La pasta ripiena e i ravioli ignudi (senza pasta)


Giovanni del Turco, cuoco dilettante, del XVII secolo, cucinerà diversi piatti di tortelli e di ravioli, con un ripieno, molto delicato, che primeggia sulla pasta stessa. Nel servizio settimanale dei cuochi, sono presenti piatti di magro e piatti di carne, richiesti dalle scadenze liturgiche della cristianità. Il venerdì era segnato di magro, quindi con verdure e pesce, mentre negli altri giorni si consumava carne, accompagnata sempre da verdure. Al venerdì si potevano gustare ravioli ripieni semplicemente con formaggio fresco o crema di formaggio. Nei giorni di grasso le possibilità erano numerose. Per lo più si consumava carne di maiale, pollame e in particolare cappone.

Dipendendo dal ripieno, ravioli o tortelli potevano essere sia di magro che di grasso. Esistevano, quindi anche i tortelli di Quaresima, confezionati con crema di formaggio unito a verdure e spezie. Il loro uso, tuttavia, non era rigidamente legato alla Quaresima, ma si cucinavano in qualsiasi giorno dell’anno. Per i tortelli di grasso, invece, il ripieno era realizzato con carne di maiale o pollame vario. In ogni caso, il ripieno poteva essere anche molto elaborato. Tra le antiche ricette ve n’è una molto ricca, con carne di maiale, formaggio, uova, datteri, uvetta secca, erbe aromatiche, zafferano e spezie varie. Un’altra è invece è composta di zucca unita a mandorle e aggiunta di zucchero. In pratica, i moderni ravioli di zucca mantovani.
Così come il ripieno era aperto alla fantasia, ciò valeva anche per il formato. Su tale aspetto non esistono documenti che ne trattino in particolare. Sappiamo che esistevano diversi formati, ma cucinati fritti. Per quanto riguarda ad uso di pasta, mastro Martino nella sua opera, ne cita diversi, perlopiù sul tondo o quadrato. Accenna anche all’uso di stampi.

Ravioli ignudi

I RAVIOLI IGNUDI
Ravioli e tortelli dovevano presentarsi con una pasta molto fine, per migliorare il gusto del ripieno. Si arriva anche a soluzioni particolari, come con i Ravioli senza sfoglia, citati da Salimbene da Parma, nel XIII secolo. Erano sostanzialmente ravioli senza involucro. Venivano indicati dall’autore come “raffinatezza della golosità umana”. I cosiddetti ravioli “ignudi”, si ritrovano nei testi successivi di Martino, Scappi e Romoli. Dal Rinascimento in poi, vengono utilizzati nei ricettari regionali soprattutto dell’Italia del Nord, con diverse ricette e varianti. Divennero, soprattutto, ad uso della cucina romagnola. La loro fattura fu consacrata, nel XIX secolo, nel libro di Pellegrino Artusi, che dà alcune ricette ad “uso di Romagna”. Volendo, però, utilizzare un taglio prettamente regionale, Artusi cita solo i ravioli romagnoli, ignorando tutte le altre tradizioni regionali, che riportano essenzialmente pasta ripiena. In un lento ma progressivo andamento, la pasta ripiena ha avuto una diffusione sempre più larga, anche oltrepassando i confini nazionali, come dimostra il loro successo in Francia.

Oggi quando si parla di pasta ripiena, ravioli e tortellini sono quelli ad involucro. Il consumo attuale si rifà a pochi tipi di formati, desunti soprattutto dalla tradizione dell’Italia del Nord, nati tra il XVI e XVII secolo. In particolare, della Lombardia dove venivano indicati, nel linguaggio popolare, come “annolini”, da cui il nome di agnolotti. Tuttavia, l’utilizzo della pasta ripiena, molto diffusa nelle Corti italiane, perse la sua importanza lentamente, al contrario che nella cucina francese, ed in genere europea. In Italia fu “riscoperta” agli inizi del XX secolo. Alcuni cuochi borghesi rilanciarono il loro consumo. L’iniziativa ebbe successo e portò, a metà del secolo, alla riscoperta della sua preparazione regionale. Tanto che, nel suo testo, Luigino Bruni suddivide la pasta tra “ricette storiche” e “ricette d’autore”.

Gusti e formati iniziali della pasta fresca

 

Lasagne con formaggio grattugiato sopra (e varie spezie), sono tra i primi piatti di pasta consumati nel primo medioevo. Una lavorazione, quindi, semplicissima, dove è la pasta ad essere l’ingrediente principale. È in pratica una sfoglia sottile, ritagliata in quadrotti regolari. Le lasagne, in un’altra ricetta, erano cotte nel brodo di cappone e poi servite con grasso dello stesso cappone e formaggio. Questi riquadri, in alternativa erano presentati in strati sovrapposti, con un ripieno di noci. Nell’impasto potevano essere aggiunte chiare d’uovo o acqua di rose. Già nell’antichità la pasta si lavorava o meno colorata con zafferano. L’usanza durò fino al XVII secolo. Questa tecnica, in seguito, verrà riscoperta nell’età industriale.
In Italia la tendenza, già in epoca antica, fu quella di creare sempre nuovi formati. Così verranno realizzati I croseti, simili alle orecchiette pugliesi, o le formentine, somiglianti alle tagliatelle, citate nel 1337 e un secolo dopo dal cuoco Martino. Venivano consumate a Reggio Emilia. Le formentine erano dette, anche, pancardelle dai mantovani, forse simili alle attuali pappardelle. Queste rientrano nel menù di Domenico Romoli, cuoco professionista, impiegato al “servizio di bocca” nelle corti cardinalizie di Roma. Tra le sue ricette erano presenti le pappardelle alla lepre di Grosseto e di Arezzo, o pappardelle alla romana.

Strozzapreti

Alla fine del XV secolo, si trovano i longeti avantazadi, mentre, nel secolo seguente, appaiono i famosi strozzapreti, divenuti poi tradizionali a Napoli. Il cuoco Scappi cucina diversi piatti con formati vari, ma realizzati questa volta con semola di grano duro. Le sue ricette, ma in genere nel corso dell’intero secolo, tendono al dolce, come gusto predominante nella cucina dell’epoca. All’impasto viene, infatti, aggiunta una grande quantità di zucchero. Negli stessi impasti prende piede di inserire numerose uova.
Il cuoco Antonio Latini (nel XVII secolo) confeziona tagliolini con due uova intere più 2 tuorli. L’abbondanza di uova regna in una ricetta di Francesco Chapusot. Realizza, infatti, delle tagliatelle con ben otto tuorli in una libbra di farina, a cui viene aggiunto formaggio grattugiato (un’oncia) e burro fresco (mezza oncia). Una specie di tagliarini alla piemontese. Successivamente, nel XVII secolo, nell’impasto viene pure aggiunto del latte.
Nel 1610, Vittorio Lancellotti, cuoco professionista, presenta, in un banchetto, delle sfoglie di pasta ottenute con farina, latte, burro, rossi d’uova e pinoli. Le lasagne venivano, quindi, cotte e servite con una spolverata di parmigiano grattugiato. La stessa lavorazione è realizzata da Giovanni del Turco, musicista e quindi cuoco amatoriale, con un impasto di farina, latte e acqua tiepida. Esegue una ricetta di maccheroni alla veneziana, dalla forma dissimile da lunghi nastri o quadrati di pasta, di cui abbiamo parlato. Il piatto era portato in tavola, con un condimento composto da burro fresco, parmigiano grattugiato, con in più un tocco di cannella.

La pasta negli antichi trattati di cucina

 

Essendo i trattati, i ricettari e i manoscritti di cucina medievali, redatti per i nobili, vertevano soprattutto su ricette con pasta fresca. L’analisi di questi testi ha individuato, comunque, una decina di ricette realizzate con pasta secca, nei formati allora in commercio, quali tria, vermicelli e maccheroni. Una di queste ricette di “pasta da ferro”, che li considera, prevede una portata per 12 persone, senza però specificare se con pasta fresca o secca. Altri due manuali, che si evidenziano dagli altri, sono il Liber de coquina e il libro tria genovesi per li ‘nfermi. In essi vi sono ricette di tria, pasta secca lasciata essiccare.

In un altro testo, redatto da Martino, si parla di maccheroni siciliani e di maccheroni alla genovese, ma realizzati, esplicitamente come pasta fresca, tanto che l’autore descrive con cura la loro fattura. Si parte da farina di grano tenero con aggiunta di acqua e bianco d’uovo. Tuttavia, arrivati alla fase del modellaggio, l’autore specifica che questi maccheroni possono essere essiccati per mangiarli anche più in là nel tempo, per almeno tre anni. L’essiccazione, comunque, deve essere fatta in estate, poiché vanno realizzati nel periodo della luna di agosto. Ugualmente vale per i maccheroni alla “zenovese”, in pratica dei tagliarini, che però possono essere mangiati anche subito. Anch’essi sono lavorati con una sfoglia di pasta all’uovo, tirata con il mattarello, arrotolata e tagliata orizzontalmente, per realizzare i taglierini.

In questo periodo vi era diffidenza verso l’uso di pasta essiccata, perché se ne disconosceva la fonte, la data di confezionamento, le condizioni di trasporto e di immagazzinaggio. I grandi cuochi professionisti dell’epoca, perciò, preferivano la pasta fresca, mentre quella secca veniva acquistata dagli speziali del posto. Essendo i cuochi, sovente, anche autori di testi di cucina, nella manualistica del tempo, rimane questa diffidenza, dimostrata dalle poche ricette con pasta secca presenti nei loro trattati. Inoltre, i cuochi professionisti, che lavoravano al servizio dei nobili, come, ad esempio, mastro Martino, che cucinò per gli Sforza e poi per il patriarca di Aquileia, non avendo necessità di stoccaggio delle merci, preferivano i prodotti freschi e non essiccati o affumicati, oppure carni o pesci salati. Tutte cose, invece, che facevano parte essenziale della sussistenza delle classi più povere. Quando però, anche se raramente, i cuochi professionisti operavano con pasta alla siciliana, che aveva la caratteristica d’essere secca, mettevano in evidenza la loro abilità nel cucinarla.

 

Nuovi linguaggi per un dizionario gastronomico generico

 

Raffigurazione di Maestro Martino

 

La sperimentazione in cucina su nuove ricette di pasta con sempre nuovi formati, comporta l’ideazione di un qualcosa che poteva essere descritto solo con un vocabolario gastronomico, per i tempi del tutto generico. Maestro Martino, nel XV secolo, sfrutta parole come “vivande di pasta” o “minestre di pasta”. Il maccherone per lui consiste in un formato di pasta lunga, con sezione tonda o cava, ma anche in nastri di pasta a lunghezza variabile. Bartolomeo Scappi, nel XVI secolo, ad esempio, descrive una ricetta che lui chiama “minestra di maccheroni detti gnocchi”. Il cuoco marchigiano Antonio Nebbia, nel XVIII secolo, scrive un libro intitolato “De maccaroni e gnocchi”. Invece nel testo descrive solo piatti di lasagne e gnocchi di tutti i tipi. In effetti il vocabolario gastronomico attuale, nascerà solo nel XIX secolo, con i grandi trattati di cucina (vedi Artusi).
Il termine “pasta” entra in sordina nel vocabolario gastronomico e se ne disconosce il creatore, in quanto riferito genericamente alla lavorazione di un impasto e, perciò, è inclusivo di diverse attività manuali che lo prevedono. Tipo per sfoglie, torte di pasticceria, pane e focacce. Inoltre, i due termini, pasta e maccheroni, inizialmente sono considerati tra loro come sinonimi di pasta alimentare. In tale senso vengono utilizzati nel testo “Memorie di mangiar di pasta” (un trattato di scalcheria), scritto da Giovambattista Rossetti, nel 1584.
In questo stesso periodo, nascono due termini, nel Mezzogiorno, che indicano due metodi di lavorazione, a macchina o manuale. È il caso di “pasta di ingegno” e “pasta da ferro”. In quest’ultimo caso, si intende indicare una lavorazione manuale con un ferretto, su cui si modellano i maccheroni cavi detti, “alla siciliana”. Con il primo termine (“pasta di ingegno”) si distingue, invece, la pasta secca, prodotta con trafilatura al bronzo, direttamente a macchina.
Generalmente la pasta secca, fatta con semola di grano duro, è stata sempre alimento dei poveri. Quando a Napoli è introdotta la cosiddetta “pasta di ingegno”, essendo una nuova tecnologia, quindi, all’avanguardia, è ben accetta e gradita dai nobili della città. Giusto il tempo di superare la nuova moda del momento.

 

I due tipi di pasta a confronto: quella secca e quella fresca

 

I due tipi di pasta, quella secca e quella fresca – la prima realizzata con semola di grano duro, e la seconda con farina bianca di grano tenero – hanno accompagnato sin dal medioevo, lo sviluppo del mercato. Storicamente, però, la pasta fresca ha sempre avuto la preferenza culinaria, mentre quella secca era limitata sostanzialmente al popolo. Nel secolo scorso, la pasta secca, con l’industrializzazione, ha conquistato il mercato e i consumi di tutti. Vi è stata un’esplosione di ricette che hanno evidenziato il prodotto stesso. La pasta all’uovo, pur commercializzata, è rimasta a livello domestico. Tuttavia, il mercato della pasta fresca, ultimamente, sta recuperando punti a suo favore, grazie a sempre nuovi formati, ma da consumare in pochi giorni. Evidentemente, il pubblico gradisce le “novità”.


Gli inizi medievali

Al tempo della classicità romana, esistevano solo due termini per indicarla: lagana e tracta, che consistevano in semplici sfoglie di pasta. Tuttavia, tutti gli storici, indicano gli arabi come gli inventori della pasta. Questa comunque, era rappresentata da una specie di spaghetti e dalla pastina da brodo.
La cucina italiana medievale, invece, sin dagli inizi, presenta una grande attenzione verso la pasta. Esistevano, già agli albori (tra XIV e XV secolo), ricettari di cucina ricchi di varianti nel prepararla. Si contavano almeno 120 ricette differenti. I ricettari medievali erano finalizzati esclusivamente alla cucina dei nobili, che prediligevano, soprattutto, la pasta fresca e quella ripiena. In ogni caso, era un cibo per ricchi e non per tutti. I ricettari, quindi erano scritti per i grandi cuochi professionisti.
Nello stesso periodo, nascono i primi formati di pasta. Nei ricettari vengono, altresì, descritte le modalità di fattura. O si ricavava dall’impasto una sfoglia tirata a mattarello, o si producevano con le mani dei piccoli formati, caratterizzati con le dita stesse. Nel primo caso, si ricavavano dalla sfoglia tagliarini, pancardelle, longeti, triti e formentine. Sempre dalla sfoglia, ma tagliata in formato piccolo, si ricavavano bindelle o stringhe per la creazione dei maccheroni. Nonostante quello che si pensi, sin dagli inizi, era presente anche la cosiddetta pasta ripiena, molto apprezzata anche a quel tempo, che aveva origine dal laganon. Il formato dei vermicelli era ancora poco citato nei ricettari medievali. Così come passava sotto silenzio la cosiddetta pastina graniforme da brodo, tanto sviluppata nel mondo arabo. Nei testi di Martino, del XV secolo, appaiono, però, i Millefanti, costituiti da palline di pane e farina, della grandezza di chicchi di grano (o di riso), da consumarsi nel brodo, o di manzo o di pollo. Se per il momento non possono essere considerati pasta a tutti gli effetti, ispireranno in seguito la pastina che noi tutti conosciamo. Infatti, nel XVI secolo, Bartolomeo Scappi, cuoco pontificio, crea i Millefanti fatti con la farina e poi essiccati. Quindi un primo formato di pasta, che in seguito darà origine alle pastine da minestra, chiamate sementine o semoline. Una vera e propria miniera di formati diversi, nel XVIII secolo. Si concretizzava, così, nel lungo tempo, l’influsso culturale dovuto al regno musulmano di Spagna.
Il brodo e le minestre avevano grande importanza nell’alimentazione medievale. Esiste, in particolare, una ricetta del XIV secolo, in un manoscritto anonimo, che ci fa capire il gusto delle pietanze medievali. È la ricetta dei “vermicelli a brodetto”. Essa era a base di brodo di carne o di pesce, con latte di mandorle, pezzi di salsiccia fritti e spezie varie. In esso tortelli cotti senza involucro.
Raro è il caso di trovare nei ricettari italiani del XIV e XV secolo, l’uso di pasta lunga nelle minestre. Questo perché l’attenzione in Italia, mirò alla creazione di piatti di pastasciutta, con ingredienti ed accostamenti innovativi. Migliorando e variando i condimenti, si diede vita ad una cucina impensabile ai loro tempi: quella della pasta attuale.

La pasta, un successo del XX secolo in Italia come all’estero

 

 

La popolarità della pasta nel mondo si deve a piccoli, improbabili personaggi: gli emigranti. Queste persone hanno portato ovunque la nostra cultura e i nostri gusti, che sono divenuti modello di riferimento. Gli emigranti hanno aperto piccoli ristoranti italiani, dove gustare le nostre eccellenze gastronomiche, in particolare la pasta. Oggi, grazie a loro, l’Italian Food è un modello di successo nel mondo. La pastasciutta è divenuta alimento simbolo dell’Italia, e l’espressione “al dente”, che è intraducibile, fa parte del nostro stile di vita, in quanto storico. Già i napoletani usavano l’espressione “il nervo”, per indicare il giusto grado di cottura. Ugualmente nel suo celeberrimo testo sulla cucina dell’Ottocento, Artusi raccomanda di mangiare gli spaghetti “durettini”.
L’abitudine italiana, però, non vuol dire anche quella estera. Altrove la pasta viene consumata scotta, non sempre ma spesso come contorno. Per questo la pasta, la pizza e la cucina fanno parte dell’invidiabile Italian Stile, cioè del nostro stile di vita.

Se a tavola, in Italia, la prima portata è la pasta, cosa considerata ormai scontata in quanto usuale, il nostro stile di vita è dovuto al successo dei pastifici industrializzati, che hanno saputo, producendo di più e a basso costo, conquistare sicuramente il mercato italiano. Questo è avvenuto con la meccanizzazione totale degli stabilimenti, cioè a partire dagli anni ’20, per affermarsi pienamente dal secondo dopoguerra. Il miglioramento di vita, lo sviluppo industriale e l’esplosione dei consumi, ma soprattutto la raggiunta omogeneità dei costumi, ha comportato sicuramente il successo nazionale della pasta. I dati, infatti, ci riportano che il consumo di pasta passò, tra il 1936 e il 1954, dai18 ai 28 kg pro capite.
Così, con il Sud ed il Nord insieme, la pastasciutta “al modo napoletano” è divenuta la pastasciutta “al modo italiano”. La pasta, alimento meridionale per eccellenza, ha reso giustizia di ogni torto subito dal Sud dopo l’Unità d’Italia, entrando nelle abitudini di tutta la realtà nazionale.

 

Innovazioni del XX secolo: paste colorate e paste glutinate

 


In Francia, all’inizio del Novecento (nel periodo della Belle époque), si diffusero le cosiddette “paste neve”. Erano scagliette leggerissime di pasta. Così raffinate e introvabili da costare dieci volte un’aragosta.

LA PASTA COLORATA
Poiché, invece, gli italiani preferivano le paste condite con pomodoro o con verdure, furono create le paste colorate, tra cui quelle con nell’impasto il 10% di liquido di pomodoro (pasta rossa) o di spinaci (pasta verde). Nel XX secolo, quindi, prese piede anche l’usanza di colorare la pasta, principalmente per dare la sensazione dell’uovo. Inizialmente con lo zafferano, dopo con il cardamomo e adesso con coloranti chimici. I coloranti, già da allora, erano denunziati direttamente sulle etichette o sulle confezioni. L’usanza italiana, tuttavia, non piacque al mercato americano, la cui produzione evitava coloranti (forse per distinguersi nella concorrenza).
Tra le altre sperimentazioni, in Sicilia si diffuse la “pasta a mano, uso Palermo”. La sua caratteristica era quella di non seccare “mai”. In pratica nell’impasto veniva aggiunto più sale (130 grammi di sale ogni chilo di semola), che permetteva di mantenere la morbidezza per lungo tempo.
Il settore delle paste ripiene rappresentò per lungo tempo una sezione mista a sé stante. Essa univa alla preparazione a mano le semplificazioni meccaniche. In pratica si produceva la sfoglia già ritagliata a macchina, a cui succedeva la lavorazione manuale, in genere femminile. Questo venne superato negli anni ‘20, quando apparvero sul mercato le prime macchine per la produzione integrale di ravioli, tortellini e cappelletti.

LA PASTA GLUTINATA
Nello stesso periodo entrano in scena le paste speciali con la presenza di particolari sostanze, ad esempio con l’aggiunta di glutine, diastasate e a uso medicinale. In realtà le proprietà medicinali del glutine erano conosciute da tempo. Nel 1728, infatti, Jacopo Bartolomeo Beccari scrisse un testo sulle sue qualità terapeutiche. Già allora era usanza aggiungere all’impasto della pasta un 10 o 15 % di glutine. Esse sono mirate in particolar modo al mercato dei bambini piccoli, o dei malati e convalescenti. In genere vengono utilizzate come paste da brodo e hanno formati diversi, spaghettini o pastina da minestra.
Il glutine sin dagli inizi, essendo considerato salutare e fortificante, era pubblicizzato sul mercato come tale. Il glutine, comunque, aumentava il valore nutritivo, un ottimo metodo per rinforzare i bambini piccoli e per i deboli di stomaco. Accadeva, a volte, che dei pastai a corto di semole, aggiungessero alla farina bianca del glutine per dargli consistenza.

 

L’attuale mercato della pasta, essenziale nella cucina italiana

 

Nell’era industriale, il Mezzogiorno italiano perde “l’esclusiva” sulla pasta. Con l’affermarsi della produzione su tutti i mercati, ovunque la pasta è vista come piatto essenziale della cucina italiana. Pasta e Pizza sono divenute ambasciatrici d’Italia. L’affermazione della pasta secca industriale e la sua elevata produzione comportano, a lungo andare, un cambiamento dei gusti alimentari. Nel Nord Italia, ad esempio, fino alla seconda guerra mondiale, si consumavano, soprattutto riso e polenta. Oggi predominano, un po’ in tutta la penisola, minestre e pastasciutta. Quello che era un alimento per ricchi è diventato comune per tutte le classi. Ormai la pasta è divenuta una portata nel menù alimentare degli italiani, mentre all’estero viene affiancata come contorno. Col tempo, le ricette per piatti di pasta sono aumentare enormemente, sfruttando l’editoria, come riviste, libri di cucina, rubriche su vari giornali per il pubblico femminile e, naturalmente, su internet e televisione.

Vari formati di pasta.

Il consumo maggiore d’uso quotidiano si registra soprattutto al Sud, mentre al Nord la pasta è considerata una valida alternativa a riso, polenta e minestre. Queste ultime vengono considerate un alimento leggero, per persone malate o bambini piccoli. La pasta fa parte della cucina mediterranea, ricca di verdure, in particolare modo, già a partire del mondo classico. Esiste anche una “dieta mediterranea” di cui fanno parte le paste dietetiche.

Oltre a ricette regionali, l’Italia si caratterizza per la varietà dei formati: quelli normali, quelli locali o cittadini e quelli specifici del pastificio che li produce. Oltre ai formati diffusi in tutta la penisola, come spaghetti o maccheroni, si trovano anche paste tradizionali di Sicilia, di Genova, di Napoli, di Puglia, od altro. L’uso è divenuto, però, così diffuso, da conseguire una normazione del settore, come la lunghezza di uno spaghetto o quella di un maccherone, con i loro spessori. L’Emilia Romagna è famosa per le paste all’uovo e quelle ripiene. Proprio in questo settore sono fiorite le paste speciali, con formati, sapori e colori. Il loro uso è entrato in voga, soprattutto perché permettono di differenziare l’offerta al pubblico di ciascun pastificio, evidenziandolo.

Il declino del mercato della pasta nel XX secolo


La produzione di pasta in Italia raggiunse il picco massimo agli inizi del XX secolo, per poi declinare nel periodo compreso tra le due guerre. Dopo la crisi degli anni ’70, in cui chiusero diverse fabbriche dell’arte bianca, oggi si è attestata ad un livello medio. Il colpo più duro fu la progressiva perdita nelle esportazioni, in particolar modo negli Stati Uniti, dove sorsero in sordina pastifici, che con l’affermarsi, fecero crollare le esportazioni italiane in America. Un dato per tutti: le esportazioni italiane, nel 1913, raggiungevano i 710.000 quintali di pasta, mentre già nel 1928 non superavano più i 120.000 quintali.

Persino la nascita dell’Unione Sovietica, produsse conseguenze negative al mondo della pasta. I raccolti di grano duro russo ed ucraino, che, nel periodo rivoluzionario, non arrivarono più in Italia, costrinse i pastai a diminuire la qualità del prodotto, finendo per miscelare semole a farine. Anche durante il periodo fascista, la pasta venne trascurata, registrando una limitazione delle esportazioni. Si registra, tuttavia, un abbassamento dei costi di produzione, ed un perfezionamento delle tecnologie per la lavorazione.

Sta di fatto che il periodo di recessione venne meglio sopportato dalle ditte del Nord, che aumentarono la loro produzione, al contrario di quelle del Sud che accusarono il colpo, con gravi perdite, pur essendo in numero maggiore. Non così a Torre Annunziata e a Gragnano, dove basandosi sulla lunga storia, la qualità del prodotto e sulla bravura imprenditoriale dei loro manager, si sono ritagliate una fetta del mercato.

Stabilimenti per la pasta nell’Italia di fine Ottocento

 

L’apparire di nuove tecnologie comincia a cambiare il mondo. Nel campo della pasta, le vecchie aree e le storiche città del Sud verranno meccanizzate. Ma le nuove possibilità permettono il fiorire di attività anche in posti senza grande storia. Così a Torre Annunziata e Gragnano, si affiancano il pastificio Tommasini di Milano, come in Toscana, il pastificio Dolfi e la Buitoni di Sansepolcro, fondata già nel 1827, ambedue premiati all’esposizione di Parigi del 1900 con una medaglia d’oro per la qualità dei prodotti. A Fara San Martino a Chieti (in Abbruzzo), spicca, dal 1887, il pastificio De Cecco, fondato da Filippo De Cecco. Ancora esistente è pure la Agnesi di Pontedassio (Imperia), nata nel 1824. Ormai chiuso è, invece, sempre in Liguria, il pastificio Astenga di Savona. Ancora a Parma, nel 1911, si costituisce la Barilla, la cui pasta continua ad essere affermata attualmente.
A Parma il pastificio più rinomato è quello di Ennio Braibanti, I suoi figli, Mario e Giuseppe Braibanti, divennero, nel 1933, gli ideatori e i realizzatori della pressa continua. Insieme aprirono, pure, il primo pastificio totalmente automatizzato, che, all’inizio dello scorso secolo sfornava pastine glutinante all’uovo, molto richieste, e paste con formati esclusivi.

Mulino Agnesi

FABBRICHE DEL SUD
Contemporaneamente, la tecnologia importata nel Sud Italia mette in evidenza molti pastifici anche in questa area. Sono inizialmente delle piccole industrie, ma ben attrezzate. Ad esempio, lo stabilimento Scaramella e l’azienda Amato & C. di Salerno, premiata all’esposizione parigina del 1900, e tutt’ora molto conosciuta. A Gragnano opera, invece, il pastificio Alfonso Garofano, fondato nel 1842 e premiato anch’esso all’esposizione di Parigi del 1900. Purtroppo, ha chiuso nel 1970. Attualmente esiste un altro pastificio Garofano, che però è stato fondato nel 1935.
Tra i maggiori stabilimenti siciliani, si distinse il pastificio Russo di Termini Imerese ed altri quattro: due posti a Catania, uno a Palermo ed un altro a Caltanissetta.
Nella zona pugliese operavano pastifici a Bari, Brindisi e Foggia. Sono divenuti pastifici storici quelli di F. Tamma e C. di Bari e l’azienda F.lli Divella di Rutigliano (Bari).
Le industrie meridionali, ed in particolare siciliane, avevano come caratteristica quella di unire un mulino ad un pastificio.