Il ruolo della pasta nella struttura del menù italiano

 

Oggi la pasta è servita come primo, dopo l’antipasto. Ma non è stato sempre così. Il menù era profondamente diverso. Comincia a variare nella seconda metà nell’Ottocento. Precedentemente, nei pranzi nobiliari la pasta non aveva un ruolo fisso. Il pranzo era suddiviso in quattro portate principali: antipasti, lessi, fritti e frutta. A loro volta queste portate comprendevano 4 o 5 piatti differenti. Così troviamo, con Romoli, le pappardelle alla romana servite con la frutta, che di per sé conteneva piatti dolci (i moderni dessert). Ma troviamo anche i maccheroni risolati alla fiorentina nella sezione del fritto.
La pasta inizia ad acquisire maggiore importanza verso la fine del Settecento, conquistando il ruolo di entrée (l’apertura del pranzo) con la fine dell’Ottocento. Ce lo riporta il libro di anonimo il Cuoco piemontese. Nelle famiglie napoletane benestanti, viene servita almeno tre volte a settimana. Quando non vi è la portata della pasta il suo ruolo trova sostituzione con altre ricette (da uno o due piatti).
Artusi testimonierà questa nuova importanza con uno schema di menù, dove il primo piatto consiste in una minestra di pasta. Anche se non è denominata pastasciutta, la posizione predominante è comunque conquistata.

 

La pasta nel menù alimentare del povero e del ricco

 

La pasta era servita sia sulla tavola del ricco, sia su quella del povero. Tuttavia, diverso era il consumo e diverso il punto di vista. Mentre gli aristocratici e i ricchi in genere, consumavano la pasta come una delle portate, a volte considerata di contorno, i poveri si dovevano accontentare di quella e basta, un vero piatto unico. Ciononostante, la pasta come piatto completo ha attraversato i secoli, lasciando innumerevoli esempi.

LA PASTA DEL POVERO
Sin dall’inizio il consumo della pasta fra il popolo non è passato inosservato. Nei libri e nelle cronache storiche troviamo accenni. Possiamo cominciare dal cronista Salimbene da Parma che ci parla del goloso di pasta fra’ Giovanni da Ravenna, per poi passare alle novelle del Boccaccio (in primis quella del paese di Bengodi). Franco Sacchetti ci narra del piatto di pasta condiviso dai suoi due eroi. Nel 1617, invece, le cronache ci riferiscono del pranzo, a base di pasta, offerto a tutto il popolo dal duca di Ossuna, viceré del regno spagnolo. Ben 10.000 i suoi commensali, che affollano allegramente i giardini di Poggioreale. Gorani, ci riporta, in uno dei suoi scritti, dell’abitudine del popolo di consumare un solo piatto di maccheroni, accompagnato da un bicchiere di acqua e zucchero. Nel 1872, ne fa accenno anche David Silvagni, nel testo Scene di vita napoletana. In esso ci descrive un operaio che, durante la giornata, mangia una volta sola, un unico piatto di maccheroni, di circa 300 grammi, condita da caciocavallo e basta.
Ma col trascorrere dei secoli, nell’Ottocento, la pasta divenne Il piatto quotidiano di tutte le famiglie napoletane, quelle povere e quelle benestanti.

LA PASTA DEL RICCO
Sulla tavola del ricco, a differenza di quello del povero, regna l’abbondanza. Tanto che la pasta viene servita, nel Cinquecento, come copertura, soprattutto del pollame, ma troviamo anche la lepre unita a pappardelle (nel testo di Romoli).  Nel 1517, Folengo nel Baldus ci descrive un piatto di teneri anatroccoli intinti in un brodetto e ricoperti da lasagne.
L’abitudine si manterrà fino al XVIII secolo, soprattutto in Spagna. Sino alla fine del Seicento, nelle corti e nelle grandi case nobiliari italiane, gli chef del servizio di bocca mischiano la pasta con la carne, in varie ricette, in particolare a pollami lessati, ma ve ne sono anche con il manzo.

I mille condimenti della pasta: basilico o pomodoro

 

Il BASILICO

Nel libro Vera cucina genovese, pubblicato nel 1863, non poteva mancare un piatto di pesto. In esso è presente un piatto di pesto d’aglio e di basilico. La lavorazione è molto simile al pesto attuale: vi è una maggiore presenza di aglio e mancano i pinoli. Ma la presenza del pesto risale ad epoca medievale. Infatti, nel testo di Martino, già si ritrova una salsa verde per i maccheroni. Tra gli ingredienti base troviamo formaggio parmigiano, provola morbida e rucola tritata. Al tempo, questo piatto genovese serviva per condire “al magro le lasagne, i taglierini ed i gnocchi”. L’uso della salsa di pesto è fortemente regionale, quasi non si trovava fuori della Liguria. Tant’è che non è presente né nel libro di Artusi, né nel Diario della massaia, che lo segue. Pochi altri esempi in Italia, dove viene, però, denominato in altra maniera. Con il nome di pistou, era aggiunto ad una minestra francese.

IL POMODORO
La salsa di pomodoro è un’invenzione pressoché meridionale. Il pomodoro fu importato dalle Americhe (dal 1592), ma rimase misconosciuto ai cuochi italiani e spagnoli per lungo tempo, nonostante un botanico spagnolo avesse suggerito, da subito, il pomodoro proprio per i sughi. Essendo il meridione sotto il dominio spagnolo, fu da questi portato nel Sud italiano.
Il suo uso gastronomico è sottolineato, nel 1692, da Antonio latini, cuoco molto legato a Napoli. Latini stesso denomina le sue ricette al pomodoro come “alla spagnuola”. Nella sua opera, in due volumi, Latini propone, un’insalata di pomodori, appena grigliati sulla brace, unita ad un battuto di cipolla, timo e peperoncino, con l’aggiunta di un filo d’olio, aceto e sale.
A lui seguono, nel 1773, il libro del Cuoco galante e poi quello di Vincenzo Corrado, che prepara una dozzina di ricette a base di pomodoro. Praticamente di tutto: frittelle, crocchette, pomodori farciti con riso, tartufi o acciughe. Tuttavia, non è ancora lo sposalizio tra pasta e pomodoro. Questo almeno si desume dalla tradizione della cucina aristocratica.
A menzionare, per primo, l’abbinamento tra pasta e pomodoro è il francese Grimod de la Reynière nel libro Almanach des gourmands, pubblicato nel 1807, a cui, però, si preferisce quello tra riso e pomodoro. Più tardi ecco la prima ricetta di un timpano di vermicelli, riportata da Ippolito Cavalcanti, che tratta del sugo fatto con i pomodori.
Nel successivo Manuale del Cuoco e del Pasticcere, del 1832, di Vincenzo Agnoletti di Parma, si parla delle conserve di pomodoro, tanto in voga in quel periodo.
Nella Vera cuciniera genovese, si cita un sugo semplice di pomodoro. Nel Cuoco milanese, edito nel 1863, si parla di una salsa di tomates, mentre nella Vera cucina lombarda, finalmente, ecco la salsa di pomodoro per minestre. Siamo nel 1890.
Da Napoli, quindi, la pasta col pomodoro si diffonderà un po’ dovunque, in maniera radicale, nella seconda metà del XIX secolo. Ma sarà con Artusi che la pasta col pomodoro arriverà alla sua ufficialità. Artusi la cita, infatti, come variante dei maccheroni alla napoletana. Così, da quel momento, Napoli ed il sugo di pomodori saranno coppia di bontà e tradizione. Oggi ovunque nel mondo.

 

I mille condimenti della pasta: agrodolce o sughi in bianco

 

PASTA IN AGRODOLCE
Se attualmente la distinzione tra dolce e salato è molta, così non lo era nel Cinquecento, quando non esisteva il concetto stesso di dessert. Infatti, piatti dolci e salati venivano offerti indistintamente, spesso con abbinamenti agrodolci. Ad esempio, era utilizzata molto la cannella. In ogni caso, il Rinascimento, a livello gastronomico, si segnala per il grande uso dello zucchero. Cosa che si rileva anche nelle preparazioni di cuochi del periodo, come Scappi e Romoli.

SALSE E SUGHI IN BIANCO
Per creare delle salse per la pastasciutta non si è aspettato l’arrivo del pomodoro. Esisteva, ad esempio, la salsa di noci, presente in diverse regioni. Nel parmense, in particolare, per il pranzo di Natale, era tradizione offrire pasta condita con ricotta e noci. Ad essa si accoppiava una pasta, i pegai, sul tipo dei Maltagliati fatti a mano, con un impasto preparato con farina di grano e di castagne. Esisteva, nel XVI secolo, una agliata fatta una miscela di noci, pane ammollato nell’acqua tiepida, aglio e pepe, con un’ulteriore aggiunta di salsa di erbe aromatiche e mollica di pane. Nel testo di Guglielmino da Prato sono presentate parecchie ricette di pasta. Tra queste se ne evidenziano alcune, proprie della cucina piemontese. Infatti, la salsa per il condimento delle lasagne è realizzata con sangue fresco di lepre. Nel corso dei secoli, le ricette regionali si moltiplicano. Da testi del XIX secolo, si apprende il grande numero di salse, sughi e intingoli vari, assommatisi. Tra questi il Pesto ed i sughi di pomodoro, affollano il menù, caratterizzandolo.

 

I mille condimenti della pasta: il formaggio

 

Le modalità di preparazione di un buon piatto di pasta sono infinite come i condimenti con cui è presentata. Dal sugo di pomodoro, alle verdure, pesce e carne di vario tipo, spezie e tant’altro. Le varianti regionali, dai gusti più delicati, al nero di seppia, ai gusti più decisi o raffinati della preparazione dei migliori chef. Tutto concorre a dare alla pasta quell’originalità sempre nuova e diversa, che la contraddistingue.
La sua storia è anche quella dei suoi condimenti, popolari o aristocratici che siano. Si comincia con il formaggio, per passare ai sapori agrodolci, con zucchero e cannella aggiunti, la delicatezza del burro e della panna, poi la freschezza del basilico, per arrivare, infine, al gusto aspro del pomodoro, tanto disprezzato e così popolare. Mille sono le ricette come mille sono i suoi colori.

IL FORMAGGIO
Il primo dei condimenti della pasta nel medioevo fu il formaggio. L’abbinamento era talmente scontato, che nell’immaginario paese di Bengodi vi era una montagna fatta tutta da maccheroni e ravioli, appena scolati, ricoperti da abbondante parmigiano grattugiato. La coppia pasta e formaggio, appare, comunque, per la prima volta, nel 1284, in uno scritto di Salimbene da Parma, che narra di un certo Giovanni da Ravenna, mangiatore di lasagne spruzzate di formaggio grattugiato. Il piatto rientra pure tra le ricette presenti nel primo celebre libro di cucina del medioevo, intitolato “Liber de coquina”. La portata, inoltre, veniva ulteriormente insaporita dall’aggiunta di varie spezie, secondo i gusti, com’era uso nel medioevo.
Nel Cinquecento, l’insieme, pasta e formaggio, viene nelle Corti reso più dolce con lo zucchero. Contemporaneamente nelle locande si serve la pasta con formaggio, cannella e pepe (da una descrizione di padre Labat). Successivamente, a Casanova, prigioniero nel carcere di Venezia, viene servito un piatto di pasta, formaggio e burro. La stessa ricetta veniva servita, nel ‘700, a Napoli, dove, però, il burro veniva sostituito con strutto di maiale, sotto forma di minestra. L’abbinamento è lodato, inoltre, da Grimod de la Reynière, che scrive: ”Da questa attrazione risulta una Minestra davvero gradevole”.
Spesso, al parmigiano veniva sostituito il caciocavallo grattugiato. Nel secolo seguente, poco dopo l’Unità d’Italia, nel mezzogiorno, è confermato l’utilizzo di caciocavallo, per la popolazione più umile (riportato da David Silvagni). Con l’apparire, invece, delle classi piccolo borghesi, sulle tavole delle famiglie benestanti, vengono introdotte salse nel consumo della pasta. Le nuove abitudini differiscono da quelle delle classi aristocratiche.

 

Si afferma in Italia la cottura “al dente” della pasta

 

Fino alla metà del XIX secolo, per la pasta si prosegue con una cottura in acqua e una stufatura. Cambiando, però, gli stili, si ottengono più pareri. I francesi iniziano a criticare la cottura all’italiana, ritenuta insufficiente, mentre in Francia la pasta continua ad essere stracotta. Dall’altro lato vi è la cottura alla napoletana, più “vierd”, cioè non eccessiva. A Napoli, infatti, prevale il gusto dei “maccaronari”, cioè di quei popolani che vendevano per le strade pasta calda e fumante, per poche lire. A qualsiasi ora del giorno poteva essere chiesto un piatto di pasta. In ore particolari, affollate di molta gente, per servire tutti, la cottura doveva essere la più veloce possibile. Il maccaronaro tendeva, quindi, ad abbreviare i tempi di cottura e di servizio. Ne usciva una pasta in tutta la sua freschezza, soda e con nerbo.
Il gusto di questi maccheronari viene assunto dalle classi borghesi. A fare la differenza è la qualità del prodotto, preparato con semola di grano duro e ben lavorato ed essiccato.

Le classi nobili erano abituate alla consumazione di pasta fresca, dal gusto morbido e raffinato, fatto di minestre, creme e salse speciali. Il popolo, invece, guardava alla sostanza. La società napoletana mutuò l’uso delle cotture brevi. Difatti, se da una parte Latini non approfondisce la problematica della cottura, più tardi, al contrario nel 1839 Ippolito Cavalcanti sul suo testo de Cucina teorico-pratica, consiglierà una cottura veloce della pasta. All’unificazione italiana, la maniera napoletana si diffuse in tutto il paese, finché, in una pubblicazione divenuta la Bibbia della gastronomia, Artusi editerà il suo famoso libro di cucina, dove confermerà la maniera di cuocere la pasta in tempi brevi, lasciandola “crudetta”.

 

Cottura della pasta? Il tempo necessario per due paternostri

 

La pasta, nel periodo medievale, era cotta principalmente nel brodo, che poteva essere di cappone o di carne. Sembra che in periodo quaresimale fosse cotta direttamente in acqua. Esistono documenti che ci parlano di pasta cotta nel latte. Si evidenziano, infatti, i “vermicelli cum lacte”.  La pasta si immergeva, anche allora, quando l’acqua era in fase di ebollizione. Ma è sui tempi di cottura che i dati non tornano. Alcuni manoscritti parlano di un’ora di cottura, altri di due ore. È d’obbligo diffidare di queste informazioni. Infatti, per quanto riguarda la pasta ripiena i dati cambiano. Martino consiglia di bollirli per il tempo necessario per dire due paternostri (altri quattro). I ravioli vanno cotti, comunque, lentamente, affinché non si rompano. La rapidità era consigliata per i ravioli “ignudi”. Il testo di Martino, con i dati riferiti, ci conferma la sua abilità e, soprattutto, il controllo sapiente di tutte le fasi di lavorazione di una buona pasta ripiena.

I dati, se confermati, proverebbero l’ipotesi che, al tempo, la pasta veniva gustata molto cotta, cioè “fondente”, per eliminare l’amido che conteneva. Un proverbio del tempo, infatti, recitava: “grosso come l’acqua dei maccheroni”. L’acqua di cottura, era senza sale, molta per quantità, torbida e collosa. A questo si aggiunge che all’epoca, grosso significava sciocco. Per cui il proverbio indicava una persona sciocca, che si lasciava abbindolare facilmente. Sembra che il significato del proverbio sia confermato nella Lettera in proverbi del Vignali, del 1557.
È comunque assodato che i tempi di cottura della pasta fossero lunghissimi. Il cuoco Martino suggeriva di cuocerla circa mezz’ora ”perché ogni pasta volle essere ben cotta”.
Questo accadeva, non solo per un problema di gusto, ma soprattutto, in campo medico. Si riteneva infatti che la pasta poco cotta procurasse costipazioni o la calcolosi renale. Un medico del XIII secolo, Arnaldi di Villanova, consigliava di “farla cuocere a lungo e servirla con molto latte di mandorle”. Tale modalità tecnica (della pasta scotta) rimase nell’usanza per alcuni secoli, per poi variare. Nei trattati di cucina del Rinascimento, la cottura non è precisata, ma dai testi si suppone sia la stessa del periodo medievale. Ma già Scappi, successivamente, consiglia mezz’ora (dimezzando i tempi) per una minestra di maccheroni alla romanesca. Terminata verrà posta sul piatto in tre strati, conditi con formaggio grattugiato, zucchero e cannella (quindi un gusto dolce). Dopo di ché, la pietanza andava stufata lentamente con il calore basso della cenere, per un’altra mezz’ora. Questa tecnica era utilizzata anche, nel XVII secolo, dai cuochi francesi.

La pasta “fondente”, cioè molto scotta, riportata anche da Romoli, inizia a variare con il XVII secolo, con una progressiva diminuzione dei tempi di cottura, allora così lunghi. Giovanni del Turco, musicista fiorentino, iniziò a rivedere le ricette del maestro Scappi. Parlando di cottura, il musicista, una volta cotta “a punto” la pasta, suggerisce di fermare l’ebollizione dell’acqua della pentola, con l’aggiunta di acqua fredda, per far rinvenire i maccheroni e renderli più corposi. Naturalmente, raccolse molte critiche dai grandi cuochi del tempo. La cottura della pasta, alla fine del XVII secolo, diventò una fase da migliorare. Gli chef si misero al lavoro, variando le modalità della cottura. Antonio Latini confeziona i suoi tagliolini di monica, cioè fatti nei conventi dalle suore. Sono cotti nel brodo, ma per breve tempo, essendo molto sottili. Nel Cuoco piemontese, libro del 1766, le tagliatelle fresche, invece, devono passare dall’acqua bollente velocemente all’acqua fredda. Condite con burro e formaggio grattugiato, indi gratinate al forno. Anche un altro cuoco, Francesco Chapusot, divide la cottura in due fasi. Per primo, le tagliatelle devono cuocere in acqua bollente, per 10 minuti circa, poi condite e, infine, mantecate sulla brace, per altri 10 minuti.

La pasta ed i viaggiatori in Italia tra XVII e XVIII secolo

 

I viaggiatori stranieri, che visitano l’Italia, nel XVII e XVIII secolo, oltre ai monumenti, annotano sui loro diari l’amore per la pasta degli italiani, cibo prevalentemente locale e popolare, evidentemente già molto diffuso. A Sanremo, Padre Giambattista Labat mangia per la prima volta la pasta di Genova, già rinomata. Il piatto non gli piace molto, ma annota l’esperienza e soprattutto si guarda intorno. Anche un altro viaggiatore, Jouvin de Rochefort, è colpito dall’attaccamento e dal particolare modo di dire popolare: ”Maccheroni bene mio”.
La pasta secca ha come vantaggio di essere pronta all’uso. sia per quanto riguarda la semplicità della preparazione, ma anche, essendo secca, per la possibilità di approntare un pasto su due piedi.. facendo fronte ad ogni evenienza. A testimoniarlo è Giacomo Casanova, celebre personaggio del ‘700 veneziano. Egli ci racconta come, in compagnia di una bellissima donna, in un viaggio da Firenze a Bologna, arrivò di notte ad una sperduta locanda. Essendo ora tarda, l’oste non aveva da offrire loro da mangiare. Casanova, non perdendosi d’animo, gli ordinò di preparare un piatto di maccheroni secchi, che fece poi condire con burro, uova e parmigiano. Sempre verso la fine del XVIII secolo, Il prete, Felice Libera, in uno scritto di cucina descrive alcune ricette di pasta. La particolarità è che compone il testo in Trentino. Se ne desume l’incredibile diffusione della pasta, pur inventata al Sud, in ogni zona d’Italia.

Questo accadeva al Nord. A Napoli, invece, il consumo della pasta era così ampio da essere cibo diffuso ed essenziale per la popolazione. Ce lo attesta Jérôme de Lalande, viaggiatore francese, nel 1765-66. Tuttavia, la pasta secca, pur avendo un costo basso e conveniente, non era ancora diffusa in maniera totale. Le persone in condizioni miserabili continuavano la loro vita di sopravvivenza. Basti pensare che la pasta in brodo dei signori, per il popolo si realizzava con acqua e grasso di maiale, con sopra un po’ di formaggio grattugiato.
Goethe, forse il più importante tra i viaggiatori, tornando dalla Sicilia a Napoli, nel 1787, appunta sul suo diario, la facilità di mangiare i maccheroni. Si potevano acquistare ovunque. Sul posto la pasta viene cotta e servita con sopra del parmigiano. Scrive: Si cuociono di solito in semplice acqua e il formaggio grattugiato dà al piatto grasso e gusto”. Il luogo comune che vuole i napoletani mangiare gli spaghetti con le mani, nasce da una descrizione di Giuseppe Gorani, del 1793. Davanti a lui un popolano, che “afferra i maccheroni avvolgendoseli sulle dita con abile gesto che forestieri sanno imitare”.
Questo aspetto fece parte del folklore napoletano. Successivamente, infatti, nel XIX secolo, Andrea de Jorio, in uno dei suoi libri, trattando di Napoli, consiglia a chi vuole qualche tocco di colore pittoresco di interpellare un tavernaro, lungo la Marinella, per farsi insegnare a mangiare la pasta alla napoletana, cioè, direttamente con le mani. La popolazione napoletana in ristrettezza economica imparò a mangiare la pasta ma non molto a condirla. I piatti di pastasciutta della tradizione culinaria della città sono, infatti, semplici ed essenziali, e forse per questo più difficili da realizzare.

 

Il trionfo del timballo all’apice della cucina italiana

 

Sontuoso timballo, descritto nel famoso romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958.

 

Nel XVIII secolo il timballo di maccheroni in Italia non era stato ancora inventato, anche se esisteva qualche ricetta del genere in precedenza. Nella fantasia di allora esistevano, comunque, diversi modi di mangiare i maccheroni, in variante paté o farcia.
Padre Labat scoprì, con grande sorpresa, in Sicilia, il paté di maccheroni, molto simile al timballo, descrivendone attentamente la fattura. Crisci, invece, ne segnalò l’uso come farcia di calzoni preparati con pasta da pizza e cotti al forno. Antonio Latini ci riporta di un gallo disossato con un ripieno di pasticcio di maccheroni, definibile come un paté d’uso a Napoli.
Nella grande cucina napoletana, Vincenzo Corrado, nel suo libro, Cuoco galante, presenta diverse ricette di timballi e sartù, come i maccheroni alla Pompadour, favorita di Luigi XV di Francia. Il termine sartù deriva proprio dal francese Surtout (una decorazione di centrotavola). Propone, inoltre, una sua ricetta, che prevede una base di pasta sfoglia con sopra un pasticcio di maccheroni. Il tutto da cuocere in forno.
Giovanni Vialardi e Francesco Chapusot, altri cuochi del periodo, ma del Nord, presentano nel loro ricettario numerosi piatti di pasta, in particolare timballi di maccheroni. Essendo piemontesi, creano la ricetta del timballo di taglierini alla monglas, che era una salsa francese.
Nel XIX secolo, nell’Italia risorgimentale e in Francia, dall’Impero alla Restaurazione, il timballo rappresenta l’apice della cucina italiana. Il cuoco francese Antonin Carême, si rifà intensamente ad essa. Tesse le lodi della pasta italiana, insuperabile, come qualità superiore, aspetto e tenuta di cottura. Molti sono i notabili che la consumano volentieri, come Dumas, Rossini e Grimond de la Reynière.

Pasta secca: pregiudizi al Nord e grande consumo al Sud

 

Pur essendo presente sin dagli inizi della storia della pasta, la variante secca, realizzata con grano duro, si è sviluppata in età più tarda, raggiungendo la sua piena affermazione, con lo sviluppo dei pastifici industriali nel XX secolo. La cucina oggi comprende le due varianti, secca e fresca, in un ampio ricettario che raccoglie preparazioni storiche e moderne.

Al contrario, nel XVII secolo, Guglielmino da Prato scrive un breve trattato di economia domestica dove critica largamente l’uso della pasta secca. Non è solo frutto dei pregiudizi dell’epoca, ma lui stesso la ritiene fatta di ingredienti popolari, con farine vecchie, per cui il suo consumo potrebbe essere indicato solo in periodi di grande carestia. Non è alimento per nobili (in particolare del Nord), i quali dovranno preferire di mangiare pasta fresca, appena fatta in famiglia. Tali pregiudizi, col tempo, divengono un luogo comune. Prodotta principalmente nelle regioni del Mezzogiorno, la pasta secca è ritenuta infatti alimento vile e popolare. Non stupisce se tali presupposti finiscono per creare il soprannome dei napoletani come “mangiamaccheroni”.

Vari formati di pasta secca.

Ma se nel XVII secolo, abbiamo cuochi che disprezzano la pasta secca, ne abbiamo altri che, nonostante i pregiudizi, inseriscono questo tipo di pasta nel menù del proprio signore. È il caso del cuoco Giovan Battista Crisci, che spazia nel campo della pasta prodotta nelle regioni meridionali, cucinando maccheroni di Puglia, maccheroni di Palermo e tagliarini di Cagliari, oltre che vermicelli napoletani. Tutti tipi di pasta detta “d’ingegno”, prodotta con torchio e trafila. Crisci è un cuoco innovatore, che non ha paura del futuro e confeziona i suoi “vermicelli d’amido”, simili alla pasta cinese. Tuttavia, non avendo ulteriori informazioni, se non da lui stesso, è difficile comprenderne la fattura.

Sta di fatto, che nello stesso secolo, abbiamo l’Italia gastronomica divisa in due. Mentre nel Meridione la pasta arriva sulle tavole della nobiltà napoletana, al Nord si è ancora ostici nei suoi confronti. Abbiamo, infatti, nel XVII secolo, Bartolomeo Stefani, cuoco del Nord, che sembra disconoscere la pasta, non solo quella secca, ma, addirittura quella ripiena. Al Sud, invece, Antonio Latini, contemporaneamente, porta in tavola un brodo di cappone con maccheroni di Cagliari ed una spolverata di parmigiano.

Al di là delle differenze nel XVII secolo, tra Nord e Sud dell’aristocrazia gastronomica, il consumo e la “sperimentazione” continuò a produrre sempre nuove ricette con la pasta, dando vita a quella prolifica fantasia in cucina che abbiamo ereditato dal passato. A Napoli, in particolare, si creano infinite rielaborazioni, culminate con l’invenzione di timballi e sartù. Questo ricco tesoro di esperienze e varietà di ricette, andò oltre i confini locali, conquistando ampi mercati e, di conseguenza, una serie di riscontri letterari anche all’estero, come è d’esempio la trattatistica gastronomica francese.