per la prima volta ne espose i principi pittorici. In rapporto a questa mostra, a giugno del 1894, l’editore Fischer pubblicò la prima monografia sull’artista, con contributi, fra gli altri, di Stanisław Przybyszewski e Julius Meier-Graefe. La definizione “Studio per una serie” chiarisce che i dipinti non erano a sé stanti, ma consequenziali. Comparivano sulle pareti della sala come una successione di storie. Storie, da rintracciarsi nel percorso narrativo delle differenti mostre in cui i quadri furono esposti. Volta per volta, anche il numero dei dipinti fu differente, da un minimo di sei a un massimo di ventidue. Precisa Mai Britt Guleng sul catalogo della mostra del 2013, ospitata nella doppia sede del Museo Nazionale e del Museo Munch di Oslo, in occasione del 150° anniversario della nascita del celebre pittore (220 dipinti e 50 opere su carta): «Non un singolo quadro fece parte di tutte le dieci o dodici serie esposte tra il 1893 e il 1918. Forse ancora più sorprendente è il fatto che solo una limitata gamma di motivi vi fosse rappresentata – Il bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia e L’Urlo – ma con dipinti eseguiti in periodi diversi, con grandi disparità nello stile e nei tempi di composizione. Anche gli allestimenti erano diversi tra loro: i dipinti potevano essere collocati separatamente a un’altezza normale o appesi in alto appena sotto il livello del soffitto, incorniciati da un passepartout bianco a formare una sequenza continua. In altre parole, il “Fregio della vita”, al singolare, non è mai esistito. Si tratta piuttosto di una serie di immagini multiple, che individualmente creano una loro narrazione visiva».

Il volume, edito nel 2013 offre il catalogo illustrato di tutte le opere comprese nella mostra “Munch 150” alla National Gallery e al Munch Museum di Oslo, insieme a una ricca bibliografia completa e alla cronologia degli eventi più importanti della vita dell’artista

L’Aftenposen di Oslo, il maggiore quotidiano norvegese per diffusione, definì Munch «un artista allucinato e allo stesso tempo uno spirito cattivo che si prende gioco del pubblico e si burla della pittura come della vita umana». Nell’agosto 1908, la crisi psicofisica, di cui negli anni il pittore aveva avvertito i sintomi, tocca il culmine. Abuso di alcol, allucinazioni, mania di persecuzione e un principio di paralisi alle gambe lo spingono a farsi ricoverare. È il 3 ottobre 1908, quando entra nella clinica psichiatrica del neurologo Daniel Jacobson, da cui uscirà nel maggio 1909, ristabilitosi psichicamente e fisicamente. Così si dice. È certo però che lui stesso sia persuaso che “la malattia, la follia e la morte” presenti nella sua famiglia (e per riflesso nei suoi lavori) si trasmettano di generazione in generazione. Lo esprime pittoricamente con Lʼeredità. Tuttavia lo scrive anche di proprio pugno. Dove? Sul suo quadro più famoso, L’urlo. Questa sembra che sia la scoperta degli ultimi giorni. Sul cielo rosso una piccola nota, scritta a matita nell’angolo in alto a sinistra, critica aspramente: «Può essere stato dipinto solo da un pazzo». La prima volta che l’iscrizione è stata menzionata fu in occasione di una mostra a Copenaghen nel 1904, undici anni dopo che Munch dipinse l’opera. Sembrava lo sfregio di un visitatore. Oggi, con l’ausilio della tecnologia ad infrarossi utilizzata per analizzare la calligrafia e paragonarla a quella di lettere e diari, il Museo Nazionale della Norvegia conferma, al contrario di ogni immaginazione, l’autenticità autografa dell’artista.

L’urlo, 1893/1910, Galleria Nazionale, Oslo

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Il gusto fantastico e orrido di Ensor nella bottega di souvenir

di Sergio Bertolami

7 – Il Simbolismo in Belgio: James Ensor.

Dopo la maschera mondana di Fernand Khnopff ci soffermeremo su altre maschere, come quelle dipinte da James Ensor, simboli della solitudine piuttosto che dell’eleganza, dell’inquietudine, della crisi identitaria, metafore con le quali quest’altro grande maestro del Simbolismo belga ha coltivato un terreno fertile alle avanguardie del primo Novecento europeo. Le Maschere davanti alla morte (1888), la Sorpresa della maschera Wouse (1889), Maschere bizzarre (1892), sono queste tra le sue maschere più celebri. Chi conosce Ensor, anche solo di sfuggita, non lo confonderebbe mai con Khnopff. Il primo istintivo, vibrante, coloristicamente violento, il secondo levigato, affettato, allusivo. Evidentemente, non era dello stesso avviso Ensor, che giunse ad accusare Khnopff di plagio per un dipinto presentato nel 1886 in una esposizione del gruppo Les XX. L’opera in questione è Ascoltando Shumann (1883) dove la madre di Khnopff, seduta in poltrona, appoggia assorta il capo su di una mano. Solo il titolo allude alla musica di un pianoforte, che delle dita sulla tastiera stanno appena sfiorando, in un angolo del dipinto. Nella Musica russa, Ensor mette, invece, al centro della tela, la pianista che il padre del pittore sta ascoltando. L’idea del pianoforte rievocava la sua passione per la musica e gli suggeriva il ricordo di ciò che non poteva più essere. Per lui, che visse e concluse la vita a Ostenda, i ricordi erano necessari, quanto le opere dalle quali non riusciva a separarsi, quanto il proprio ambiente familiare.

Fernand Khnopff, Ascoltando Schumann, 1883
James Ensor, La Musica russa, 1883, Musée Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles

Come Fernand Khnopff scelse la sua villa, in questo stesso modo James Ensor rimase fedele alle proprie intime stanze. Nel 1880 installò lo studio nell’attico della casa dei genitori. Dalla finestra della camera da letto dipinse alcuni dei suoi grandi paesaggi. Nel soggiorno ambientò le scene dei suoi dipinti e, a loro volta, i suoi dipinti invenduti costituirono le decorazioni delle pareti della sua casa. Una “mise en abyme” con la quale duplicare la narrazione della propria esistenza. Basti immaginare che dopo il 1900, quando la sua espressività fenderà la fantasia del pubblico più colto, tornerà persino a copiare le composizioni più famose della sua arte. E poi c’era il negozio di famiglia, che per tradizione era occupata nel commercio di souvenir e di curiosità. Tutti i suoi parenti avevano negozi a Ostenda: i genitori, ma anche i nonni, gli zii e le zie. Vendevano cartoline, conchiglie, coralli, rane impagliate, sirene, ventagli, modellini di navi, cineserie, maschere. Sì, maschere, proprio maschere, che formeranno quell’universo di meraviglie al quale il pittore non vorrà mai sottrarsi. Non rappresentano, però, immagini allegre e facete. Lo compresero subito i venti artisti belgi che a Bruxelles nel 1884 – analogamente a quanto accadeva a Parigi con il Salon degli Artisti Indipendenti – inaugurarono il Salon des XX col quale organizzare esposizioni annuali.

James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888, Getty Museum, Los Angeles

Vi facevano parte Octave Maus e Théo van Rysselberghe, che lo avevano promosso, ma anche architetti come Henry van de Velde, scultori come George Minne o pittori come Jan Toorop e Félicien Rops. C’era anche Fernand Khnopff, suo compagno al corso Portaels nell’Accademia reale di Belle arti di Bruxelles. Ensor cominciò col prestare attenzione alle qualità espressive della luce, della linea, del colore, ai motivi grotteschi e macabri, come quelle maschere e quegli scheletri che ogni anno animavano le sfilate carnevalesche lungo le strade di Ostenda all’approssimarsi della Quaresima. Per questo Ensor nel 1887 propose al Salon des XX i risultati della sua ultima ricerca con la serie di disegni intitolati Visions. Le aureole di Cristo o la sensibilità della luce, perché solo la figura luminosa del Salvatore poteva riflettere, a suo avviso, tutti gli stati d’animo: “allegro” o “crudo” o “triste e rotto” o “intenso” o “radioso”. Il gruppo belga dei pittori aveva lodato le ricerche luministiche di Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte del francese Seurat, che i parigini al contrario avevano disdegnato all’Esposizione degli Impressionisti del 1886. Invece, i disegni di Ensor non suscitarono in loro nessun entusiasmo. Ensor stesso scriverà: «Sono stato collocato, a torto, tra gli impressionisti, millantatori della pittura en plein air, affezionati ai toni chiari. Prima di me, nessuno aveva compreso la forma della luce e le deformazioni che essa fa subire alla linea».

Ensor nel suo studio mentre suona l’armonium, sulla parete possiamo vedere “Cristo a Bruxelles”

La delusione divenne ancora più scottante quando lo stesso Salon des XX, proprio l’associazione di artisti che aveva contribuito a fondare, rifiutò L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889. Il dipinto fu considerato blasfemo e per tutta la vita gli toccò esporlo su di una parete dello studio. Oggi (proprietà del Getty Museum di Los Angeles) è celebrato come il suo capolavoro, precursore dell’Espressionismo del Ventesimo secolo. Ensor vi rappresenta la grande parata carnevalesca del Mardi Gras. In contrapposizione al puntinismo francese, utilizzò non solo spatole, ma entrambe le estremità del suo pennello, per applicare macchie di colore con grande libertà espressiva. «Queste maschere mi piacevano – scriverà – anche perché “stropicciavano” quel pubblico che mi aveva accolto così male». In particolar modo quei critici che non lo avevano fino ad allora compreso e la borghesia che non lo apprezzava affatto. Ecco allora rappresentata una calca scomposta di esseri ridicoli, un mare caotico di maschere ghignanti e deformi, pagliacci e volti caricaturali. «Vive Jesus le Roi de Bruxelles», gridano ovunque. Una fanfara strombazzante precede il corteo. Cristo monta un asino, perso come uno dei tanti tra una moltitudine indifferente. È riconoscibile dalla sua aureola dorata. Cristo, portavoce politico di poveri e oppressi. Umile leader della vera religione, in contrasto al riformatore sociale ateo Emile Littré, in abiti vescovili con in mano la bacchetta di un tamburo maggiore, che guida la folla festosa e scriteriata, pronta ad accogliere il figlio di Dio e poi tradirlo. Su di un enorme striscione rosso campeggia lo slogan “Vive la sociale”, in tal modo evidenziando le opinioni politiche del pittore a favore delle riforme e del suffragio universale. Una scritta quanto mai indicativa: stabilisce un primo legame tra manifesti politici e manifesti artistici.

La casa di Ensor a Ostenda

A partire dal 1896, Ensor cominciò a promuoversi come scrittore, pubblicando interventi su giornali come Le Coq Rouge e La Ligue artistique. Franz Hellens – prolifico romanziere e critico belga, quattro volte designato al Premio Nobel per la letteratura – ha steso nel 1974 la prefazione in una delle edizioni degli Écrits, designando come “il vero Ensor” quello che usava la penna più che il pennello, «l’Ensor armato di spada e miele, mordace e irriverente, ingenuo e cinico. Il più grande enfant terrible che la pittura abbia mai conosciuto, un bambino in tutte le connotazioni autentiche e terribili della parola». Viene da chiedersi come si vedesse Ensor, la cui figura d’artista attraverserà tutta la prima metà del Ventesimo secolo. In numerosi discorsi si definì un precursore del Luminismo, del Fauvismo, del Cubismo, dell’Espressionismo, del Futurismo e del Surrealismo. Ma non fu solo questo, perché Ensor attribuì sempre una grande importanza anche alla musica e alle sue produzioni musicali. Nel 1911 s’impegnò per La Gamme d’amour, una messa in scena per la quale scrisse libretto e musiche, oltre a disegnare scene e costumi. Dal 1917 l’artista si trasferì nella casa ereditata dallo zio, in Vlaanderenstraat/Rue de Flandre, dove visse ancora per oltre quarant’anni. Oggi la casa ospita il museo a lui dedicato. All’ingresso si affianca una perfetta ricostruzione del negozio di souvenir dello zio. A chi entra sembra quasi che il tempo si sia fermato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Nel silenzio Fernand Khnopff ha chiuso la porta su sé stesso

di Sergio Bertolami

6 – Il Simbolismo in Belgio: Fernand Khnopff.

Lo chiamavano “le Castel du rêve”, il castello del sogno, “la chapelle votive”, la cappella votiva, per l’estetica tutta personale e complicata. Eppure, era di una linearità esemplare, la sua casa. Non il palazzo in cui si è isolato Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di “A Rebours”, romanzo di Joris Karl Huysmans. Mi riferisco alla sofisticata residenza di Fernand Khnopff, tanto lontana nell’immaginario collettivo dalla “scatola” altrettanto sofisticata in cui Edmond Goncourt organizzava la domenica incontri di artisti, in soffitta, ricevendo fra i suoi amici Alphonse Daudet, Guy de Maupassant, Émile Zola. Il paragone tra Khnopff e Des Esseintes è opera di Dumont-Wilden, biografo di Khnopff che designa l’artista come «un Des Esseintes che non ha mai subito l’educazione romantica e non ha mai frequentato la soffitta d’Auteuil». Tre case, dunque; legate tra loro da un filo estetizzante; ma gli ambienti vissuti dai Goncourt e quelli visionari di Des Esseintes o di Khnopff , si delineano differenti quanto distanti.

Facade of the Villa Khnopff. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB

I fratelli Huot de Goncourt abitavano una casa acquistata in boulevard Montmorency, nell’attuale quartiere di Auteuil a Parigi. Fernand Khnopff eresse, invece, dalle fondamenta la sua villa a Bruxelles, in Avenue des Courses, ai margini del verde del Bois de la Cambre. Le due case non hanno nulla in comune se non che sono delle case d’artista. Letterati i Goncourt, uno dei massimi pittori simbolisti Khnopff. I primi però erano tesi a valorizzare ed esaltare la bellezza del passato, il secondo a prefigurare il cambiamento del prossimo futuro. I fratelli Edmond e Jules de Goncourt si stabilirono in quel loro villino nel 1868. Due anni dopo – alla morte di Jules, il più giovane – Edmond avrebbe voluto vendere tutto e fuggire dai ricordi. Fu allora che cominciò a pensare a un’asta in cui smembrare, quando fosse sopraggiunta anche la sua ora, la collezione d’arte francese del Settecento e le preziose stampe orientali che avevano contribuito alla moda della «Japonaiserie» parigina. Nel Journal – il diario dei due fratelli rimasto famoso per la quantità di notizie, aneddoti, scene di vita – emerge spesso l’amarezza per il disinteresse verso la casa da parte dei visitatori, l’inadeguatezza dei loro commenti, incuriositi soltanto dall’età degli oggetti o dal loro valore commerciale. Ogni angolo, dal pavimento al soffitto, era invece degno d’attenzione, per la cura dei particolari, delle soluzioni, oltre che per le raffinate collezioni d’arte. Fragilissime. Non mancano note sull’inquietudine ansiosa del padrone di casa nel vedere sfiorare i propri tesori da mani incaute. Il catalogo in due volumi di questa casa d’artista, redatto da Edmond de Goncourt, è arricchito da evocazioni fotografiche e descrizioni. Accompagnano il lettore da una stanza all’altra, da percorrere come un museo. È infatti, tuttora, un museo da visitare.

Edmond Pelseneer, L’Atelier Fernand Khnopff 1900, Archives D’Architecture Moderne, Brussels

Anche le immagini della villa di Fernand Khnopff a Bruxelles le troviamo riprodotte su pochi, selezionatissimi libri. Comparvero nella prima biografia dell’artista, pubblicata dal suo amico Louis Dumont-Wilden nel 1907, poi nell’articolo del 1912 di Hélène Laillet. Oggi quelle foto, che ritraggono stanze e corridoi vuoti – così diversi dalla casa densa di oggetti dei fratelli Goncourt – sono le uniche testimonianze rimaste, perché l’edificio è stato abbattuto dagli eredi tra il 1938 e il 1940 per elevare un anonimo condominio.

Fernand Khnopff, Chiudo la porta su me stessa (1891), Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
Fernand Khnopff, Le carezze (1896); Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

Quegli intellettuali che conoscono Fernand Khnopff, lo ricordano soprattutto quale pittore e fra le sue opere rammentano senz’altro dipinti enigmatici come Chiudo la porta su me stessa (1891) oppure Le carezze (1896). Nondimeno, Khnopff assistito dall’architetto belga Edouard Pelseneer ha elaborato le linee eleganti ed eteree della costruzione che sarà la sua abitazione e il suo atelier. I primi schizzi furono probabilmente compiuti nell’ottobre del 1899; il progetto elaborato nel marzo 1900 e la costruzione conclusa nel 1902. Poche persone sono state ammesse al suo interno e fra queste Hélène Laillet che scrive: «Se hai la fortuna di entrare, il domestico apre silenziosamente la porta e ti fa passare in un’anticamera decorata interamente di bianco, con pareti di stucco lucido. Da una posizione di orgoglio, un superbo pavone indiano impagliato osserva con la coda dell’occhio; è il guardiano altero di questa austera dimora».

The Antechambre. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Villa Khnopff era internamente tinteggiata di bianco, blu e oro. Il nero laccava soltanto i telai di porte e finestre. L’articolo di Hélène Laillet offre al lettore una vivida descrizione degli ambienti. Persino le foto possono riuscire fuorvianti, perché, quando si scorgono grigi alle pareti o al soffitto, sono semplicemente ombre. «Un drappo serico di un blu grigiastro, artisticamente sbiadito, si scosta e Fernand Khnopff, uomo di mondo, ti dà il benvenuto. Ma non ha quasi il tempo di assumere questa maschera mondana prima che venga messa da parte; dall’altra parte del sipario di seta esiste solo la personalità dell’artista, si impone e si ritrova in ogni minimo dettaglio dell’armonioso ambiente. Sembra quasi impossibile rendersi conto che cinque minuti fa eri per le strade trafficate di Bruxelles, perché qui nessun suono dal mondo esterno turba la mente, nessuna finestra ti mette in contatto con la vita; la tua immaginazione ti porta via e ti senti lontano da tutto ciò che è basso, meschino e senza valore; sei nel regno del bello e in questa atmosfera purificata senti un bisogno impellente di silenzio per poter ottenere, solo un momento, qualcosa d’ideale. Sì, il silenzio è necessario in questo lungo corridoio bianco pieno di una radiosità dolce e riposante; la luce del giorno entra attraverso curiose finestre di vetro colorato su cui i colori del blu e dell’oro, in combinazione, formano fiamme e figure fantastiche».

The Corridor. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.
The White Room (Dining Room). © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

C’è qualcosa di vago e inquieto nell’atmosfera di queste stanze. Sapendosi poco compreso Khnopff si rifugia nella solitudine e nel silenzio. Pare che abbia voluto riproporre le parole di Alfred de Vigny «Solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza». L’essenza della casa è immateriale. Se l’artista non ce lo dicesse, noi visitatori occasionali non ci accorgeremmo, per esempio, di essere entrati in sala da pranzo fino all’ora dei pasti, quando compare un tavolino, per poi scomparire subito dopo essere stato sparecchiato. Diversi gradini alla fine del corridoio conducono allo studio. Qui, rispetto alle altre stanze, pare di sentirsi più a proprio agio, ma il senso di mistero diviene, al contrario, maggiore. Di fronte alla porta c’è un altare sacro a Hypnos, composto da una vetrina in cristallo poggiante su un piedistallo in vetro, fuso da Tiffany; due chimere di bronzo dorato mettono in risalto la scritta “On n’a que soi”. È il motto distintivo del pittore: “Non abbiamo che noi stessi”. Khnopff ripete spesso queste parole. Hypnos – una copia della testa in bronzo conservata al British Museum, risalente al IV secolo a.C. – è il dio greco del sonno. «Hypnos – osserva Hélène Laillet – diffonde in tutta la casa l’atmosfera del sonno, un sonno che conduce ai sogni».

Bronze head from a statue of Hypnos, 350 – 200 B.C. The British Museum, London.
The main studio with the altar of Hypnos on the right. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

L’atelier è diviso in due ambienti, separati da tendaggi: uno per i lavori completati, che sembra quasi una sala espositiva, l’altro per i lavori in corso. Non c’è un solo dettaglio che non denoti il desiderio di una completa armonia, come in quel motto inglese che il pittore ha fatto suo: “Make the best of everything”, Ottieni il meglio da tutto. Non è facile leggere la mente creativa di Khnopff, neppure osservando minuziosamente i numerosi disegni in cui ha espresso qualcosa di sé. Neppure nel vederlo all’opera. In una delle foto, l’artista si fa riprendere mentre lavora a un grande dipinto posto sul cavalletto. Anche la sua figura sembra parte della ricercatezza che si respira nella villa, dove lo spazio di lavoro e di vita sono stati trasformati in un tempio dell’arte.

Fernand Khnopff in his studio.
The Blue Room.© Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Al piano superiore, riposa dopo il suo lavoro, cullato dai suoni del pianoforte. Dal bay-window non vede altro che fogliame verde. In questa “Chambre bleue”, come in quella di Mme de Rambouillet, tutti gli oggetti sono pezzi unici e portano firme illustri: un quadro di Delacroix, alcune opere di Gustave Moreau. Immerso nel suo preziosismo seducente Khnopff sogna e compone opere bellissime. Quasi sottovoce, Hélène Laillet annota: «Nella sua casa, espressione del suo ideale, lontano dal mondo, tagliato fuori da tutte le influenze esterne, solo nella sua solitudine altezzosa, Fernand Khnopff ascolta soltanto la voce dell’arte, e lavora metodicamente allo sviluppo della coscienza di sé stesso. Quando i giovani pittori vengono a chiedergli un consiglio risponde: “Siate soprattutto sinceri; se non avete niente da dire, non dite niente”. “L’arte non è una necessità”, aggiunge».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Joris Karl Huysmans: il sublimato di un’arte diversa

di Sergio Bertolami

5 – À rebours, per diletto dello spirito.

Per comprendere i primi anni del Novecento nell’arte, occorre considerare le oscillazioni fra due secoli. In qualche modo, occorre afferrare i concetti di baricentro e stabilità dell’equilibrio, come quando da bambini destava in noi meraviglia vedere due forchette conficcate in un tappo di sughero che rimaneva fluttuante su di un filo. Per comprendere l’arte che si svilupperà è necessario, perciò, tornare indietro e poi di nuovo avanti e poi ancora indietro, in un continuo processo di feedback. Il Simbolismo, al quale si è accennato, è il terreno in cui infatti affonderanno le radici artisti come Picasso, Duchamp, Ernest, Delvaux e tanti altri ancora. Interessa le arti figurative, così come interessa la letteratura. Per questo motivo, ci attarderemo nella casa di Jean Floressas Des Esseintes. È un personaggio immaginario, nato dalla penna di uno scrittore visionario e stravagante come Joris Karl Huysmans, che all’età di 54 anni deciderà di seguire la regola benedettina e da oblato laico prendere il nome di frère Jean, proprio come il suo famoso personaggio. Aveva presagito bene Jules Amédée Barbey d’Aurevilly dopo aver letto “À rebours“, in Italia conosciuto col titolo di “Controcorrente”: «Dopo un libro come questo, non resta altro all’autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce». L’opera evidenziava, infatti, il malessere esistenziale, una malattia dell’anima che in modo stravolgente ripetutamente si proporrà nel corso del Novecento.

Joris Karl Huysmans

Des Esseintes, raffinato quanto inquietante aristocratico, conta tra le sue passioni quella per l’arte. Erede di una fortuna familiare, decide d’immergersi nel silenzioso riposo di Fontenay, impegnato ad arredare la sua nuova casa in modo fastosamente stravagante, desideroso di sottrarsi a un’odiosa epoca d’ignobile volgarità. Troveremo in queste pagine ricerche estetizzanti: ambienti, mobilio, colori, abbinamenti, rispondono ai contrasti avvertiti nello spirito e nella mente. «Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, si era risolto a non introdurre nella sua cella larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva quindi voluto una pittura penetrante, raffinata, che fosse immersa in un antico sogno, in un’antica corruzione, distante dai nostri costumi, distante dai nostri giorni». Des Esseintes ricerca soluzioni legate più alle idee che alla realtà oggettiva. Nella sua collezione pittorica annovera quadri che non hanno affatto lo scopo di adornare la sua solitudine. Al contrario: «aveva voluto, per il diletto dello spirito e la gioia degli occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli svelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni languide e atroci». È nel simbolismo di Gustave Moreau e di Odilon Redon che trova il rapimento di lunghe estasi. Acquista i loro capolavori.

La Salomé di Gustave Moreau nella visione di Des Esseintes

Per notti intere sogna davanti a Salomé che chiede ad Erode la testa di Giovanni Battista. «Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva realizzata la Salomè sovrumana e insolita che aveva vagheggiato. Non era più soltanto la ballerina che strappa a un vecchio, con una torsione indecente delle reni, un grido di desiderio e di foia; che sfinisce l’energia, fiacca la volontà di un re, ondeggiando i seni, scuotendo il ventre, facendo vibrare le cosce; diventava, in un certo qual modo, la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta, eletta fra tutte dalle catalessi che le irrigidiva le carni e induriva i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelena, come Elena di Troia, chiunque le si avvicini, chiunque la veda, chiunque ne venga toccato». Salomé, dunque, come una divinità simbolica è raffigurata fuori dal tempo, in uno straordinario palazzo dallo stile fantastico e maestoso, con abiti sfarzosi e chimerici. Cosa rappresentavano i simboli di foggia orientale che indossava? «Annunciava al vecchio Erode un dono di verginità, uno scambio di sangue, una piaga impura sollecitata, offerta all’espressa condizione di un omicidio? O rappresentava l’allegoria della fecondità, il mito indù della vita, un’esistenza tenuta fra dita di una donna, strappata, sciupata da frementi mani d’uomo colto da demenza, travagliato da una crisi della carne?». Non i vangeli di Matteo, né di Marco, né di Luca, si dilungavano sulle grazie deliranti e sulle attive perversioni della carnale danzatrice. Al contrario, era il pennello di Moreau a lasciarle intendere, a sollecitarle.

Odilon Redon, L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito, litografia

Una serie di opere di Redon decorava, invece, le boiserie del vestibolo. Paesaggi secchi e aridi, pianure calcinate, nubi in rivolta, cieli lividi e stagnanti, soggetti sovrastanti come incubi. Questi disegni inauguravano un genere fantastico del tutto particolare, un fantastico fatto di malattia e di delirio, di miraggi allucinatori, terribili. «E, infatti, certi volti, divorati da occhi immensi, da occhi folli; certi corpi cresciuti oltremisura o deformati come attraverso una caraffa, evocavano nella memoria di Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi tuttavia rimasti nelle notti ardenti, delle orribili visioni della sua infanzia». La stessa febbre tifoidea che si porterà via Aurier, padre del Simbolismo pittorico.

L’idea di Des Esseintes non si ferma ai contemporanei. Per la sua camera da letto sceglie infatti un’opera di Theotokopulos, meglio conosciuto come El Greco. Una pittura sinistra, dai toni del lucido da scarpe e del verde cadavere, che ben si addice all’arredamento immaginato per la sua camera da letto. Solo due erano per lui le soluzioni: o farne uno eccitante alcova, come quella che un tempo aveva a Parigi, un luogo di depravazione notturna all’assalto di vergini dal finto candore; oppure allestire una sorta di cella monastica, un luogo di solitudine e raccoglimento. Combattuto con la sua nevrosi, Des Esseintes scioglie il nodo esistenziale: «A forza di girare rigirare la questione sotto tutti i suoi aspetti, concluse che lo scopo da raggiungere poteva riassumersi in questo: allestire con oggetti gioiosi una cosa triste, o piuttosto, pur conservandole il carattere di bruttezza, imprimere all’insieme della stanza, così trattata, una sorta di eleganza e di distinzione; ribaltare l’ottica del teatro dove miseri ornamenti fanno la parte di tessuti di lusso e costosi; ottenere l’effetto totalmente opposto, servendosi di stoffe magnifiche per dare l’impressione di cenci; in una parola, disporre una cella di certosino che avesse l’aria di essere vera e che, beninteso, non lo fosse». Lascio al lettore il piacere di scoprire nel libro colori e materiali utilizzati, mobili e accessori, per condurre questa esistenza da eremita, grazie alla quale godere dei vantaggi della clausura, senza però soffrirne gli inconvenienti: l’austerità, la disciplina militaresca, il sudiciume, la promiscuità, l’inoperosa monotonia.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Non si tratta più di sensazione, ma dell’idea che ne deriva

di Sergio Bertolami

4 – Il movimento idealista in pittura.

Chi pensa che la storia dell’arte sia fatta solo di tele e pennelli oppure di mazzotte e scalpelli, sta proprio sbagliando strada. L’arte o l’architettura seguono le palpitazioni della vita sociale. Nelle opere si possono leggere indirizzi e aspirazioni profonde da collocare esattamente nel tempo in cui sono state prodotte. Lo scriveva Panofsky nel 1939, e Gerbrands nel 1956 considerava le espressioni artistiche come un sistema di “comunicazione simbolica”. Per cui immagino che ai miei lettori attenti si sia accesa una lampadina, quando hanno scorto, nel menzionato brano di André Mellerio, i nomi di Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau. Se si esclude Fantin-Latour – amico di Édouard Manet e che come lui rifiutò di fare parte degli impressionisti per rimanere nel solco del realismo – tutti gli altri artisti citati oggi li identifichiamo come appartenenti alla corrente simbolista. Non a caso. Mellerio è il biografo di Odilon Redon, da considerarsi, ci dice, come un artista che nell’arte contemporanea occupa un posto a sé stante. Soprattutto è il curatore di un libro pubblicato solo quattro anni prima della spettacolare Esposizione Universale di Parigi, nelle cui pagine vaglia questo gruppetto di artisti quali componenti di una corrente emergente: “Le mouvement idéaliste en peinture”.

Mellerio è chiarissimo quando annota: «Avvertiamo una volta per tutte che questo termine [Idealismo], non più di quelli di Impressionismo e Simbolismo e simili, non ha alcun significato razionale. Essendo queste etichette già fatte e attaccate ai pittori nella stampa d’arte, non volevamo cambiarle per paura di aumentare la confusione». Sorvolate, dunque, sulle etichette preconfezionate, ma soffermatevi sulla tendenza di questi artisti che cercano di sfuggire alla contingenza attraverso l’ispirazione e il modo di espressione. Ci sono, infatti, artisti realisti e artisti idealisti. «In altre parole – mentre il realista prende come obiettivo finale la riproduzione della natura nella sensazione diretta che essa dà luogo – l’idealista vuole solo vedere in essa il lontano punto di partenza del proprio lavoro». Una discussione di sicuro non recente: ha preso avvio dalla fine del Seicento, soprattutto in filosofia con George Berkeley, che riconduceva a “idea” ogni realtà oggettiva. «Non si tratta più di sensazione – specifica Mellerio –, cioè della cosa percepita indipendentemente dalla volontà, ma dell’idea che ne deriviamo, concetto puro che l’artista cercherà unicamente di esprimere, senza preoccuparsi delle oggettività esatte che erano la causa».

Una questione è certa: «L’arte ha le sue fluttuazioni» e dalle sensazioni degli impressionisti ogni nuova forma ha mosso i suoi passi. Per questo motivo l’opera d’arte moderna, ad ascoltare George-Albert Aurier, dovrebbe essere:
1° Ideista (o idealista, che dir si voglia) poiché il suo unico ideale sarà l’espressione dell’idea;
2° Simbolista, poiché esprimerà questa idea con le forme;
3° Sintetica, poiché scriverà queste forme, questi segni, secondo una modalità di comprensione generale;
4° Soggettiva, poiché l’oggetto non sarà mai considerato lì come un oggetto, ma come segno di un’idea percepita dal soggetto.
5° (è una conseguenza) Decorativa…
George-Albert Aurier, per chi non lo conoscesse, è colui che ha affermato le istanze del Simbolismo pittorico con un articolo apparso sul “Mercure de France” a marzo del 1891 intitolato “Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin”. L’anno successivo (quello della sua morte a soli 27 anni) pubblica il suo ultimo intervento sulla “Revue encyclopédique ou analyse raisonnée”. I contenuti seguono la via espressa su Le Figaro nel 1886, dal poeta Jean Moréas col “Manifesto del Simbolismo letterario”. Non occorre ricordare che il movimento simbolista interessò la letteratura, le arti figurative e nondimeno la musica, dove spiccarono le sonorità di Claude Debussy.

Pierre Puvis de Chavannes, Fanciulle in riva al mare, 1879, Musée d’Orsay, Paris

Fra i pittori di consolidata notorietà che hanno contribuito all’evoluzione del percorso simbolista ci sono, dunque, Puvis de Chavannes, Gustave Moreau, Odilon Redon e Paul Gauguin. L’ultimo di questi è il più conosciuto dall’odierno grande pubblico. Aurier nel suo articolo tratta del Gauguin simbolista; Octave Mirbeau, esponente illustre dell’evoluzione letteraria tra Otto e Novecento, ne descrive i capolavori capaci di evidenziare nell’arte dell’epoca percorsi innovativi: «C’è in quest’opera [di Gauguin] un’inquietante e gustosa miscela di splendore barbaro, di liturgia cattolica, di fantasticheria indù, d’immagini gotiche, simbolismo oscuro e sottile; ci sono realtà dure e voli frenetici di poesia attraverso i quali Gauguin crea un’arte assolutamente personale e completamente nuova». Il nuovo, il singolare, l’inatteso, l’incorrotto, Gauguin lo cerca nel primitivismo dei mari del Sud. È più che mai distante da un Pierre-Auguste Renoir, che appreso della sua partenza esclama graffiante: «Si può dipingere bene anche a Batignolles», rimanendo cioè nella sua Parigi in trasformazione. Dopotutto è quello che fa il giovane aristocratico, Jean Floressas Des Esseintes, mirabile protagonista letterario immortalato nel romanzo “À rebours” di Joris Karl Huysmans, nel 1884. Inversamente a Gauguin che cerca il nuovo imbarcandosi per terre lontane, Des Esseintes deluso e incomunicabile sceglie l’esclusione sociale per rifugiarsi in una “realtà ideale” che proverà a costruirsi dentro e fuori di sé.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay  

All’Esposizione Centennale solo una sala per gli impressionisti

di Sergio Bertolami

3 – L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme.

Si chiamava André Mellerio il raffinato critico d’arte deluso, e non poco, della mostra sugli impressionisti allestita al Grand Palais in occasione della grande Esposizione Universale del 1900 a Parigi. La giudicava una manifestazione incompleta, rispetto a ciò che si sarebbe atteso. Evidenziava la sua disapprovazione in un libricino di appena sessanta pagine che s’intitola L’Exposition de 1900 et L’Impressionnisme. Un omaggio a una corrente artistica alla quale finalmente era stato riconosciuto il suo giusto valore. André Mellerio chiariva, infatti, che fino a pochi anni prima – come si poteva leggere nelle Notes sur l’Art Moderne di Andrè Michel – alcune persone, pronunciando la parola impressionista con “santo orrore” includevano, nello stesso anatema, tutti coloro che ne erano convinti o semplicemente sospettati. Fra il grande pubblico c’era l’abitudine, condivisa, di trattare come impressionista l’autore di qualsiasi dipinto dove ci fosse del viola in un’ombra; dove si notassero macchie più o meno informi di colore o una totale assenza di disegno. In breve, era impressionista qualsiasi tela che sembrasse pazza e priva di valore d’arte. Negli ultimi anni dell’Ottocento, invece, l’impressionismo aveva cessato di essere negato. La sua azione era riconosciuta, il suo successo tendeva sempre più al culmine. All’alba del Novecento, finalmente l’impressionismo, «qualunque sia il grado più alto o più basso che gli verrà assegnato un giorno in modo definitivo, occupa un posto determinato nella storia dell’Arte». Scriveva così Mellerio.

Il critico André Mellerio è la persona che indossa il cappello a cilindro nel dipinto di Maurice Denis, Omaggio a Cézanne, 1900, Parigi, museo d’Orsay.

Il problema, tuttavia, secondo il critico d’arte era capire che posto occupasse l’impressionismo nella grande Esposizione del 1900, cioè nell’immaginario di chi gli aveva riservato un posto così marginale nella mostra aperta per fare il bilancio del secolo che si chiudeva e determinare il futuro dell’arte nel secolo che entrava. Nonostante l’evolversi dei tempi, qual era il risultato rappresentato in mostra? Presto detto, rispondeva: «Alcuni vecchi paesaggi di Monet, Pissarro e Sisley. Alcune figure di Renoir, due dipinti e tre o quattro pastelli di Degas; qualche raro Cézanne, pochissimi Berthe Morizot, un Guillaumin, qualche Boudin sparso qua e là, e basta. Alla vista di questa stanzetta luminosa e allegra, piena di talenti, si prova una gran gioia, ahimè! sminuita, quando si pensa, di fronte alla manifestazione troncata, a ciò che si sarebbe sognato, infinitamente più vasto e completo». Mellerio non era il solo a esprimere un giudizio così riduttivo. A leggerlo, sembra fargli eco anche Arsène Alexandre, il critico d’arte del quotidiano Le Figaro che martedì 1° maggio 1900 pubblicava due pagine fitte-fitte riguardanti “Le Belle arti all’Esposizione Universale del 1900”. Dopo avere esaminato l’Exposition retrospective al Petit Palais, passava alla Centennale de l’art Français e qui sorgeva anche a lui qualche dubbio, subito da fugare: «Quando si sono fornite, organizzando una simile mostra, tali prove di imparzialità e alta critica, non si può sospettare di aver voluto fare polemica artistica. Se poi la Centennale ci offre una sfolgorante sala impressionista, è perché questo gruppo di artisti, direttamente collegato a Corot, a Courbet, a Manet, ha conquistato il suo posto, e non ultimo, nell’arte di questo secolo, e ha rinnovato le nostre gioie dell’arte, ha chiarito la nostra visione, ampliato la nostra comprensione della natura».

Le Figaro di martedì 1° maggio 1900

Affermare, in altre parole, di non sospettare che i curatori della mostra avessero voluto “fare polemica artistica” era comunque sollevare la questione fra i competenti. Per capirci, basta riprendere le parole di Mellerio: «Pur tenendo conto degli sforzi di artisti isolati (come Puvis de Chavannes, Fantin-Latour, Carrière, Odilon Redon, Gustave Moreau, etc), nonché del recente contributo del giovane movimento idealista – significativo come tendenza, ma costituito da opere non del tutto mature – va riconosciuto che l’impressionismo rappresenta la maggior parte degli sforzi della pittura francese, durante l’ultimo quarto del XIX secolo». Allora perché dedicargli soltanto “… una sfolgorante sala” e non più? La risposta, in qualche modo, la forniva su Le bilan d’un siècle (1801-1900) Alfred Picard, commissario generale dell’Esposizione. Evidenziava lo start, il fotogramma di avvio del nuovo film chiamato Novecento, esaminando i cambiamenti intervenuti nelle esposizioni artistiche e nell’emancipazione dell’arte contemporanea. I Salon – affermava Picard – occupavano un grande spazio nella vita degli artisti: è là che i giovani andavano a cercare la strada verso la gloria, che i maestri sostenevano e argomentavano la loro celebrità, che il pubblico degli estimatori esprimeva le proprie scelte (e, per sottinteso, acquistava opere, investiva sull’arte). Dopo il 1880, però, le Esposizioni annuali divennero libere, organizzate dagli artisti stessi riuniti in associazioni. Lo Stato non interveniva che per la concessione dei locali, per le acquisizioni in base agli stanziamenti di bilancio, per le attribuzioni di alcuni premi e borse di viaggio.

All’inizio – continua Picard – non c’era che è una sola associazione a gestire il Salon: la Société des Artistes Français. Successivamente, con la scissione, nel 1891 si diede vita alla Société Nationale des Beaux-Arts. Picard, con pochi tratti, delineava un momento particolare della storia artistica francese, legato alla proposta di William-Adolphe Bouguereau che il Salon diventasse una semplice esposizione senza premi, ma capace di dare visibilità alle giovani generazioni. L’opposizione fu netta. Un gruppo di artisti – sotto la presidenza di Meissonier alla guida di un comitato formato in particolare da Pierre Puvis de Chavannes, Carolus-Duran, Félix Bracquemond, Jules Dalou, Auguste Rodin e molti altri ancora – rigettò l’idea e creò una scissione, esponendo in quello che rimarrà come il Salon du Champs de Mars. All’inaugurazione dell’Esposizione del 1900, gli artisti erano divenuti ormai legioni, gioivano per una indipendenza assoluta, non conoscevano più la sferza dei grandi maestri, ubbidivano liberamente al proprio gusto e al proprio temperamento. Gli orientamenti che seguivano, anziché essere poco numerosi e nettamente definiti, si erano moltiplicati ogni giorno di più. L’Esposizione aveva, dunque, il dovere di mettere in mostra questo panorama variopinto di correnti artistiche diverse. «Dovremmo deplorare o applaudire? – concludeva Picard – Le opinioni sono discordi; ma i liberali [come noi] non possono fare a meno di rimanere fedeli alla loro fede, e considerare, nel campo artistico come in altri, la libertà individuale come la più pura fonte di progresso».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

A Parigi l’Esposizione Universale del 1900 – Bilancio di un secolo

di Sergio Bertolami

2 – Le bilan d’un siècle (1801-1900).

All’inizio del Novecento Parigi è la capitale della cultura. Lo è di fatto, non come oggi che le capitali della cultura le inventano a tavolino. La grande Esposizione Universale, aperta il 14 aprile e chiusa il 12 novembre del 1900, ne è la conferma. 58 Paesi partecipanti, oltre 50,8 milioni di visitatori. Il pubblico accede da trentasei porte, di cui la trionfale “Porta Monumentale” è sormontata dalla Parisienne, figura allegorica della Città di Parigi, opera di Paul Moreau-Vauthier. Per agevolare l’affluenza innumerevole, su progetto dell’architetto Marius Toudoire si costruisce la Gare de Lyon e su progetto dell’architetto Victor Laloux la Gare d’Orsay e il lussuoso albergo adiacente. Sono ambedue destinati ad accogliere e ad alloggiare i visitatori di questa Esposizione, la più grandiosa e imponente fino ad allora mai realizzata. Superiore addirittura a quella del 1889, allestita per celebrare il centenario della Rivoluzione francese, la cui icona espositiva costituita dalla Tour Eiffel è divenuta simbolo di Parigi. «La stazione è sfarzosa. Sembra un padiglione delle “Belle Arti”, e il padiglione delle “Belle Arti” somiglia ad una stazione; io propongo a Laloux di fare lo scambio se è ancora in tempo». Scriveva così il pittore Detaille prima dell’inaugurazione della stazione d’Orsay e del lussuoso albergo. Ottantasei anni dopo, l’ironico commento è diventato realtà, perché le due costruzioni sono state inglobate nel maestoso Musée d’Orsay, che espone le opere d’arte della seconda metà del secolo, cioè il periodo compreso fra il 1848 e il 1914. Chi ha percorso le sale di questo emozionante museo, e senza fretta è arrivato alla conclusione, ha potuto soffermarsi su quell’unico ambiente che ancora ripropone il suo stile originario, lasciando inalterate le atmosfere di quel tempo lontano. È la sala da ballo dell’albergo in stile Novecento-rococò, dove pitture e sculture si mescolano con i cromatismi raffinati della decorazione preesistente.

Cosa significa tutto questo? Rivolgo la domanda ai miei lettori attenti. Significa che questa Esposizione universale del 1900 a Parigi rappresenta il momento di snodo, in cui l’insieme delle tensioni espressive – che in ordine sparso vanno dall’arte alla scienza e viceversa – lasciano intendere che il progredire non è mai isolato. Con l’Esposizione Universale era arrivato per i parigini il momento di tracciare il bilancio del secolo che si chiudeva e immaginare quello che si apriva. Per questo motivo Alfred Picard, commissario generale dell’Esposizione, raccoglie in sei volumi Le bilan d’un siècle (1801-1900). Sì, il bilancio di un secolo. «Le esposizioni universali internazionali – scrive – sono delle imprese eminentemente feconde soprattutto laddove il loro inquadramento comprende, come nel 1900, dei musei centenari e più generalmente dei musei retrospettivi. Strumenti ammirabili di educazione e di istruzione pubblica, essi mostrano in un quadro avvincente l’evoluzione ininterrotta del mondo, elevano i cuori, stimolano gli uomini e i popoli, preparano le modalità dell’avvenire, servono potentemente gli interessi commerciali ed industriali». Il primo dei sei volumi (530 pagine, non poche) è dedicato ai progressi dell’arte e della cultura del XIX secolo: Education et enseignement, lettres, sciences, arts. Picard passa in rassegna la letteratura francese e quella estera di 19 Paesi, non solo europei; continua con le scienze, la musica e le arti. Anche in quest’ultimo caso il panorama ha carattere internazionale, come internazionale è l’Esposizione. Alla pittura, incisione, scultura ed architettura, insegnate nel corso del XIX secolo nelle Accademie, Picard aggiunge anche le variegate arti decorative, in Francia come in altre 29 nazioni, dall’Allemagne alla Turquie, in rigoroso ordine alfabetico. Parte dalle decorazioni fisse degli edifici, per poi considerare vetrate, carte da parati, mobili, tappezzerie, tappeti, tessuti d’arredamento, pizzi e ricami, ceramiche, cristalli e cristallerie, argenterie, gioiellerie e bijouterie, bronzi, ghise e ferri battuti artistici, metalli filati. Quante forme ha l’arte, che i libri consueti a portata dell’ampio pubblico trascurano. Picard non le dimentica, come non dimentica gli strumenti principali per stampare ed editare, realizzare carte geografiche, coniare monete e medaglie, fare musica.

Alfred Picard

Fra questi strumenti uno spazio è riservato alla nuova forma d’arte per eccellenza, qual è la fotografia. Inizia dal 1813 con Nicéphore Niepce occupato ad affrontare il problema del fissaggio, per considerare poi, a metà secolo, i processi d’impressione fotomeccanica come la fotolitografia (per citarne solo una) e giungere infine alla cinematografia, conquista relativamente recente, dei Fratelli Lumière. Picard si sofferma sugli sviluppi futuri di riprese fisse ed “animate”, colte in volo dall’aerostato. Aveva cominciato Nadar sorvolando e fotografando Parigi. La proiezione su schermo gigante dei film prodotti dai Fratelli Lumière è tra le maggiori attrazioni dell’Esposizione. Ma non ne mancano altre, al passo con i tempi. Il palazzo delle illusioni, per esempio, con la sua immensa sala arredata in stile eclettico-moresco e resa sfolgorante da migliaia di lampadine, che esaltano la conquista dell’elettricità, uscita oramai dalla fase sperimentale e impiegata per illuminare le strade della Ville Lumière e gli interni dei suoi palazzi. Tra i padiglioni espositivi, su progetto dell’architetto Charles Girault sorgono il Petit Palais, che dedica una retrospettiva di pittura all’arte del XIX secolo, e il Grand Palais realizzato dagli architetti Henri Deglane, Albert Louvet, Albert Thomas e Charles Girault, impegnati ciascuno a un’area definita. In questo grande edificio in muratura, acciaio e vetro, è allestita in particolare una mostra sulla produzione artistica dell’ultimo decennio, con le opere degli impressionisti il cui impegno ha conquistato del tutto il consenso del grande pubblico. Una mostra giudicata, tuttavia, una «manifestazione troncata, rispetto a ciò che si sarebbe sognato, infinitamente più vasto e completo».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Arte del Novecento – Sono cambiati gli orientamenti

di Sergio Bertolami

1 – Premessa.

Da dove vogliamo cominciarla questa passeggiata nell’arte del Novecento? Sicuramente dalle avanguardie, anche se prima occorrerà dedicare qualche puntata ai precursori. Le avanguardie dei primi anni del secolo sono costituite dagli artisti famosi che hanno scritto eccellenti pagine di storia, come i Matisse, i Derain, i Kirchner, i Picasso. Ma occorrerebbe aggiungervi quelli misconosciuti, che riemergono (fateci caso) attraverso certe opere che pochi, molto pochi, conoscono. A pensarci bene, però, gli artisti famosi e quelli meno hanno un denominatore comune. Le loro opere entravano nei salotti della borghesia, che le pagava per un tozzo di pane, ammirando quel guizzo antiborghese che permetteva di sentirsi colti, illuminati ed innocenti. Tali opere mostravano atteggiamenti di rivolta verso l’arte del passato. Quell’arte che aveva scompaginato i canoni dei padri e dei nonni. Una trasformazione inarrestabile che ora sconvolgeva addirittura tutte le discipline, tutte le tecniche, i materiali, i contenuti. I nonni guardavano alle Accademie, ai maestri del passato. I padri erano approdati all’impressionismo, sentimento della modernità, ora i figli trovavano obsoleto tutto questo, se non addirittura un ostacolo alla liberà espressiva. Nel 1911, nel corso di una riunione della Secessione di Berlino, difronte alla nuova arte un membro della giuria si lasciò scappare: «Ma questo è ancora impressionismo?». Allorché, di rimando, si levò una voce dalla sala: «No, è espressionismo!». Nel corso di questa carrellata, non arriveremo a definire “Espressionismo” tutta l’arte moderna, come fa Sheldon Cheney, ma a piccoli passi ne tracceremo l’evoluzione. Partendo dalle evidenze, come certi influssi provenienti in Europa dai paesi extraeuropei. S’era cominciato col giapponismo conosciuto attraverso le stampe orientali, si continuò rivolgendosi alle cosiddette civiltà primitive, quelle provenienti dall’Asia o dall’Africa, dalle Americhe o dalle terre oceaniche. Ma non fu soltanto uno sguardo geografico; persino la spontaneità infantile fu considerata di maggiore ispirazione rispetto ai capolavori conservati al Louvre. Chi legge ricorderà la celebre frase di Picasso: «A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, però ci ho messo una vita per imparare a dipingere come un bambino».

Lettera di Picasso a Guillaume Apollinaire.

Per citare un italiano, ricordate il titolo di qualche libro di Tommaso Marinetti? Uccidiamo il Chiaro di Luna! Zang Tumb Tumb, Parole in libertà, La conquista delle stelle, Canto di eroi e macchine, La cucina futurista. Con quest’ultimo libro bandiva persino la pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana». Immaginate dunque se non erano banditi i principi dell’arte stessa, la figura tradizionale dell’artista, il suo ruolo sociale. I maestri del primo Novecento proposero un nuovo modo di intendere e di volere. E lo fecero ad alta voce, attraverso programmi, dichiarazioni alla stampa, manifesti. Dire che oggi – a distanza di un secolo da quelle espressioni, talora concitate – il grande pubblico non ha ancora capito del tutto quella nuova arte, è come sfondare una porta aperta. Chi fra questi ancora cerca nelle opere esposte in un museo o in una mostra, concetti come la mimesi della natura, il richiamo alla letteratura poetica, l’armonia delle forme e dei toni coloristici, la simmetria e le proporzioni, gli equilibri lievissimi e raffinati di un tempo, chi in altre parole cerca di trovare i tradizionali canoni estetici, non può che rimanere smarrito. Come un esploratore incerto se valicare il limite della propria mappa, laddove è scritto «hic sunt leones». Ovvero qui ci sono i leoni, questo è il confine inesplorato, al di là del quale non è incoraggiato avventurarsi. Occorre, chiaramente, una buona dose di temerarietà per azzardarsi senza un adeguato equipaggiamento. Vale soprattutto per gli amanti delle opere iconiche, quelle da ammirare e venerare, prostrati al puro visibile. Persino costoro sanno bene che i veri artisti hanno spesso suscitato scandalo. Pur tuttavia il divario fra l’arte del Novecento e la società contemporanea è andato sempre più aumentando, accrescendo incomprensioni. Un distacco colmabile solo attraverso la scoperta di nuove aree della conoscenza artistica. Consapevoli del rischio che si corre, se non si è disponibili a sovvertire il comune e consolidato sentire.

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Luigi Prestinenza Puglisi: Architetti d’Italia. Riccardo Morandi, l’ingegnere

A pochi giorni dall’inaugurazione del ponte di Renzo Piano, che ha sostituito il ponte Morandi, drammaticamente crollato due anni fa, Luigi Prestinenza Puglisi ripercorre la storia del suo progettista. Opponendosi alle accuse mosse da certa critica nei suoi confronti.

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Chi era Morandi?
Riccardo Morandi (Roma, 1º settembre 1902 – Roma, 25 dicembre 1989) è stato un ingegnere e accademico italiano. Considerato uno dei più importanti e innovativi ingegneri e progettisti del XX secolo, iniziò la sua attività in Calabria, sullo scorcio degli anni venti, con la progettazione di strutture in cemento armato per il recupero di edifici di pregio (principalmente chiese) che riportavano ancora i danni del terremoto del 1908. Tornò poi a Roma continuando lo studio o la soluzione dei problemi tecnici connessi a questo tipo di struttura (allora nuova per l’Italia).

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IMMAGINE DI APERTURA: Studio AAR – Morandi – Concorso Palazzo di Giustizia – Riccardo Morandi (Fonte Wikipedia).

Chi è questo personaggio famoso?

 

Vogliamo giocare a modo nostro e proporre, non un passatempo da spiaggia ma che potete fare anche in spiaggia. Provate ad indovinare chi è il personaggio famoso raffigurato. Cliccate il link per vedere se avete indovinato e, se ne avete voglia, leggetevi la biografia su Wikipedia. La nostra è stata una rigorosissima scelta a casaccio fra artisti, architetti e letterati. Dalle pagine visitate comprenderemo quale volto vi ha intrigato di più. Buon divertimento.

VERIFICATE SE LA RISPOSTA È CORRETTA