L’amaro racconto di un declino epocale

 

Non amo le ricorrenze più di tanto; ma piace pensare a Tomasi di Lampedusa che, a sessant’anni dalla morte, su di una nuvoletta se la ride con soddisfazione. Ha sbertucciato tutti i detrattori. A cominciare dal conterraneo Vittorini che riteneva il Gattopardo «Vecchiotto» e ne respingeva la pubblicazione «nell’assoluta impossibilità di prendere impegni o fare promesse, perché il programma dei “Gettoni” è ormai chiuso per almeno quattro anni». Fuori dalle scelte editoriali di Einaudi, e poi di Mondadori, grazie a Bassani e Feltrinelli il Gattopardo è ancora sulla bocca di tutti. Chi ricorda più il Dottor Zivago di Pasternak o Il tamburo di latta di Grass, capolavori di due Nobel, di quegli anni, toppati da Vittorini? Niente mitizzazioni: Il Gattopardo non è un’opera dal valore assoluto, lo sosteneva persino Francesco Orlando, che con Gioacchino Lanza, seguì le conversazioni letterarie di Tomasi, concepite come lezioni solo per loro due amici. Eppure quel romanzo – scritto da un autore appartenente «a una generazione disgraziata, a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due» – ha delineato un’epoca che tarda a rinsecchire. Il trasformismo gattopardesco, legato alla conservazione di potere e privilegi, si ripropone infatti nelle strategie degli ancora attuali salotti chiusi: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». A ben guardare, però, fuori dalle finestre qualche barlume c’è. Due giovani autori messinesi, hanno scorto una ventina di fuochi nella notte siciliana. Il Canepardo di Alessandra Rando ed Edoardo Lipari rintraccia risorse creative, raccoglie esperienze protese al cambiamento. Il Canepardo, dicono, è antagonista del Gattopardo: non diffonde decadenza ma positività e ottimismo. Se così fosse davvero, Tomasi di Lampedusa accrescerebbe la sua soddisfazione.

Pubblicato su 100NOVE n. 31/32 – 3 agosto 2017

Fonte immagine: Tomasi di Lampedusa

La fortuna arride solo a chi crede nel futuro

 

Guido Signorino utilizza la pagina Facebook in maniera compita ed efficace, con note informative dalle quali scaturisce il dialogo diretto con i follower. Nel ruolo di assessore al turismo ha postato la notizia del meeting sulle attività di benvenuto a terra dei croceristi, tra Comune di Messina, Autorità portuale, Corporate Tour Manager dell’Ufficio MSC di Ginevra e staff di accoglienza a bordo della nave MSC Meraviglia. Si è dato risalto al programma dell’ATM riguardante le linee dedicate agli itinerari d’interesse culturale verso i musei cittadini, i Forti umbertini, i lidi fino al Capo Peloro e le tappe enogastronomiche. Le nuove corse saranno fruibili sia dai turisti, per favorire la conoscenza del territorio, sia dai cittadini come attività di svago estivo. Con giusta soddisfazione, Signorino commenta che attraverso la presenza massiccia dei crocieristi si avvia il progetto di valorizzare le potenzialità urbane. «Per fare del turismo una fonte di sviluppo economico è adesso necessaria la realizzazione degli investimenti sulla promozione del territorio e sulla qualità dell’accoglienza, che l’amministrazione ha programmato e avviato a finanziamento». Bene. Suggerirei, però, uno step intermedio: tirare a lucido la città, restituendole il decoro che le compete. Questo perché, quando Messina rappresenta l’unico scalo dell’isola, dall’esperienza messinese i croceristi trarranno l’immagine dell’intera Sicilia. Per farlo – come Siddhartha, fuori del Palazzo paterno, recepisce la cruda realtà del mondo – occorre sforzarsi in un esercizio minimo: seguire la rossa segnaletica di terra e, perlomeno lungo i percorsi turistici, eliminare cassonetti, sporcizia, insegne inadeguate e imbrattamenti murari. «Luce e ombra sono due lati della stessa medaglia. Una non può fare a meno dell’altra. Sono indissolubili» (Hermann Hesse).

Pubblicato su 100NOVE n. 30 – 27 luglio 2017

Fonte immagine: MSC Meraviglia

A domare i nostri roghi può aiutarci Camilleri

 

Il caldo asfissiante, l’acqua razionata, gli incendi dolo(ro)si, mi inducono a scrivere una nota un po’ più leggera, come quel ricciolo di cenere che si è posato sulla mia scrivania. Molti sentenziano: più che “arrestare” occorrerebbe “arrostire” gli insensati piromani che mandano in fumo ettari di bosco. Quale giusta legge del contrappasso. Potremmo rivolgerci a Lullina – dico io – la “picciliddra” che, strada strada con il nonno, ascolta le incredibili favole inventate apposta per lei. Questa mattina, però, Lullina è svagata e pensosa. Ha sognato un nanetto di giallo vestito, che le ha rivelato la formula magica per dissolvere qualcheduno nel nulla: «Si dicono sette parole mammalucchigne e si sparisce». Lullina muore dalla voglia di fare una prova. Pensate se, mentre pronuncia le sette magiche parole, gli incendiari sparissero in una fiammata al solo sfregare la loro minuscola capocchia di fiammifero. Non è certo questo uno dei tre finali alternativi che Andrea Camilleri ha imbastito per “Magarie”, il suo recente “racconto di incantesimi e magia” col quale torna a suscitare la curiosità dei bambini. Ma in tal senso potrebbe concepire un ulteriore epilogo, attento com’è ai guai amari della sua Sicilia. Camilleri ha pubblicato l’edizione illustrata di questa storia, riguardo alla quale rivelava nella passata edizione: «Scrissi la prima favola della mia vita tre anni fa e non per i nipoti, come la mia vantata e felice condizione di nonno potrebbe far pensare. Me la “commissionò” una cooperativa di detenuti ed ex detenuti: mi venne chiesta, espressamente, una favola amara. Io scrissi “la magarìa”. In un certo senso ci pigliai gusto e così, di tanto in tanto, mi capita di comporne qualcuna». Non ho letto la nuova versione, ma quella vecchia sì. Parola mia, vi posso assicurare che, quanto i roghi nostri, è amara assai.

Complicare è da tutti, semplificare è difficile

 

Chi fa impara, chi vede ricorda, chi ascolta dimentica. Uso questo assioma di Bruno Munari, per continuare il discorso intrapreso sul tema dell’apprendimento. Munari sapeva usare un linguaggio chiaro e lineare per spiegare concetti complessi. Sapeva farlo perché interessato a conoscere la natura delle cose, per poi comunicarle nella loro essenzialità. Sorrido pensando che molti davanti ad un capolavoro d’arte contemporanea esclamano con stizza: «Questo potevo farlo anch’io!». Sottolinea Munari che l’espressione rimarca il non voler «dare valore alle cose semplici, perché a quel punto diventano quasi ovvie. In realtà quando la gente dice quella frase intende dire che lo può Rifare, altrimenti lo avrebbe già fatto prima». La semplificazione è frutto di una metodica ricerca. Per i più, complicare fa sembrare tutto più importante; mentre è semplificare l’impegno più difficoltoso. «Per semplificare bisogna togliere e per togliere bisogna sapere cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuole fare». Togliere, anziché aggiungere, configura il percorso verso l’essenzialità. Questo ha reso immortali Marcel Duchamp o Andy Warhol. La loro opera ha superato i confini del tempo, quando gran parte del lavoro di artisti, oggi sopravvalutati, scomparirà in un batter di ciglia. Con intelligenza è possibile semplificare. L’intelligenza è quel mezzo che tutti abbiamo a disposizione per esplorare il mondo esterno, per raccogliere e relazionare dati; quel mezzo per osservare, attraverso l’immaginazione, ciò che fantasia, invenzione e creatività permetterebbero di ideare, se decidessimo di usarle. «Non è la colla che fa il collage», diceva Duchamp, bensì la facoltà della mente ad unire i ritagli uno all’altro, come in un gioco di pazienza.

Avere competenze significa vincere sfide

 

Competenze e conoscenze sembrano due termini equivalenti. Anni fa cercavamo un disegnatore per il nostro studio di architettura. La mia domanda era: come si effettua l’esatto rilevamento di uno spazio avendo a disposizione soltanto una rullina. Il rilevamento è analisi, selezione, sintesi di una realtà oggettiva e i grafici dovranno raffigurarne gli aspetti geometrici, costruttivi, d’uso. Ma a me interessava unicamente sapere come quel disegnatore avrebbe riportato su carta i dati metrici dedotti in cantiere, senza misurare angoli, ma soltanto lati. Era una domanda elementare la mia, alla quale su di una ventina di aspiranti rispose solo un geometra fresco di diploma. Gli altri confondevano la trilaterazione con la triangolazione. Alle insufficienti conoscenze geometriche corrispondeva la totale mancanza di competenze. Il concetto di competenza indica come una persona sa utilizzare le proprie risorse per fare fronte a situazioni spesso complesse, senza per forza ricorrere a dispositivi tecnologici. Il sapere disciplinare sarebbe gran cosa, ma è soltanto una parte delle competenze. Alle risorse conoscitive occorre aggiungere, infatti, risorse cognitive. Occorre cioè saper pensare: osservare, confrontare, ragionare, prendere decisioni, prevedere e risolvere in anticipo possibili problemi. Occorrono, in più, risorse personali: alcune innate come tenacia o creatività, altre acquisite con l’esperienza. Su tutte vale l’assunzione di responsabilità: «Non lo so». Esistono, poi, risorse sociali da saper gestire: lavorare in gruppo, considerare il punto di vista altrui, collaborare piuttosto che ostacolare, condividere (non solo social). Una cosa, però, è certa: non esistono competenze senza conoscenze specifiche e non generiche. Paoletto sapeva cosa fosse un rilievo: come rilevare trilaterazioni con una rullina e disegnarle con un semplice compasso.

Fonte immagine: Parphoenix

Pubblicato su 100NOVE n. 27 – 6 luglio 2017

Là dov’erano Guercino e il divino Antonello

 

San Gregorio: una chiesa messinese scomparsa. È il volume curato da Giovanni Molonia per il Rotary Club Messina presieduto da Paolo Musarra. Non il prodotto della nostalgia, ma un’opera scientifica che aggiunge tasselli alla memoria della città perduta. Riunisce in queste pagine i puntuali documenti inediti che una schiera di specialisti ha raccolto e analizzato, come quelle belle pergamene greche e latine reperite a Parigi o i resti del terremoto conservati nella Filanda Mellinghoff e oggi nel MuMe. Tra gli autori Franca Campagna Cicala che per anni del Museo ha curato gran parte dell’ordinamento e i colori dei marmi mischi di San Gregorio li porta negli occhi. Ma c’è anche chi, come Alba Crea, negli occhi ha il panorama di Messina e della Calabria, cresciuta nell’isolato insistente sul sito della chiesa distrutta. Ma, sul colle della Caperrina, allora ci si affacciava dalla spianata balaustrata quasi «messa là per salvare il sacro luogo da ogni mondana contaminazione» (Guida 1902). Si raggiungeva dal Duomo, risalendo la stretta via dei Librai. Ed è sui libri che la maggior parte dei messinesi ha conosciuto San Gregorio: ne hanno scritto Buonfiglio Costanzo, Samperi, Susinno, Gallo, Grano, La Farina, La Corte Cailler, Salinas, Accascina. Tutti distinguono la chiesa per quella sua cupola a chiocciola, innalzata nel 1717, forse su progetto di Paolo Filocamo, con chiaro riferimento a Sant’Ivo alla Sapienza che Borromini realizzò a Roma su di un rivoluzionario impianto geometrico simboleggiante la Trinità. Anche San Gregorio aveva pianta centrale, ma nella classica croce greca, con un braccio appena più esteso. Filippo Juvarra vi lavorò da giovane, nel presbiterio. Qui si guadagnò la presentazione della badessa Ruffo per continuare gli studi di architettura a Roma. Come dire: dalla provincia al centro del mondo.

Fonte immagine: XILOGRAFIA DI BARBERIS 1892

Pubblicato su 100NOVE n. 26 – 29 giugno 2017

Godiamoci la festa! Poi afferriamo il futuro

 

L’apertura del MuMe (Museo regionale interdisciplinare di Messina) – questa volta completo delle sezioni del Medioevo, Rinascimento, Seicento, Settecento e Ottocento – inorgoglisce la città. È inutile fare nomi: quando si brinda sono tutti bravi. L’anteprima della festa era già avvenuta nel dicembre scorso, quando hanno visto luce il settore archeologico e l’ala nord con il Manierismo, la ”piazza” di Montorsoli, i due dipinti di Caravaggio e la selezione dei caravaggeschi. Oggi sono tornati all’ammirazione dei visitatori anche i dipinti di Antonello: il ”Polittico di San Gregorio”, la tavoletta bifronte della ”Madonna col Bambino e un francescano orante”, il ”Cristo in pietà” esposto a Taormina in occasione del G7. Abbiamo finalmente il Museo; ma con i beni disponibili, all’interno dei nuovi ambienti di ampio respiro, necessiterà utilizzare tutti gli strumenti indispensabili per una gestione del patrimonio culturale indirizzata alla valorizzazione e alla promozione. La riforma Franceschini, in atto, evidenzia l’esigenza di iniziative per focalizzare l’attenzione verso il patrimonio culturale. Perciò, anche nel nostro Museo riconquistato, sarà opportuno attivare azioni di comunicazione e marketing, sinergie con i settori del turismo e dell’istruzione, tecnologie multimediali. Sono compiti di quanti operano per animare questo prestigioso luogo di cultura, così da evidenziare, unitamente all’assessorato regionale, competenze di management gestionale e finanziario. La classe politica, in primis, dovrà dimostrare di saper richiamare le basilari risorse. Non potranno sottrarsi neppure gli Enti locali, a cominciare dal Comune che dovrà almeno assicurare servizi logistici dedicati a soddisfare il flusso croceristico. Godiamoci la festa, dunque, perché da ora si può davvero pensare di afferrare il futuro.

Fonte immagine: Messinaora.it

Contemporaneo? Conta cento anni

 

Mi chiedono cosa sia contemporaneo e quando, invece, possiamo parlare di eredità del passato. Rispondo semplicemente: c’è un passato prossimo e uno remoto. Se neppure un centenario può raccontare certi fatti vissuti in prima persona, allora parliamo di passato remoto. Dalla voce di costui ascoltiamo in presa diretta ragguagli sugli anni recenti, vicende riscontrate personalmente oppure tramite qualcun altro, magari utilizzando i mezzi d’informazione. In altri termini c’è un numero di persone con le quali direttamente o indirettamente entrare in contatto. A conti fatti, gli ultimi cento anni o poco più sono testimoniati da quattro generazioni: noi, i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni. Nonostante ciò il ricordo diretto, progressivamente, si affievolisce fino a dover essere affidato del tutto agli archivi della memoria. Quando ci rivolgiamo persino al passato familiare abbiamo bisogno di una vecchia fotografia che ci rammenti un parente, un luogo o una situazione. Col trascorrere del tempo il ricordo diviene sempre più legato ai sentimenti anziché ai fatti concreti. La prima immagine conservata dell’infanzia: quante volte s’è modificata nella mente, tanto da confondere realtà e immaginazione? Ė frutto del nostro ricordo o del sovrapporsi dei racconti tramandati in ambito domestico? Contemporaneo è, quindi, il tempo in cui l’eredità delle nostre consapevolezze ė tangibile, perché sappiamo a chi o a cosa ricorrere per soddisfarle. Persino l’Enciclopedia allineata negli scaffali della nostra libreria è contemporanea: acquisto fatto per acculturarci sul presente, ma anche su ciò che gli attuali studiosi pensano del passato. L’Enciclopedia di Diderot, invece, la troviamo nella biblioteca pubblica. È conservata per ascoltare, del passato, la voce dei protagonisti. Perché quel passato è veramente passato.

Palacultura, una squadra per costruire piramidi

 

Una battuta di spirito potrebbe essere di favorevole auspicio per il futuro. Al Palacultura durante l’allestimento della mostra “Messina da Capitale della Sicilia a Città Metropolitana”, Antonio Virgilio misura una bacchetta di legno e vi appone a matita alcune tacche di riferimento. Da quel momento il montaggio corre spedito. «È lo stesso sistema – dice – che adoperavano gli Egizi per costruire piramidi». Rispondo fra l’ilarità dei presenti: «Abbiamo istituito una squadra per costruire piramidi». La realtà è che quella bacchetta, trasformata in un regolo, ci ha ricordato l’entusiasmo dei nostri vent’anni, al tempo in cui, pure con mezzi di fortuna, sapevamo portare a compimento quanto prefissato, senza se e senza ma. È stata definita una mostra elegante, efficace a suscitare emozioni: sia negli anziani – qualcuno ha commentato: «Una Messina guardata con gli occhi della nostra giovinezza» – che negli adolescenti, intenti a riscoprire nei luoghi di oggi, segnati in rosso sulle tavole del piano Borzì, la trama minuta del tessuto scomparso con la città antica. Perché l’idea, scaturita per il “Maggio dei Libri” promosso dall’Assessorato alla cultura, è stata riprodurre in digitale le pagine di un grande album illustrato, in cui magicamente incollare le immagini di una città trasformatasi sotto gli occhi di tutti. Sono state raccolte negli anni da un amorevole collezionista e messe a disposizione per il quarantennale dalla fondazione del Kiwanis Messina, presieduto da Giuseppe Lo Paro. Così, aderenti o meno al Club, ci siamo trovati con Giovanni Molonia, Caterina Ciolino, Vittorio Potestà, nello studio di Luciano Ordile, a soffermarci su quelle innumerevoli foto disseminate su di un grande tavolo, anellando discorsi sull’anima che – trovata, persa e ritrovata ancora – rese a Messina la magnificenza di Capitale.

Pubblicato su 100NOVE n. 23 – 8 giugno 2017

Boldini: «L’arte è fragile, soprattutto a Palermo»

 

Franca Florio, non si fa che parlare di lei. La «stella d’Italia», così l’aveva magnificata Guglielmo II di Germania, incantato nella bella villa all’Olivuzza dal suo fascino abbagliante. Lo sanno coloro che ne hanno contemplato il ritratto in marmo bianco patinato, scolpito da Pietro Canonica tra il 1904 e il 1907. L’opera affianca al Complesso del Vittoriano a Roma l’altro celebre ritratto, a figura intera, consacratole da “le peintre italien de Paris” in occasione della Mostra fra maggio e luglio a lui dedicata: Giovanni Boldini, il genio della pittura. Dopo avere mitizzato le “grandes femmes” della mondanità parigina, col suo estro creativo ha provato a soddisfare Ignazio Florio, che nel 1901 lo chiamò a Palermo per raffigurare la radiosa bellezza della moglie. La tela in esposizione porta la data autografa del 1924, perché la sua storia è leggendaria. Nella versione presentata alla Biennale di Venezia del 1903 Donna Francesca Jacona di San Giuliano, Dama di Palazzo della Regina Margherita, indossa un ricco abito di velluto nero lavorato ad intaglio. Un putiferio. Don Ignazio rifiutò di vedere esibita la moglie «in una posa serpentina, più adatta a una delle demi-mondaines con cui Boldini era solito trastullarsi a Parigi» (Dario Cecchi). Chiese modifiche e le ottenne. Il dipinto del 1903 non è affatto perduto. Dagli scatti fotografici pochi immaginavano che, ritoccato, fosse il medesimo del 1924 in cui la bella signora compare con un nuovo abito dal taglio Déco. Forse il quadro adornò le pareti della casa romana di Donna Franca, ma è certo che solo pochi anni più tardi fu acquistato da Maurice de Rothschild ed esposto nel 1933 da Wildenstein a New York. Bella rivalsa, quella retrospettiva, per il rifiutato Bodini, liquidato alle prime avvisaglie del tracollo economico dei Florio.

Pubblicato su 100NOVE n. 22 – 1 giugno 2017