Essiccazione artificiale, il primato passa ai pastai del Nord

 

Se nel corso dell’Ottocento grande fu l’attenzione di società metalmeccaniche e pastai sulle varie fasi del processo produttivo, minore fu l’impegno riguardo alla fase dell’essiccazione. I pastai del sud potevano, infatti, contare sul sole ed il clima. Lo scirocco e la tramontana regalavano calore-umido e fresco-asciutto alla pasta distesa all’aperto. La stessa fase durava una decina di giorni. Quindi, mentre le altre fasi della lavorazione presentavano un principio di meccanizzazione, per quanto riguarda questa fase, si procedeva alla maniera tradizionale. Almeno questo accadeva nel Meridione.
In aree settentrionali, invece, il problema dell’essiccazione era veramente impegnativo. Con il clima di Parigi, la delicata fase comportava da uno a due mesi di tempo. Il favorevole clima di Napoli permetteva un’essicazione perfetta. Al nord vi erano problemi con le muffe, possibili fermentazioni e deterioramenti di varia natura. A questo si aggiungeva, con una forte produzione, la necessità di grandi locali o magazzini per lo stoccaggio e l’ultimazione della produzione. L’essiccazione naturale della pasta napoletana permetteva di ottenere una pasta che reggesse la cottura, ottenendo la cosiddetta “pasta al dente”.

I produttori del Nord iniziarono a pensare metodi meccanici che potessero risolvere la questione. Si iniziò con una gabbia di legno ruotante posta in una stanza riscaldata. Lo strumento non garantiva un’essicazione uniforme della pasta qui inserita. Secondo le informazioni che ci dà Renato Rovetta, un’altra soluzione venne introdotta successivamente, per migliorare il risultato della gabbia. Era rappresentata da un ventilatore ed un calorifero che lavoravano abbinati. Il brevetto termo-meccanico fu depositato in Italia nel 1875. Lo stesso Rovetta, ci segnala un altro brevetto, del 1889. Il pastificio abruzzese di Filippo De Cecco, fondato nel 1887 (ancora esistente), utilizzava un procedimento più sviluppato, che aveva il vantaggio di essere poco costoso. Al di là di ogni singola innovazione, dal 1875 fino al 1904, vengono depositati molti brevetti che riguardano l’essicazione artificiale della pasta. L’ennesima innovazione viene presentata all’esposizione industriale di Parigi, del 1900, dal produttore Yberty e Cie in Alvernia. Consiste in tubi che convogliano aria in ambienti più ristretti, con una ventilazione “ottimale”.

Un passo decisivo viene compiuto, nel 1898, dal procedimento di Vitaliano Tommasini, industriale milanese, che verrà poi migliorato dallo stesso nel 1900 e nel 1901, con la presentazione di nuovi brevetti. Consiste inizialmente in un cassone con vassoi fissi, ventilato con l’immissione di aria ad una temperatura di 28 gradi, la temperatura del golfo di Napoli.
Ciononostante, Renato Rovetta, che brevetta un suo dispositivo meccanico nel 1903, confessa i limiti dei metodi di essicazione fin lì presentati. Purtroppo, l’innovazione di Tommasini risolve solo uno dei tre aspetti dell’essiccazione naturale (l’incartament). Con l’ulteriore problema di un costo ancora alto e non ammortizzato dalle vendite insufficienti. Ma è proprio lui, che si rivelerà il vincitore di questa gara creativa. La sua idea si basa su un maggiore controllo delle temperature. Le tre fasi dell’essiccazione naturale vengono risolte con un metodo universale in un solo passaggio. La cella, che contiene la pasta, viene sottoposta ad una temperatura di 30-35 gradi, per un tempo che varia da mezz’ora a due ore. La variabile dipende, oltre che dal formato della pasta, anche all’umidità registrata nell’ambiente. Per la seconda fase del rinvenimento, la pasta viene spostata in un ambiente fresco e umido, coperta da teloni contro la condensazione. La pasta lunga viene fatta riposare anche solo una notte, per poi passare in un locale di asciugamento finale. La pasta corta raggiungerà direttamente questo locale. L’ambiente verrà mantenuto a temperatura media stabile.

L’idea risolutiva di Rovetta, perciò, permette una perfetta essicazione in modo artificiale e, soprattutto, in tre/cinque giorni, cioè la metà del tempo dell’essiccazione naturale. Presenta anche il vantaggio di essere maggiormente igienica. Tuttavia, i pastai meridionali perseverarono nell’essiccazione al sole, per ancora molto tempo. I pastai del Nord, con l’invenzione dell’essiccazione artificiale, raggiunsero per la prima volta la qualità dei meridionali, con il vantaggio di una maggiore potenzialità produttiva.

 

Renato Rovetta, innovatore e creatore di moderni brevetti

 

I migliori cervelli italiani, alla fine dell’Ottocento, si misero al lavoro nella ottimizzazione delle varie fasi del lavoro dei pastai. Questo partendo dai motori azionati grazie al vapore o con l’elettricità. Le fasi del mestiere erano principalmente quattro: l’impastamento, la gramolatura, la torchiatura e essiccazione. L’obiettivo era la trasformazione dell’attività in un ciclo continuo, che producesse un unico grande passaggio perfettamente automatizzato. Le aziende metalmeccaniche, molto attive, lavoravano sul continuo miglioramento delle soluzioni già trovate. Quindi lavoravano non solo nella ideazione di nuove attrezzature, ma anche sulla sostituzione di macchinari antiquati, mandati in soffitta, in un mercato in forte rinnovamento.
Tra gli ingegneri che si applicarono in questi studi, citiamo Renato Rovetta, innovatore e creatore di moderni brevetti. Egli si cimentò nell’invenzione di una macchina ”universale”. Questo rimase per lungo tempo, un sogno irrealizzato. Solo nel 1933, le officine Braibanti di Milano produssero questa macchina “totale”, in grado di effettuare le prime tre fasi del processo in un ciclo unico, esclusa, quindi, l’essiccazione. Nel 1937, la società dà vita al primo impianto completamente automatizzato per la produzione di pasta, che venne presentato alla fiera di Milano di quell’anno. Purtroppo, era in arrivo la seconda guerra mondiale.
Dopo il conflitto, tutte le carte erano in regola, per gli investimenti e per l’avvio di una seconda industrializzazione. Grande era la produttività, più veloce e meno costosa, soprattutto sotto il profilo della manodopera.

 

Le nuove tecnologie per la produzione della pasta

 

Nelle regioni dell’Italia Settentrionale, o in Francia, nella Provenza, sorsero pastifici moderni perfettamente meccanizzati, azionati da motori instancabili. Nelle regioni meridionali, invece, già in storico ritardo, ci si mosse lentamente verso la meccanizzazione, che comunque, alla fine, arrivò anche al Sud.
Nei pastifici la produttività aumentava se si migliorava l’efficienza stessa delle macchine a disposizione. Così assistiamo all’introduzione di nuovi macchinari o al perfezionamento di quelli consueti come la gramola a stanga. Tra le innovazioni: i torchi orizzontali, dotati di grandi ruote a forma di pala.
Con un mercato in forte crescita e la possibilità di una meccanizzazione per l’aumento della produzione, il settore della pasta richiama finanzieri, imprenditori e ricchi commercianti, che investono denaro e organizzano nuove realtà produttive. In più si apre un nuovo settore, quello dell’ideazione e produzione di macchinari per una sempre più sviluppata industrializzazione.

È il successo delle idee e dell’iniziativa. Ne è un esempio la società Guppy & Co, fondata da due ingegneri, nel 1853 a Napoli. Sebbene inizialmente si occupasse della costruzione e riparazione di locomotive a vapore, nei decenni successivi allargò il suo mercato di riferimento, costruendo motori e caldaie a vapore per mulini, frantoi da olio, torchi idraulici e attrezzature varie per la produzione della pasta. Uno di questi ingegneri, Giovanni Pattison, fonda con i suoi figli, nel 1864, la C.T.T. Pattison, che produrrà la prima gramola automatizzata, detta gramola a coltelli. Renato Rovetta, anch’esso ingegnere, la considerò la “migliore gramola per paste molli ad acqua bollente”. Ciononostante, a causa della forte concorrenza presente nel settore, la società svizzera Fratelli Bühler contrappose la sua gramola a molazza, che registrò un ottimo successo. L’invenzione poteva essere mossa indifferentemente dalle nuove energie del tempo, vapore o elettricità.
Nel 1880, ecco apparire la nuova gramola a rulli conici, costruita dalla società Ceschina e Busi di Brescia. Anch’essa ebbe ovunque molto successo, meno che a Napoli, dove aveva pure una succursale, perché nel napoletano si preferiva la gramola a coltelli.

Alla fine del secolo l’industria lombarda si afferma sul mercato metalmeccanico. La stessa fabbrica Ceschina e Busi viene assorbita dalla più grande Officine Riunite Italiane. Sempre di Brescia è la società Guglielmini. A queste si aggiunge, a Milano, la società Breda. In Piemonte si distingue la ditta Losa e Campo di Torino. Inutile dire che l’affermazione tecnologica della Lombardia su Napoli, significò uno sviluppo più deciso della stessa industria della pasta. Ciononostante, la società napoletana C.T.T. Pattison, mantenne la superiorità nell’ambito della creazione e produzione di macchinari per la pasta. Introdusse, infatti, sul mercato un torchio idraulico soprannominato ”a gotto montante”, veramente innovativo, che prese il posto del vecchio torchio a vite. La ricerca della soluzione globale, sarà rimandata al Novecento, ma la vasta gamma di attrezzature dà effervescenza ad un settore redditizio, data la forte domanda sempre in crescita. Tra le creazioni del periodo, ricordiamo il “voltapasta automatico”, che spinge automaticamente, la pasta sotto i rulli della gramola.

Ottocento: innovazioni e brevetti nel settore della pasta

 

Già nel Regno borbonico, agli inizi dell’Ottocento, si era sviluppata un’attenzione particolare verso l’uso di macchine e motori. Un po’ ovunque nel Regno delle Due Sicilie. Tanto che, a Napoli, iniziò ad operare la “Reale commissione per l’incremento industriale”. Le premesse, quindi, vi erano tutte. La commissione prese in considerazione diverse innovazioni e brevetti, anche nel settore della pasta. Vengono presentati strumenti con piccole modifiche. Come la variante alla gramola a stanga avanzata da Salvatore Savarese, pastaio, ma anche modifiche molto più complesse. È il caso dell’ingegnere Cesare Spadaccini, che fa esaminare il suo progetto di un “Novello e grande stabilimento di pasta con l’Uomo di Bronzo”. Quest’ultimo era una specie di robot, che impastava utilizzando i suoi piedi di legno. In pratica era un automatismo che replicava il lavoro umano degli operai, che in effetti impastavano anche con i piedi. Spadaccini, però, non era motivato a creare un nuovo macchinario, ma piuttosto era interessato a una modifica igienista. Ma non basta.

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Cesare Spadaccini si rivelò un utopista “ante litteram”, proponendo molte ulteriori idee. Prefigurava che il mondo dell’industria dovesse essere rigidamente regolamentato. Tale procedura era obbligatoria per i dipendenti. Innanzitutto, gli operai giunti alla fabbrica si svestivano utilizzando spogliatoi separati. Qui, dovevano lavarsi e cambiarsi d’abito, indossando una tuta da lavoro (la fornitura spettava all’azienda). Spadaccini prevedeva inoltre una serie di incentivi, come in caso di malattia o incidente; proponeva anche una piccola dote per le figlie degli operai validi, che andavano in sposa. In ultimo, lo stipendio doveva essere maggiorato, ma pagato per una metà in denaro e l’altra metà direttamente in natura, con la pasta prodotta dalla fabbrica stessa.
Tali concezioni si possono considerare innovative, nella misura in cui prefigurano il futuro del mondo industriale. Ma già nel 1830 lo scrittore Andrea de jorio considerò tutto questo come un pezzo da museo. Spadaccini aprì anche un proprio pastificio, dove cercò di applicare le sue idee. Inutile dire che non fece molta strada.
Le modernizzazioni da lui proposte, comunque le si voglia considerare, rappresentano l’alba di un settore in cambiamento. Altri imprenditori imiteranno le sue anticipazioni. In ogni caso, a partire dal 1850, bene o male inizia a svilupparsi quella che sarà la vera e propria industria della pasta.

 

Progresso meccanico della pasta: il futuro che arriva

 

Nicola Fenizio è visto come un demone, a Gragnano, dai suoi colleghi pastai, che, sindaco in testa, gli fanno la guerra, a difesa della loro professionalità e della qualità dei loro prodotti, che rimangono, comunque, artigianali. In ogni caso, la sovrabbondante produzione di Fenizio era divenuta tale da conquistare larghe fasce del mercato. L’industrializzazione era concorrenziale alle manifatture. La misura familiare dei piccoli pastai non era più sufficiente. Incapaci di modernizzarsi, ma anche solo di unirsi in attività maggiori a livello finanziario, la bravura non fu più sufficiente. Neppure esorcizzare Fenizio. Molte attività persero terreno e vennero travolte dal futuro che arrivava. Il progresso meccanico faceva parte di questo futuro, e gli sviluppi lo dimostrarono.

Purtroppo questa fase di transizione procurò le sue vittime. Oltre ai pastai, che chiusero la loro azienda, vi furono molti operai, che persero il lavoro, sostituiti dalle nuove macchine. Disoccupazione e miseria furono l’effetto dell’immediato futuro. Un danno, anziché un vantaggio. E se questo accadeva per i pastifici, lo fu anche per i mulini. Il potenziamento meccanico mandò a casa molti operai. Il malcontento era tale, che, nel 1878, ne uscì la rivolta chiamata “delle marsigliesi”. Ci si riferiva non all’inno, ma alle macchine provenienti da Marsiglia. Queste setacciavano automaticamente le varie semole, mentre un sistema a motore, funzionante con aria in movimento, le aspirava. Quindi, la setacciatura manuale delle semole, svolta nei pastifici tra le attività iniziali, ormai non era più necessaria. Da qui nuovi licenziamenti.

Il vento, il sole e la giusta umidità, l’esperienza secolare dei mastri pastai, hanno reso Gragnano luogo ideale per la produzione della pasta di grano duro.

Nel 1878, con la miseria che dilagava, causata anche dalle macchine introdotte, scoppiò la rivolta degli ex operai e di tutti coloro che vivevano nel malcontento. Durò per cinque giorni e da Torre Annunziata si allargò a tutta la regione. I rivoltosi assaltarono sia mulini che pastifici, distruggendo e martellando, con danni gravi alle macchine, causa dei tumulti stessi. Vi furono risse e scontri. Dovette intervenire la polizia ed i militari dell’esercito, per sedare la rivolta.

Quando, nel 1884, la tassa sul “macinato” fu tolta dal governo, l’impulso creò le condizioni giuste per uno sviluppo industriale nei vari settori. Senza più nessun ostacolo frapposto.

La “rivoluzione industriale” dei motori a vapore

 

A BARI
A Bari (Puglia), nel 1870, Giuseppe Avella, apre il suo pastificio. Questo è dotato di 5 torchi idraulici della potenza di 16 cavalli vapore, la cui costruzione si deve alla C.T.T Pattison di Napoli. Quindi, un’altra fabbrica all’avanguardia presente nel Mezzogiorno. Lo sviluppo rallentato, soprattutto imprenditoriale, condizionò, comunque il mercato barese. Contemporaneamente, ad Avella, infatti, Filippo Giove, imprenditore barese, la cui colpa era solo quella di essere proprietario di un mulino meccanizzato, venne messo sotto convocato dalla commissione di inchiesta per l’industria, per il periodo tra il 1860 ed il 1870. Lo stesso Filippo Giove ci attesta la qualità del grano duro coltivato in Basilicata, un potenziale enorme per lo sviluppo di mulini e pastifici.
Uno scritto del 1895, ci riporta la presenza, sempre nella provincia di Bari, di 120 pastifici, di cui, però, solo 16 sono dotati di attrezzature azionate da forza motrice a vapore.
Quello che manca, oltre all’imprenditorialità, sono i capitali e le associazioni di industriali, che battano la concorrenza, “per cui l’industria non può perfezionarsi” (Filippo Giove). Se rari sono i pastifici industriali, ancora meno sono le associazioni di imprenditori della pasta, che uniscano le proprie risorse finanziarie, per rendere forte l’azienda. Un esempio di questa possibilità è il pastificio “Montrone-Travaglio”, di Bari, che venne costituito da 10 pastai uniti in cooperativa, nel 1887. Tutto lo stabilimento era ricco di una macchina a vapore da 30 cavalli. In esso lavoravano 50 operai e raggiungeva una produzione di 20 quintali di pasta al giorno. I suoi prodotti coprivano l’intero mercato italiano, ma parte della produzione era anche destinata all’esportazione. Era ancora esistente alla data del 1912.

A NAPOLI
Lentamente, ma progressivamente, la “rivoluzione industriale” dei motori a vapore investe, nello stesso periodo, anche Napoli. A Torre Annunziata e Gragnano appaiono i primi pastifici a motore. Da un testo contemporaneo, che analizza lo sviluppo delle industrie della pasta nella provincia, sappiamo che a Gragnano vi erano 3 pastifici e 11 a Torre Annunziata, mossi da motori a vapore o a gas.

A MILANO

Lo sviluppo del settore, viene investito da nuove invenzioni. Nel pastificio Tommasini di Milano, ad esempio, le macchine vengono azionate da elettricità prodotta
da un alternatore che gira mosso da una motrice a vapore. Ma non basta. Tommasini inventa e brevetta un sistema per ottenere un’essicazione artificiale perfetta. Infatti, il suo stabilimento è in grado di produrre, nel 1898, ben 300 quintali di pasta ogni giorno.

Dai maestri pastai alla rinascita tecnologica


L’innovazione tecnologica cambia gli scenari e le prospettive. Nasce l’industria della pasta moderna. Tutto dipende dall’energia. Si parte dal motore a vapore, per giungere a quello elettrico. Parallelamente cambiano i macchinari. Dopo un attento studio delle fasi e dei movimenti degli operai, vengono inventate macchine prima in ghisa e poi in acciaio. Diminuisce il numero degli operai, mentre si qualifica il mestiere dei pastai, che ora diventa di controllo della produzione.
Dalle botteghe della pasta medievali si arriva ai pastifici attuali. I macchinari permettono di decuplicare la produzione, in maniera più precisa e controllata. La rivoluzione tocca tutta la filiera produttiva, a partire dai mulini, che ora vengono mossi da motori a pistoni.

Cambia il mondo della pasta. Dai maestri pastai si arriva agli imprenditori, esperti del mestiere, ma anche degli aspetti finanziari, perché le macchine costano molto e c’è bisogno di ingenti finanziamenti. È così che lavorano i pastai del Nord Italia. La loro produzione, ora meccanizzata, raggiunge velocemente e supera quella del Meridione. La vecchia esperienza e abilità tecnica, ora va in soffitta.

Si comincia dalla forza motrice del vapore, che aziona i torchi idraulici, che appaiono anche a Napoli, intorno al 1840. A questa data, un ricco commerciante del posto, Nicola Fenizio, apre a Gragnano una fabbrica attrezzata proprio con quattro torchi idraulici. La sua produzione schizza alle stelle, mettendo in serie difficoltà gli altri pastai. Immediatamente, la corporazione chiede la chiusura della fabbrica. Sta di fatto che la nuova tecnologia appare sulla piazza di Napoli. D’altra parte, in periodo borbonico, dove più o dove meno, si è all’avanguardia in alcune attività: come ad esempio la pasta prodotta da Nicola Fenizio. Altre fabbriche ed altre regioni del Sud proseguono nelle tecniche tradizionali e solo dopo l’Unità d’Italia inizia una vera riflessione.

La grave crisi del “macinato” apre l’era industriale

 

Nel 1868, il settore della pasta e l’Arte bianca in generale, entrano in una grave crisi economica. Questo si deve alla promulgazione della famosa “tassa sul macinato”, da parte di uno dei primi governi dopo l’Unità d’Italia. La legge finisce per colpire le attività manifatturiere non ancora meccanizzate e, in particolare, i vecchi mulini idraulici. Poiché queste piccole aziende si trovano in gran parte al Sud, cosicché il Meridione entra in una grave crisi.

Nel 1878 dei mugnai di Gragnano presentano una petizione al governo. In questo documento viene illustrata la tragicità del momento. Partendo da una realtà florida, con 32 mulini idraulici e 110 pastifici, dopo la legge, molte delle attività falliscono o sono costrette a chiudere, per mancanza di utili. I 14.000 abitanti di Gragnano, così, oltre al pane perdono anche il lavoro. Inutile dire che molti piccoli mulini ad acqua furono costretti a chiudere, qualche altro a meccanizzarsi con motori a cilindri, già presenti nel nord Europa. Nel disastro, purtroppo, impera la lentezza nel rinnovarsi.

Nel Meridione il colpo è più duro. In Sicilia, nella provincia di Palermo, in questo frangente, si contano solo 30 mulini a vapore e 478 ad acqua. In provincia di Messina, addirittura esistono appena 20 mulini a vapore contro 637 mulini idraulici. Le attività molitorie, molto frammentate e di piccole proporzioni, non sono in grado di resistere alle richieste economiche e di mercato. Ciononostante, è proprio da questa grave crisi che parte la riscossa degli imprenditori, che affronteranno con decisione la necessaria meccanizzazione a motore delle loro attività.
Alla crisi del macinato, si aggiunge il potenziamento dell’industria della pasta francese, in concorrenza con quella italiana. In pochi anni, dal 1870 al 1873, infatti, le esportazioni in Francia si dimezzano, perdendo anche fette di consumatori nell’Italia del Nord.

I mangiamaccheroni nelle strade di Napoli

 

In uno scritto del 1758, vengono riportate informazioni sul consumo alimentare della città di Napoli. A quella data risulterebbe un consumo di 140.000 tomoli di pasta, mentre il quantitativo di farina per la lavorazione del pane è di 300.000 tomoli. I dati sono riferiti ad una popolazione di 350.000 persone. Quindi la produzione del pane risulta il doppio di quella della pasta. C’è da chiedersi il perché di un modo di dire che vuole i napoletani come “mangiamaccheroni”. Forse perché i turisti a Napoli, passeggiando per le strade, occupate anche da pasta stesa al sole, potevano mangiare un piatto di pasta condita con formaggio grattugiato, direttamente sul posto con le mani. Il tutto pagando poco.

I maccheroni con sopra una salsa di pomodoro, oppure un timballo di maccheroni, diventeranno il simbolo della città partenopea, icona dell’Italian food. Guarda caso a Napoli è stata inventata la pizza, chiamata, appunto, “pizza napoletana”. Dalle ricette più semplici a quelle più raffinate e complesse, la cucina italiana si differenzia da tutte le altre cucine del mondo intero, anche per la pasta molto apprezzata ovunque.

A Parigi il successo delle paste italiane

 

A PARIGI
Aumentando la richiesta aumentò la produzione. La pasta italiana globalmente iniziò a guadagnare un posto di eccellenza nelle corti europee, che presero a consumare pasta italiana. Ad attestarlo anche il cuoco dell’ambasciatore inglese a Torino, Francesco Chapusot. A testimonianza di ciò, le varie tipologie di pasta italiana all’estero iniziano ad essere chiamate specificamente “pâtes d’Italie”. Ad usare l’espressione sono diversi cuochi stranieri, tra cui Malouin e, soprattutto, Grimod de la Reynière, un Artusi francese, che pubblicò il libro di cucina intitolato “Almanach des gourmands”, nel 1807.

A Parigi, già nel XVII secolo, si consumano “potages” (minestre) rigidamente con pastina di Genova di diverso tipo, come fidelly, lasagny o carcosonny, un tipo di pastina attualmente sconosciuto. Sulle tavole parigine, all’inizio del XIX secolo, arriva la pasta italiana, anche se la produzione locale ne argina il successo. Ciononostante, i cuochi francesi raccomandano l’uso di pasta italiana, perché quella francese ha un brutto colore, si spezza e non tiene la cottura. Tutto questo lo desumiamo dal cuoco rinomato Antonin Carême, che in un suo testo presenta la ricetta del “timballo di maccheroni alla milanese”.
Di qualità superiore, la pasta italiana di Napoli e Genova ottiene un successo internazionale tale, che perdura tutt’oggi: la pasta secca circoscritta ad ambito produttivo esclusivamente industriale, la pasta fresca limitata per lo più alle mura domestiche.